L’indifferenza e la pochezza culturale che avvolgono
il nostro presente fanno capolino anche in quella che si dovrebbe definire come
cultura cinematografica: basta leggere le dichiarazioni di alcuni
registi e attori italiani presenti a Venezia per la Mostra del cinema che
definiscono come stronzate, inutili e scadenti gli appelli per Gaza.
Qualcuno di loro ha distrattamente firmato una petizione, probabilmente più per
conformismo con la categoria che per altro, salvo poi pentirsene o accorgersi
che questa, strada facendo, ha avuto l’ardire di chiedere di starsene a casa a
chi pubblicamente ha sostenuto e sostiene la deportazione e lo sterminio per
armi e per fame del popolo palestinese. Un vero e proprio atto di “censura”,
per carità! Non sia mai.
Altri sono al Lido per passeggiare sul tappeto rosso e
per farsi vedere a qualche patetico ricevimento sponsorizzato indossando il
vestito buono sulla barba di tre giorni e i capelli un po’ spettinati – che fa
sempre tanto “gente di cinema” – per promuovere il loro nuovo filmettino senza
nemmeno preoccuparsi che esca nelle sale, confidando al massimo, quando sarà il
momento, in qualche autoreferenziale Donatello di consolazione per soddisfare
l’ego artistico. Ma in cosa si sta trasformando la Mostra del Cinema? In un
sovraffollato centro commerciale di una domenica di fine estate, in cui le
opere in concorso sono trattate alla stregua di oggetti di consumo, di merci
esposte pronte per essere apprezzate dal primo ricco acquirente, mentre ai
confini d’Europa si sta consumando un terribile genocidio? Ma sì, certo, cosa
importa ai ricchi e colti ‘artisti’ bianchi europei e italiani dello sterminio
del popolo palestinese?
Il menefreghismo e l’indifferenza hanno una parte
considerevole nel nuovo assetto colonialista, fatto di un intangibile e
violento dominio culturale e ideologico nell’epoca dei social.
Poi ci sono quelli che il problema è sempre “più
complesso” e che manco si sporcano le mani per firmare petizioni che poi li
costringono a confrontarsi con una marmaglia di colleghi invidiosi, incagabili,
presuntuosi, incapaci e concorrenti. Registi e attori non sono gente che può
compatirsi di annacquarsi nel mucchio indistinto del mondo del cinema –
potrebbero perfino esserci comparse, tecnici e attrezzisti, perdio –, figurarsi
poi mescolarsi con emeriti sconosciuti in una manifestazione pubblica ove
potrebbe esserci davvero di tutto. La massa indistinta va bene soltanto sotto
forma di pubblico in sala o sul divano di casa. Il genio creativo deve essere
libero di correre in solitaria. Altri ancora, in preda a irrisolti sdoppiamenti
di personalità, si barcamenano nel distinguere ciò che possono affermare da privati
cittadini da quanto sentono di poter dire da personaggi pubblici.
Certo, molti di questi signori ci tengono a chiarire
che sono ben consapevoli che in Palestina è in atto un genocidio e che è
davvero una “cosaccia”, ma tutto ciò non ha nulla a che fare con l’arte
cinematografica, con la libertà di espressione, con i tappeti rossi e le cene
eleganti del Lido (non di Arcore, per carità: il cinema italiano è
signorile per davvero, mica cose da nani e ballerine!). Ci teniamo qui a
ricordare quanto ha scritto il grande regista Andrej Tarkovskij nel
suo saggio Scolpire il tempo (1985): “Una qualsiasi
arte nasce sempre grazie a un’esigenza spirituale e gioca un ruolo speciale
nell’impostazione dei profondi problemi che le sorgono dinanzi nella propria
epoca” (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema,
Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze, 2015, p. 79) ribadendo che
“il cinematografo si è presentato come lo strumento del nostro secolo
tecnologico necessario all’umanità per un’ulteriore conoscenza della realtà” (ibid.).
Ma l’atteggiamento prevalente alla Mostra del cinema sembra quello di
nascondere la testa sotto la sabbia dinanzi ai “profondi problemi” della nostra
epoca, se si può chiamare “problema” il genocidio di un popolo. E quale
“realtà” mai ambiranno a conoscere, questi cinematografari, oltre a quella
delle patinate manifestazioni ufficiali?
Poi ci sono i giornalisti accreditati, rigorosamente
distinti in caste dai pass che danno diritto a questa o quella proiezione e
l’accesso a questo o quel rinfreschino, costretti a guardarsi qualche film tra
un evento mondano e l’altro. Se persino i loro colleghi che si occupano del
mondo fuori dallo schermo riescono a ridurre i meeting internazionali inerenti
le carneficine belliche in corso a disquisizioni sul dress code e sulle posture
in favore di telecamera dei protagonisti, ci sta che quella che si fregia di
essere la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica venga trattata come il
festival sanremese, dunque che si guardi più all’eleganza della mise delle
attrici che alla “mise en scène” delle opere proiettate. E per buttar giù due
righe sui film bastano e avanzano i patinati pressbook in cui i nostri
accreditati trovano anche le rispostine preconfezionate alle domandine di
circostanza che farebbero a registi e attori.
È questa l’intellighenzia cinematografica italiana?
Una torre d’avorio che pensa solo a realizzare i suoi filmetti, al successo, al
red carpet? E alcuni di questi registi avrebbero la pretesa di farsi chiamare
intellettuali? Intellettuali dell’indifferenza e del “che ce frega”. Viene
da domandarsi cosa differenzi la spocchia e l’ignavia di questi signori dalla
meschinità di chi ha definito “gondolieri di Hamas” quanti hanno manifestato a
Venezia contro un genocidio in corso.
Da queste vergognose, più ancora che imbarazzanti,
dichiarazioni emerge un fatto: l’indifferenza propugnata dall’alto, da una
fascistizzazione generalizzata della cultura che sta avvenendo in questo Paese
che si estende ben oltre il governo di destra e che si palesa anche nel mondo
del cinema. Nessuno aveva chiesto film sul genocidio
palestinese, nessuno pretendeva chissà quale presa di posizione militante. Non
ci si attendeva quello che nei fatti la Mostra veneziana non poteva essere, non
ci si aspettava di certo il Sessantotto in Laguna, ma un minimo di dignità sì.
Il mondo del cinema veneziano avrebbe potuto sfruttare
i riflettori per lanciare qualche messaggio significativo per “smuovere le
coscienze”, sarebbe potuto uscire dalla sempre più patetica torre d’avorio
delle sale festivaliere e manifestare lo sdegno per ciò che sta accadendo in
Palestina. E invece si è assistito a un grottesco gioco ai
distinguo, al “non è questa la sede”, alla pretesa autonomia dell’arte
cinematografica dalla rude realtà. Un universo che si fregia di “fare arte e
cultura” che si mostra del tutto simile al mondo dello sport, altrettanto
silente, altrettanto ipocrita.
L’asfalto del disimpegno degli anni Ottanta e Novanta
ha colpito duro. Se questi sono i registi e gli attori che ci ritroviamo, cosa
possiamo attenderci dal loro cinema, dai loro film che magari pretendendo pure
di irridere il vuoto patinato dei nostri tempi, salvo poi crogiolarsi in un
vuoto estetismo, o che magari, intendendo denunciare le miserie di una sinistra
che si è persa per strada, non si accorgono nemmeno che stanno in realtà
parlando di sé stessi. Meglio allora sfruttare i personaggi che si sono
costruiti per realizzare spot televisivi o trascinarsi nella finta autoironia
di qualche serie autoreferenziale sulle piattaforme sul piccolo schermo.
Di certo spendere qualche parola di denuncia a
proposito del genocidio mediorientale sotto i riflettori della Mostra non
avrebbe redento il mondo del cinema italiano dalla pochezza culturale che lo
contraddistingue, ma almeno avrebbe permesso a qualche suo protagonista di
mostrarsi meno indifferente di quel che è. Magari, un
giorno, folgorati sulla via di Damasco, alcuni di loro si chiederanno se di
fronte a un genocidio avrebbero potuto almeno dire qualcosa sfruttando la loro
notorietà e si vergogneranno per non averlo fatto. Vorrà dire che faranno i
conti con la loro coscienza, ma sappiano sin da ora che nessun ravvedimento
cancellerà la codardia di cui hanno dato prova.
Nel frattempo continuino pure con i loro film furbini,
scadenti, inutili e ipocriti. A noi viene alla mente un efficace titolo di un
film di alcuni anni fa diretto e interpretato da Pif: E
noi come stronzi rimanemmo a guardare. Già, i protagonisti del cinema
italiano – con qualche lodevole eccezione di cui non ci dimenticheremo –, di
fronte a un genocidio, come stronzi sono restati a guardare.
Anche di questo ci ricorderemo.
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