mercoledì 19 ottobre 2016

Kreuzweg (Kreuzweg – Le stazioni della fede) – Dietrich Brüggemann

mi è venuto in mente Camino, in tutte le recensioni su Kreuzweg si citano diversi film, mai Camino, o l'ho visto solo io, o il legame fra i due film non esiste; credo che l'abbiamo visto davvero in pochi.
Kreuzweg è un film coraggioso, e rigoroso.
non c'è niente da ridere, in un film e in una religione che richiede sacrifici umani, di bambini, tra l'altro.
Maria è una ragazzina ostaggio di convinzioni del suo ambiente, famiglia e chiesa, il diavolo è fra noi, molta musica è diabolica, non si parla con i compagni, siamo soldati di Cristo, senza se e senza ma, con la pesantezza di un carro armato, magari anche la bicicletta è un'arma del diavolo.
se questo film non ti colpisce, o sei lefevriano, o ti sei addormentato, o sei morto.
meno male che quel dio della bibbia non esiste, esiste chi crede, e che di questa credenza fa business, di soldi e di anime.
buona visione - Ismaele








Il rigore della regia è assoluto e convincente, Brüggemann sa quel che vuole e si rivela regista di alto valore, perché ogni regia dovrebbe esser mossa da una scelta e dalla coerenza nell’applicarla e queste sono qualità molto rare. A tratti fa pensare a Bresson e ai nordici più “protestanti”. Sa costruire una storia quasi per atti unici drammaturgicamente autosufficienti, e ciascuno di un’intensità e di una pregnanza inusitate, ha un’idea di cinema non compiacente che invita insieme più alla riflessione che all’identificazione. Sa comunicare allo spettatore la tensione intima di Maria, che è spirituale più che sociale o culturale. Ma, come in un bel film di qualche anno fa, Lourdes dell’austriaca Jessica Hausner, Kreuzweg termina con il dubbio, nella giusta esigenza di rispettare chi ha la fede: è certo che Maria muore perché vittima di un’educazione intransigente e crudele (il giovane prete e sua madre sono figure antipatiche, anzi odiose), ma nel momento in cui muore il fratellino parla. Il suo sacrificio ha prodotto un miracolo? Si resta nel dubbio, e gli autori non scelgono fino in fondo la loro parte…

Il cinema ci ha raccontato molto spesso percorsi di santità laica, cioè donne (meno di frequente uomini) che senza alcun interesse o spunto religioso decidono di intraprendere un percorso faticoso, immolandosi in maniere non diverse da quelle tipiche dei martiri poi diventati santi, in una sorta di purificazione laica del proprio animo che è sempre contigua in maniera interessante a quella religiosa. Dietrich Brüggemann compie il percorso opposto e mostra apertamente quel brandello di vita della protagonista di cui si occupa il film come un vero e proprio percorso di santificazione religioso, con l'obiettivo dichiarato fin dalla caratterizzazione bigotta della famiglia di smontare tutto questo, salvo poi tirare un ultimo beffardo calcio nel finale.
Station of the cross non lascia nulla intentato e sembra voler spiazzare lo spettatore ad ogni svolta (o ad ogni stazione) e, mentre lo conduce su un percorso di deduzione dei valori in campo abbastanza semplice (lo capiamo immediatamente, fin dalla prima stazione, chi è la vittima, chi il carnefice e chi l'aiutante), non rinuncia ad instillare dubbi e complicare la questione. Perchè se qualcosa ci dice sul cinema questo film colmo di insofferenza per la religione, è che esso non deve essere come la fede, non deve vivere di dogmi e non deve convincere nessuno delle proprie tesi; il regista non è un prete che evangelizza le proprie tesi ma un uomo che racconta storie con l'obiettivo di mettere in crisi (quindi far riflettere lo spettatore)…

…Deviata da un’educazione bigotta cattolica la bambina al centro della storia desidera essere rigorosa, ha interiorizzato i precetti e li vuole eseguire alla lettera per aiutare il fratello malato. Tutta la forza d iKreuzweg sta nella maniera minimale, controllata e molto precisa con la quale la situazione sfugge sempre più di mano.
Se vi siete mai chiesti a cosa serva e che radici o motivazioni abbia lo stile rarefatto e lento del cinema più autoriale Kreuzweg è la risposta. Controllando tutto Bruggeman realizza effettivamente dei quadri, delle immagini in cui la composizione è al limite della perfezione tra estetica e funzionalità, tra montaggio interno (l’entrata e uscita dei protagonisti e il loro movimento nell’inquadratura) e scelte visive. Il tono dimesso della recitazione e il ritmo frenato sono la maniera migliore per entrare in una storia che è difficile da comprendere e frustrante da seguire. Quello raccontato infatti è un martirio che una persona infligge a se stessa per instradarsi su un impossibile percorso di santità ma Bruggeman lo fa senza un odio eccessivo o un punto di vista di condanna per la religione (tanto che inserisce anche personaggi dal credo più morbido)…

Kreuzweg – Le stazioni della fede è un film dove il “credere” che fonda ogni religione e ideologia genera uomini-mostri, i quali, convinti di intraprendere la più retta delle vie, in realtà la smarriscono irrimediabilmente fino a toccare l’esatto opposto della fede più sentita.
Ma non solo. Kreuzweg – Le stazioni della fede ci interroga anche su come nasce un santo, su chi può essere considerato tale e chi no. È santo colui che sacrifica la propria vita anche se Dio non gliel’ha chiesto? È santo chi, pensando di fare il volere di Dio, in realtà sta solo facendo il proprio, verso una liberazione che non è salvezza? Ecco quindi che il fondamentalismo, invece di innalzare, conduce al peccato, la fede non libera ma incatena, succubi di un Dio che non è più Padre ma Padre padrone.

Ovvio che Kreuzweg – Le stazioni della fede è un film completamento permeato da uno spirito anticlericale, ma il trattamento della questione non è mai solamente accusatorio, e, nonostante il funesto esito della vicenda, che non sveliamo, non sono pochi i dubbi che sorgono nello spettatore, che, se non viene mosso da un semplicistico spirito laico-progressista, è convocato a fare i conti con degli argomenti su cui non può non tornare ad interrogarsi, perché se è vero che non ci può immolare a un Dio fantasmatico e spesso assente, altrettanto disdicevole è smarrirsi nella vacua fluidità della società liquida contemporanea, inseguendo gli spettri degli ultimi scampoli di benessere rimasti. Un film in controtendenza dunque, che, pur denunciando l’eccesso religioso di una comunità, stimola non poche riflessioni su come interpretare i nostri tempi, privati di quella inesauribile riserva di senso che certe pratiche, pur erroneamente, paiono ripristinare, fornendo un illusorio barlume di speranza a chi brancola da tempo nel buio. Nel panorama dell’offerta cinematografica attuale, dunque, questo film si distingue, diciamolo pure, come un raggio di sole nell’oscurità, e di questa preziosa opportunità bisogna dare merito al distributore, Satine Film, che sta portando avanti una politica culturale davvero degna di lode. Caldamente consigliata, ovviamente, la visione…

Lo straordinario di questo film è che prende sul serio Maria e la sua aspirazione a un personale calvario, non la liquida trivialmente come una matta da legare, ce la racconta sospendendo ogni giudizio e standole invece vicino e facendocela amare. E anche se il regista (pure autore della sceneggiatura insieme alla sorella Anna, che pare abbia sperimentato un’educazione simile) ci mostra la durezza iper rigorista del contesto familiare e soprattutto della madre, si astiene da ogni rozza polemica antireligiosa…

…La fissità della narrazione  rimanda alla fissità della morte. Pochi i movimenti dei personaggi all’interno dei quattordici quadri. Esternamente la macchina da presa si muove la prima volta dopo un’ora e tredici minuti. Eppure l’intensità drammatica aumenta ad ogni pagina che si gira e ad ogni quadro che si esaurisce. Cresce un po’ alla volta la “pietas” del regista e dello spettatore verso questa quattordicenne indifesa, che, in preparazione alla Cresima, decide di “immolare” la sua vita per raggiungere Nostro Signore in paradiso.
Quello che è davvero inquietante in questo film è che la causa della morte è la fede cattolica. Una fede ossessionata dal peccato e dal demonio, implacabile verso i sentimenti, insensibile alle fragilità, senza nessuna misericordia, votata al sacrificio e all’autopunizione. Questa Chiesa è una specie di sètta giansenista,  anoressica all’amore e alla vita, che odia la musica moderna come fosse il diavolo.
Dietrich Brüggemann traccia il ritratto di una Chiesa cattolica che non esiste più, se non nella sua mente. Tira fuori della soffitta una Chiesa incartapecorita e arteriosclerotica, che non ha riscontro nella realtà di oggi. Una Chiesa che vive la sindrome dell’accerchiamento e che continua ad adoperare la lingua latina come una barriera contro le ondate furibonde del male

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