giovedì 5 giugno 2025

La collezionista - Éric Rohmer

la collezionista è una ragazza (Haydée) mangiatrice di uomini, e si trova in una casa di campagna con Adrien e Daniel che parlano molto, e filosofeggiano sulla morale che li guida, ma non cedono al fascino di Haydée.

il film (che inizia con dei ritratti dei tre) è tutto in questa attesa di quello che sembra non succedere.

Éric Rohmer è agli inizi della carriera, ma è già un solido regista.

cercatelo, nessuno se ne pentirà.

buona (erotica) visione - Ismaele



 

 

 

Con La collezionistaRohmer costruisce una pellicola in cui le parole, come nel resto della sua filmografia, sono il centro nevralgico. Il quarto capitolo dei “Sei racconti morali”, ovviamente non è da meno. Adrien, Daniel e Haydée, si confrontano costantemente, esponendo ognuno le proprie idee. Da queste tre figure, il film risulta quasi come una sorta di gigantesco brainstorming sui temi della seduzione, dell’amore e del bello.

Se non sono i dialoghi a parlare, ci pensa la voce narrante di Adrien, ad accompagnare le immagini. Come all’inizio, arrivato alla villa, espone per diversi minuti il suo intento di acquisire, nella sua vacanza, l’ozio estremo.

Ma importanti in questo film sono anche i silenzi, momenti che di solito si caratterizzano per lo sguardo della macchina su Haydée. Uno sguardo che a volte viene veicolato attraverso delle soggettive di Adrien, come quando passeggiando nel corridoio della casa, sbircia nella camera della ragazza…

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La Collezionista è un vero film di rivoluzione. Di e non sulla rivoluzione perché è solamente basato sulle idee e su come esse elaborino i pochissimi avvenimenti, spesso apparentemente insignificativi, che si susseguono in una qualsiasi vita umana. Non c’è politica, non c’è letteratura, non c’è pittura, non c’è musica… non c’è nulla di tutto ciò nei dialoghi e nelle riflessioni dei personaggi. C’è soltanto il sé.

Il sé come elemento del Tutto, e al contempo come entità a sè stante, prima fra tutte che sentiamo di dover accordare.

Non c’è storia. La storia è la storia del sé dei personaggi. In particolare di uno, Adrien, un giovane e aitante commerciante d’arte a tempo perso che si ritrova a condividere un mese delle vacanze estive in una villa nel sud della Francia assieme a un caro amico e a una ragazzina, re-interpretazione antiedipica di Lolita, che interpreterà il ruolo di scombussolatrice delle stasi dell’animo…

… Forse il dialogo più bello è in scena proprio quando il protagonista si confronta con il suo acquirente collezionista d’arte e dimostra la sua teoria del “ci vuole più coraggio a non lavorare che a lavorare” in virtù del fatto che il lavoro è qualcosa che non siamo in grado di mettere in discussione nella nostra vita. Per tutti noi è normale trovare un lavoro, ma questo cosa comporta? Comporta l’inserimento meccanico in un processo societario così come inscenò Lang nel suo celebre Metropolis del ’27. Una lunga catena di montaggio per la produzione di beni di assoluta non prima necessità, beni superflui che crediamo di volere e di necessitare. Chiamarsi fuori da tutto ciò è per Rohmer, coraggioso. Non agire, per agire contro una società del consumo e dello sfruttamento dell’uomo, che si ritrova così senza possibilità di dedicarsi al sé e a ciò che lo circonda, che è sempre parte del sé, e viceversa.

E tutto ciò lo si può desumere osservando un film nel quale nulla succede, oltretutto girato con una tecnica registica quasi improvvisata, in pieno stile nouvellevaguiano. Molte sono le scene in controluce, molte sono le inquadrature decentrate e il montaggio non segue minimamente quanto imposto dal découpage del cinema classico hollywoodiano. La suddivisione in capitoli del film è totalmente arbitraria e spiazzante. Il finale così improvvisamente troncato si conferma una delle migliori trovate dell’intera nouvelle vague, e ripropone quanto lo stesso Rohmer aveva già proposto nel primo dei racconti morali, il cortometraggio La Boulangère De Monceau. L’interpretazione degli attori è perfetta per l’occasione ma tutt’altro che accademica. L’immagine perde ogni sua importanza in favore della parola, grazie a una sceneggiatura tra le più forti che si siano mai viste al cinema, assieme a quelle di Bergman.

La Collezionista è un film adatto a pochi, non perché sia estremamente lento o pesante ma perché rischia di non essere compreso nella sua essenza. Per apprezzare questo film è necessario entrare in profonda empatia con quanto rappresentato, altrimenti si assisterà a un inutile susseguirsi di situazioni insignificanti.

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Una mise en scène scarna ed essenziale caratterizza l’opera di Eric Rohmer a cui riserva un’ambientazione bucolica, tipica dei sui film e che sottolinea il profondo legame con la natura. Digressioni filosofiche e letterarie affidate al protagonista maschile sono presenti in quasi tutti i dialoghi costruiti con gli stessi attori in fase di stesura della sceneggiatura. Patrick Bauchau è Adrien, un personaggio annoiato e soprattutto distaccato dal rapporto sentimentale che lo lega alla sua ragazza in partenza per Londra. È in qualche modo attratto da Haydée ma sa che cedere al suo magnifico corpo comporterebbe una scelta indegna per la sua morale e significherebbe cadere nella “collezione” della giovane. Daniel è interpretato da  Daniel Pommereulle e il suo è un personaggio aggressivo e particolarmente irritevole, tanto che spesso pare solleticare la bella Haydée per compiacersi della propria superiorità morale. Infine la protagonista femminile interpretata da Haydée Politoff è l’ambiguità incarnata, un mix di innocenza e sensualità che Rohmer ha saputo perfettamente cogliere e portare sullo schermo. La Politoff è a ragione una metafora del cinema rohmeriano: rappresenta l’essere umano nelle sue molteplici sfaccettature, nei suoi pensieri e ripensamenti, nelle sue convinzioni e nel suo cedere alla tentazione. La fisicità di Haydée riassume l’intento del regista francese teso a sondare la natura umana e in particolar modo il campo intellettuale dei personaggi. Anche “La collezionista”, in linea con la cinematografia di Eric Rohmer, non sottopone mai la storia a un giudizio critico bensì alla sola osservazione, quasi stessimo assistendo divertiti a un esperimento scientifico sulle (in)capacità umane di intrecciare rapporti.

Uno scorcio antropologico che nasconde per mostrare. Un cinema che prolifera e che – per nostra fortuna – non smette di sorprendere.

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Per quanto datato nel suo sfrontato intellettualismo e a tratti farraginoso nello sviluppo narrativo, LA COLLEZIONISTA rimane ancora oggi un gioiello imperdibile per chi ama il cinema di Rohmer.
Innanzitutto è la pellicola in cui il cineasta francese sperimenta, per la prima volta, il colore e lo fa avvalendosi dello straordinario contributo fotigrafico di Nestor Almendros, successivo collaboratore per altri grandi registi come Malick (I GIORNI DEL CIELO), Scorsese (LEZIONI DI VERO) e Joffe (MISSION). Dal punto di vista visivo il film ruba l'occhio a ogni inquadratura, caricando l'opera di un raffinatissimo naturalismo cromatico, in cui i caldi colori d'estate si sposano con uno sguargo entomologico particolarmente attento nel ritrarre in modo oggettivo il rapporto uomo-natura. Più che in altri film dello stesso regista, ne LA COLLEZIONISTA la visione si carica di chiare metafore filosofiche che, perfettamente in linea con l' incisività di dialoghi e voce fuori campo, contribuiscono a quella fusione rohmeriana ineguagliabile e assolutamente unica tra immagine e parola.

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La narrazione fa perno sull’instabilità dei rapporti individuali pilotati dalla capricciosità di un plot che si diverte a contrapporre a due individui legati da discordanti affinità elettive una sinuosa seduttrice priva di condizionamenti morali, pronta a graffiare al momento opportuno con le unghie affilate della sua passività destabilizzante ed a porsi come indesiderata interlocutrice nel rapporto dialettico tra le personalità dei suoi interlocutori, assurgendo tout court, come d’altronde ogni altra figura predominante di donna nei racconti morali, a simbolo di un trionfo dell’astuzia femminile nei confronti di sbiaditi esemplari di mascolinità più o meno frustrata. Caratterizzato come sempre da rigore compositivo e severità di contenuto, come sospeso in una sorta di spazio fluidificato a causa di una tensione puramente mentale che cresce e si spegne con la stessa rapidità del lampo, il film si guarda bene dal violentare più del dovuto la privacy di personaggi ineluttabilmente chiusi nei propri gusci, dai gesti apparentemente insignificanti, riluttanti a scoprire le loro carte segrete, intenti a recitare con premeditazione un ruolo tanto oscuro quanto velleitario. Rohmer riesce a creare un sottile gioco psicologico in cui le relazioni individuali restano sospese a mezz’aria tra parole non dette e comportamenti destinati a creare un fuorviante rapporto di complicità non ben definito. La scrittura filmica scruta lo sgambettamento interiore dei personaggi ponendo in evidenza gli equilibrismi esistenziali in un instancabile girotondo in cui ciascuno sembra recitare una parte precostituita onde disorientare lo spettatore, fortunatamente ragguagliato dai frequenti monologhi interiori di Adrien, che per tale motivo appare il più vulnerabile della compagnia ed il più riluttante a gustare l’amaro calice della sconfitta.

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