lunedì 19 marzo 2012

Lettere dal Sahara - Vittorio De Seta

lo rivedo dopo qualche anno, non è un film perfetto, ma è vivo e necessario.
c'è qualche schematismo, forse, magari è anche didascalico, dice qualcuno, nella prima parte, quella ambientata in Italia, ma poi il film vola e tocca vette davvero alte.
da non perdere - Ismaele




Sono tanti i pensieri correlati ad un film di questo genere, temi come lo "sviluppo senza progresso" di pasoliniana memoria, o sull'intolleranza che spesso non è altro che semplice invidia.
"Lettere dal sahara" sicuramente pecca quanto a dilatazione dei tempi, facendo apparire eccessive le due ore di montato, ma meglio un film sincero e comunque utile come questo, che tanti altri spesso mossi da studi sulla psicologia del pubblico o da interessi privati
.

De Seta non è cambiato. Sono cambiati però i tempi e nella mancata percezione del loro divenire si sente (non solo sullo sfondo) qualche scricchiolio di sceneggiatura. Perché la storia del senegalese Assane si rifà indubbiamente a situazioni reali che subiscono nel nostro Paese discriminazioni inaccettabili. Il problema è che del protagonista si fa una sorta di icona di bontà assoluta (tranne qualche pregiudizio sulla cugina troppo emancipata) che ha tutti i tratti della retorica. L'apice si raggiunge quando il 'buon' africano arriva nell'appartamento della 'buona' insegnante di italiano per accudire il fratello psicolabile (ma 'buono' e convertibile anche lui in un amico da aiutare nel corteggiare le ragazze) e riesce con un clic a far ripartire un computer in panne (non si sa perché lasciato acceso). È didascalismo allo stato puro che purtroppo rischia di ottenere l'effetto contrario al voluto…

Il film racconta il drammatico viaggio da Sud a Nord di un giovane senegalese, che dopo un terribile viaggio in nave e il primo impatto con la burocrazia, riesce a fuggire e a lavorare da clandestino in Italia, arrivando dalla Sicilia a Torino. Ma il finale è affidato a un ritorno in Africa, con un saggio che tira il filo di tutta la storia in modi quasi “didattici”. A suo modo, Lettere dal Sahara è un’“opera prima”; ci piace pensarlo come un punto d’inizio, con le generosità e gli errori di chi si lancia anima e corpo in un’impresa nuova. A non sapere chi l’ha diretto, lo si direbbe davvero, diciamo, l’esordio di un trentenne africano che cerchi di raccontarsi e raccontarci. La prima parte del film, mossa e poetica, ha una leggerezza da filmmaker che mostra felicemente come il regista abbia lavorato addosso alle cose, sfruttando le tecnologie leggere e l’improvvisazione. Poi, giunti a Torino, vien fuori una certa pesantezza didascalica, e il ritorno in Africa riallaccia il filo nei modi necessari dell’alta retorica. Ma in definitiva, Lettere dal Sahara appare soprattutto un modello produttivo e “di metodo” per molti giovani registi che abbiano voglia e curiosità di guardarsi incontro, interrogandosi sul cosa, il perché e il come filmare…

Ecco, quello sguardo sulla realtà continua a essere la lezione più attuale del suo cinema, anche in questoLettere dal Sahara (titolo moraviano, ma declinato al contrario: là un italiano che percorre il continente africano; qui un senegalese che risale lo stivale), suo travagliato ritorno alla regia dopo tredici anni dall’ultima volta; e non può fargli che bene, quindi, l’impiego di una tecnologia di ripresa leggera e non invadente come quella digitale, che De Seta utilizza con la sobrietà necessaria a una maggiore adesione alle cose. Soprattutto le battute iniziali, con l’arrivo avventuroso in barcone a Lampedusa e i primi contatti con le maglie sfrangiate di una politica di accoglienza che inevitabilmente tracima entro lo sfruttamento schiavistico e la piccola delinquenza sottoproletaria, mostrano la felice ispirazione del regista; che rielabora con notevole freschezza stili e linguaggio della docu-fiction, della quale può a ragione rivendicare una sorta di paternità in tempi non sospetti. Nel finale, invece, il ritorno a casa del protagonista (umiliato e offeso, a ritrovare, nella figura del venerato professore universitario, il contatto con la terra d’origine, le sue usanze, i suoi riti, in un imprevisto rigurgito di orgoglio) segna anche il ritorno del De Seta etnodocumentarista, a suo agio con l’alterità (geografica, culturale) più che con la propria identità; tanto più che gli riesce di caricare di risonanze ancestrali e mitologiche – il rapporto con l’acqua che ora minaccia, ora salva il protagonista – una vicenda volutamente progettata in una dimensione cronachistica, quasi banale nell’essere summa e sintesi di migliaia di altre analoghe…

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