mercoledì 4 giugno 2025

La abuela – Paco Plaza

una storia del terrore, con sceneggiatura di Carlos Vermut.

una nonna e una nipote, solo loro due, non esistono altri parenti, vivono insieme nella stessa casa, la vecchietta è ormai alla fine, ma alcune cose succedono, vedere per credere.

buona (nonnesca) visione - Ismaele 

 

 

 

Un racconto non certo originale, opera di Carlos Vermut, tradito nel fattore "sorpresa" da un incipit rivelatore, è adattato a lungometraggio con certa cura formale da Paco Plaza. Anche in questo caso, come ormai da tradizione del cinema horror iberico, viene riciclata la solita trama del pericolo inatteso, che si nasconde tra coloro che più dovrebbero rassicurare: i parenti, più precisamente familiari in linea diretta di sangue (Darkness o Nameless). Sicuramente migliore di alcuni precedenti, quasi inguardabili, film del regista (i terribili, anche in senso tecnico, seguiti di [Rec]), La abuela presenta una cinematografia suggestiva e merita d'essere visto per la notevole performance delle due antagoniste, Almudena Amor e Vera Valdez. Quest'ultima, resa ormai scheletro dall'avanzare dell'età e da un dimagrimento significativo, che preannuncia l'imminente sopraggiungere della morte, non può non ricordare l'Elena Markos di Suspiria, in particolar modo per affinità elettive e per probabile affiliazione della stessa alle logiche del Male e della stregoneria. È un peccato che un soggetto così interessante - che poteva dare spazio a più profonde e ardite estensioni, anche con contenuto a carattere sociale, sul tema del vampirismo psichico (ossia di quegli anziani malvagi, orientati a nutrirsi dell'energia vitale dei più giovani) - sia stato trattato al solo livello più superficiale del genere horror. Anche se, dopo il lunghissimo e straziante preambolo, Plaza dimostra di saper gestire con certo gusto le atmosfere e i classici contesti "de paura", tipici del filone. La abuela si è rivelato un mezzo flop commerciale - considerato il battage pubblicitario e la diffusione internazionale - avendo incassato, a partire dal gennaio 2022, "solo" 3.000.000 di dollari.

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Notevole, seppur non originale, la scena (fulciana) con le due protagoniste (brava anche la nonna interpretata da Vera Valdez) che si osservano in uno specchio circolare su cui si vede inizialmente riflessa la sola faccia di Almudena Amor e dove affiora, dall'altra parte e in conseguenza di una serie di esplosioni a frazione, il volto della Valdez. Una scena che rende visiva la metafora del film incentrata sulla frase proferita, in precedenza, dalla nonna alla nipote:“il tuo corpo è il mio corpo”. Forse non compreso pienamente e penalizzato da un taglio che determina uno scorrimento molto lento, La Abuela è un horror che conferma il talento del regista. Nettamente superiore alla media degli horror contemporanei incentrati su case maledette, fantasmi e rapporti familiari retti da subdoli motivi non rilevabili a una visione superficiale (ancora la metafora dello specchio). L'epilogo ricorda molto, nei contenuti (non nella forma), quello de Il Cervello dei Morti Viventi (1973). Delicato, ma assai incisivo.

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…Gran mestiere al servizio di una storia tutt'altro che originale, sin troppo appesa ad un assunto astratto e noto già dalle sadiche, maliziose premesse.

Certo un paio di scene almeno risultano notevoli, come il gioco di specchi che due riprese alternate offrono dei due personaggi sovrapposti uno sull'altro, in un piccolo colpo di genio registico inequivocabile.

E il risultato è un film del tutto degno di rappresentare il genere, territorio addentro al quale Plaza si muove da perfetto conoscitore dei trucchi più efficaci, pur dimostrando qui un certo qualunquismo nel dettaglio di una vicenda un po' troppo prevedibile e telefonata.

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…Pero si hay algo, o mejor dicho, alguien, a quien debemos destacar es a Almudena Amor: de ser una desconocida a aparecer en lo último de Paco Plaza y Fernando León de Aranoa —para más señas, en El buen patrón junto a Javier Bardem— es para pensar y mucho en su talento. La actriz se echa a la espalda el peso de la función, y sabe transmitir con total veracidad el muy amplio abanico de sensaciones y emociones que el guion de Vermut, complejo en lo interlineal por necesidad al depender casi por completo de sus lecturas para satisfacer la obra final, le pone por delante en forma de retos de gran complejidad: no solo se trata de reír, llorar o gritar, sino de traspasar miedos interiores, terrores inaceptables o realidades incuestionables, todo sin apenas pronunciar palabra. También hemos de dejar puesto un sello de calidad en el trabajo de Vera Valdez, la abuela de la función, una intérprete brasileña, exmodelo en sus años jóvenes, que sorprende con una fisicidad digna de elogio. La conjunción de ambos elementos, el binomio Amor/Valdez, recrea a la perfección el núcleo más profundo de La abuela, el que excede su parte de película de terror al uso, con sus sustos más o menos predecibles —que los tiene— y su ritmo no siempre regular: la integración de dos para formar solo uno, la escisión del interior para negarse a aceptar el paso del tiempo. Paco Plaza ha conseguido la que probablemente sea su película más introspectiva y reflexiva; una propuesta de género compleja que alcanza la trascendencia a través de lo íntimo y que deja en el espectador la necesidad de procesar y recalcular lo visto.

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martedì 3 giugno 2025

Bruno Reidel - Vincent Le Port

un omicidio tragico da parte di un minorenne, Bruno (interpretato da Dimitri Doré), ai danni di un ragazzino, al quale taglia la testa.

in galera e in manicomio Bruno viene studiato da una commissione di studiosi e medici per capire come Bruno è arrivato a tanto.

e Bruno, su richiesta della commissione, scrive e racconta la sua breve vita, fatta di violenze, soprusi, deprivazioni.

il film è un gioiellino, senza essere un film pulp è un film che non cede mai allo splatter, anzi, la macchina da presa resta attaccata  a Bruno, e noi vediamo con i suoi occhi.

un film da non perdere, duro e senza scorciatoie.

buona (Bruno) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in francese, con sottotitoli in spagnolo

 

 

Bruno Reidal est une gestation, celle d’un meurtrier, non pas né, mais le devenant au hasard d’une conscientisation de soi, d’un processus inexplicable de trouble psychologique. On évitera le « cliché » freudien, optant pour le traitement du cinéaste à partir du livre de François Bourgoin, Serial Killers.

Et les préparatifs du procès puisqu’il s’agit de cela. Non pas une accusation, mais d’un extraordinaire échange psychologique d’une rare maturité et d’une intelligence de rapports remarquables entre les docteurs attitrés et le coupable…

… mpossible d’ignorer les extraits de la musique d’Olivier Messiaen, assurant au film une énergie farouche. Elle prolifère par intermittences, ponctuant telle ou telle situation. Mais encore une fois, c’est encore le « plan » qui domine, parfois proche des tableaux romantiques, comme la rencontre, dans un rocher, de Bruno avec un de ses camarades du séminaire, où l’attirance de l’un envers l’autre est suggérée, mais pour différentes raisons.

Au son, Charlotte Butrak manifeste une rare altérité, sournoise même, confondant les bruits de la nature et des humains avec le parcours dissident du personnage. Travail exigeant. Et Dimitri Doré : le visage, nous pourrions même dire « les » visages, les diverses démarches, les silences et les paroles mesurées, tout participe de cette approche originale de l’interprétation. Un excellent acteur fait surface. Il participe également à la voix-off qui se manifeste de temps en temps; d’une part, le réalisateur tout à fait conscient d’une certaine tradition à la française, mais d’autre part, se faisant le témoin d’un fait divers à raconter. Le prix « Jean Carmet » (meilleure interprétation) décerné à Doré au Festival Premiers Plans d’Angers est hautement mérité.

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Nello sguardo di Bruno indirizzato ai compagni di classe, la nuca maschile diventa una costante sulla quale costruire una stratificata anatomia del desiderio.
La visione suscita sentimenti contrastanti e assegnati alle diverse fasi di Bruno, inclusa l’esperienza del seminario, luogo dove l’aggregazione di voci e pensieri distruttivi può essere cancellata dal silenzio e dal rigore di un tempo fuori dal tempo.

Mentre il desiderio di possesso si tramuta quasi sempre nel suo complementare distruttivo, esclusivamente rivelato dalla parola, il nitore dell’immagine mantiene intatto quel confine possibile tra violenza e dolcezza, abbraccio e pugnalata, come ritratto di una distanza incolmabile tra l’osservazione e il gesto. I momenti in cui l’immagine ci dice altro, rispetto ai pensieri di morte e dominio scaturiti da quello che Bruno vede, sono quelli in cui le potenziali vittime di Reidal vengono immerse nella luce della libertà, linea di demarcazione fragilissima tra l’amore e la violenza.

Su questa linea, l’opera prima di Vincent, riesce a far emergere l’esercizio delle stesse pulsioni nello spazio quotidiano della vita rurale e nel modo in cui le istituzioni, cancellando le ambiguità della natura, eliminano anche la compassione come riconoscimento di una sofferenza comune.
Reidal non palesa alcun rimorso e nell’elaborazione di un pensiero desunto dalla cultura religiosa, quello che concede perdono agli assassini, ma non ai suicidi, rivela la possibilità del pianto solo di fronte a quella compassione nei suoi confronti, che non arriverà mai.
Sarebbe come essere finalmente osservato e compreso entro un punto di vista che non separa più il bene dal male con i parametri del giudizio e della punizione.

La distanza Dumontiana praticata da Le Port ci consente di osservare il male nel volto di Bruno e riconoscerlo come famigliare. Respinti e attratti, insieme a lui teniamo stretta tra le mani la testa di un bambino decapitato, come fosse quella di un maiale sgozzato. Potremmo mai perdonare e perdonarci?

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Pour son tout premier film de fiction, Vincent Le Port s’inscrit dans une lignée prestigieuse d’auteurs exigeants. Effectivement, en suivant les pas de ce meurtrier en devenir, Le Port signe une œuvre volontairement austère, voire carrément glaciale et procédurale, comme autrefois les films de Robert Bresson ou encore de René Allio. On songe ainsi beaucoup à Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère… (Allio, 1976), au final tétanisant de L’argent (Bresson, 1983) ou encore aux premiers films de Bruno Dumont comme L’humanité (Dumont, 1999).

Autant dire que l’ambiance est ici très lourde, et ceci dès les premiers instants qui nous annoncent le terrible meurtre qui sera ensuite largement détaillé dans la séquence finale. Avec Bruno Reidal, confession d’un meurtrier, Vincent Le Port entend entrer dans la tête d’un jeune homme brillant sur le plan intellectuel, mais qui associe systématiquement Eros et Thanatos. Violé dès sa plus tendre enfance par un berger de passage – séquence assez hallucinante et brillamment montée afin de ne pas traumatiser le jeune acteur – Bruno Reidal est un masturbateur compulsif qui ne peut trouver la jouissance qu’en imaginant ses proies mourir sous ses coups. Cela occasionne un nombre conséquent de séquences qui mettent franchement mal à l’aise, d’autant que le jeune acteur Dimitri Doré parvient à imprimer une réelle humanité à son personnage détraqué…

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domenica 1 giugno 2025

Scomode verità – Mike Leigh

il film si concentra sulla vita delle famiglie di due sorelle, una, quella di Chantelle, solare, ottimista, due figlie sorridenti, l'altra (quella di Pansy) depressa, il mondo ce l'ha con lei e lei con il mondo, è triste, senza futuro, un marito e un figlio senza sorriso.

un piccolo grande film, piccoli movimenti tellurici nella mente di Pansy, tutto nasce dall'infanzia delle due sorelle, Pansy, la sorella grnde, ha sofferto molto, e non si è mai più ripresa dai problemi della sua gioventù, un buco nero ha occupato il posto del cuore e la sta mangiando col marito Curtley e il figlio Moses.

buona (antirazzista e turbata) visione - Ismaele

 

 

 

 

Forse ci sono altri paradossi da esaminare, per chiudere il cerchio di Scomode Verità. Il primo è che l’autorialità di Mike Leigh è più difficile da tracciare rispetto alla vocazione, più limpida e politicamente accentuata, di un Ken Loach, proprio per la sua natura non convenzionale. Leigh costruisce il suo inconfondibile sguardo sul mondo sulla parola prima che sull’immagine e tramite un lavoro intenso con gli interpreti – dai mesi di prova prima di girare al contributo degli attori nella costruzione dei personaggi – suggerendo un modo di fare cinema d’autore anomalo: collettivo e per nulla individualistico. Poi c’è l’aspetto puramente formale. L’elegante e ricercata fotografia di Dick Pope è limpida, pulita, dalla precisione geometrica, mai ostentata né paga della sua bellezza. Il lavoro sul sonoro, straniante, puntuale ma non ingombrante di Gary Yershon racconta una storia simile. Scomode Verità è uno dei film più riusciti e straordinari dell’anno per la capacità di raccontare la sua verità armonizzando e valorizzando suono, immagine, parola, senso del cinema e sentimento. Perderlo è peccato mortale.

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A scanso di equivoci, Scomode verità di Mike Leigh non è un film di cattiva fattura. È piuttosto una fotografia respingente e irrisolta di un quadro familiare tutt’altro che sano e ordinato, che vorrebbe in quanto tale, condurre alla compassione, o peggio all’empatia, nei confronti di una protagonista tutt’altro che accessibile. L’insofferenza di quest’ultima, che ha inizio nei primissimi minuti del film, non tarda infatti a scemare, crescendo sempre più, fino ad un’escalation di verbosità e sovrascrittura degna del cinema ultimo di Denzel Washington (Barriere), seppur non replicabile.

Se è vero infatti che non sempre è permesso empatizzare con i protagonisti (ne è un esempio concreto La zona d’interesse), è vero anche che la tesi dell’autore, in tal senso, debba necessariamente essere chiara. Leigh sceglie di non esserlo, imprigionando le indubbie potenzialità del racconto, nelle complessità fin da subito insostenibili della sua protagonista, spingendoci senza remora alcuna a comprenderla fino in fondo. La tesi si fa pericolosa, lasciando allo spettatore la possibilità di farsi del male, o altrimenti volersi bene.

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Alla fine Leigh ci spinge, anzi ci costringe, a riconoscere l'umanità nascosta in ognuno di loro, e ad abbracciare la loro esistenza danneggiata, comprendendo fino in fondo il loro male di vivere, o il loro tentativo di non rimanere schiacciati dalle dinamiche famigliari in atto. Qui non ci sono mostri, men che meno l'insopportabile Pansy, ma solo esseri umani che cercano di tirare avanti come possono, davanti alle svolte inaccettabili della loro vita e alla violenza delle altrui reazioni di fronte a tanto sconcerto esistenziale.

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Il cinema di Leigh in questo momento storico denuncia la sua posizione contro la “moda” transumanista. Il suo occhio continua ad essere un registratore scrupoloso di tutte le emozioni e il racconto si snoda con un linguaggio cinematografico classico, quasi un kammerspiel, più che altro per la prevalenza assoluta degli interni, che rifiuta virtuosismi “inutili” attraverso il filo rosso della tensione emotiva che ha diversi picchi e climax.

Insomma, il cinema di nessun eroe, che ogni giorno lotta per la sopravvivenza: c’è una bella scena che fa riferimento perfino ai volontari di varie associazioni, considerati anche loro ladri, in una società dominata dalla ipocrisia e dal marketing che ha preso il peggio pur di ingannare. Così un’altra scena in un negozio di divani ci regala un’altra esplosione di rabbia più che giusta di fronte all’ennesima commessa “sorridente”…  Non è solo il mondo di Pansy, è anche il nostro, chi è che non voleva qualche volta sottrarsi al famigerato sorrisetto dei commessi nei negozi, per dare semplicemente uno sguardo?

La nostra società è diventata una sorta di finta copertina luccicante, con le istruzioni a cui tutti devono rifarsi, dove si nasconde il buio e il grigiore di una vita comunque difficile o anche che non vuole essere avvilita dal conformismo delle regole, della “buona educazione”.

Anche se in fondo Leigh ci offre due possibilità di vedere il mondo: come Pansy o come Chantelle, ma in fondo siamo quasi tutti un po’ l’uno e l’altro per cercare di sopravvivere: una risata, ed un pianto proprio come nella suddetta scena madre del film, un coacervo di emozioni che caratterizza il genere umano “stressato” da una società che chiede sempre il raggiungimento di obiettivi. Cosicché un figlio di 22 anni che vaga in giro senza meta o sta chiuso nella stanza con videogames o libri sul volo, non fa solo tenerezza, ma anche preoccupazione e rabbia per il suo futuro (“come lo vedi il tuo futuro tra 25 anni?”, chiede ansiosa la madre).

Ancora una volta ringraziamo il maestro Leigh per questo viaggio intenso attraverso semplici, “dure” e “vere” emozioni. Per continuare a vivere come uomini e donne… in lotta. Infine, ricordiamo anche il direttore della fotografia collaboratore abituale di Leigh, Dick Pope, scomparso appena lo scorso ottobre.

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…Mike Leigh, in questo film che è tra i suoi capolavori, sembra chiederci di non insistere. E di lasciare che i sentimenti, anche i più sgradevoli, facciano il loro corso. Restando magari inesplorati, indeterminati, innominati. E ciò, Leigh lo sa bene, è ancora più straziante: la scena della Festa della mamma nell’appartamento di Chantelle è a questo proposito quasi insopportabile per imbarazzo e tensione. Significa, quindi, permettere al dubbio non di governare il presente, piuttosto di registrarlo, nel senso di prenderne le misure. Lontano dall’arroganza dell’infallibilità e dalla comodità della convinzione. Un dubbio che fa rima con insicurezza, perplessità, costante indecisione, e il cui nemico numero uno è la necessità, opprimente però inevitabile, di una responsabilità, in quanto persona, parte di una famiglia, di una collettività, di un tutto

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sabato 31 maggio 2025

Balentes - Giovanni Columbu

intanto il titolo, la parola balentes riprende il significato originario di uomini di valore, che affrontano imprese difficili e rischiose, non per un vantaggio personale, ma per una legge superiore, che non è quella dello stato italiano.

Ventura e Michele, due ragazzi sardi, intorno al 1940, vogliono evitare che i cavalli vadano a morire in guerra, seguono la legge morale che hanno dentro, e scusate se è poco.

il cavallo è un simbolo di libertà e di vita, dappertutto, e non può essere mandato a morire, in guerra o al palio di Siena (bestemmia?). 

il film d'animazione, girato come agli albori del cinema, sulla base di 30000 disegni di Giovanni Columbu, disegni che vengono "animati", da qui nasce il cinema di animazione!

il disegno è spesso "suggerito", tocca allo spettatore "partecipare" alla storia, dando la propria lettura e visione.

in certi momenti sembra un western, i due balentes potrebbero essere dei giovani indiani d'America, che liberano i cavalli dei soldati che uccidono gli indigeni.

anche il treno sembra un treno del far west, come in certi casi sono i treni sardi.

che sia un treno sardo si capisce dal fatto che trasporta le casse da morto degli uccisi, nell'incivile America gli indiani morti li avrebbero lasciati in balia di avvoltoi e lupi.

Giovanni Columbu racconta che per questo film (eccezionale, se non si è capito) ci sono voluti sette anni di lavoro, mica è un cinepanettone.

se vi volete bene cercatelo e soffrite insieme a Ventura e Michele, nessuno se ne pentirà, vedrete un film che resterà nella storia del cinema.

buona (unica) visione - Ismaele

 

 

Columbu, che viene da una prolifica carriera tra arte, televisione e cinema stesso, si mette alla prova in un formato nuovo e sforna un'opera di folgorante originalità stilistica.
Sue sono infatti le migliaia di disegni, su acrilico e carta, che vengono poi animate al rotoscopio per dar vita a immagini di grande dinamismo pittoriale in bianco e nero. Una tecnica che suggerisce gli eventi più che catturarli appieno, e che gioca con le sagome e le ombre sui paesaggi a contrasto.
Benché riempiano spesso lo schermo attraverso lo spazio negativo, tali composizioni non sono mai inerti; grande merito è anche del notevole lavoro sul sonoro, attento ad accompagnare i dialoghi con un tangibile spettro uditivo elevato al medesimo livello: il vento, il crepitio del fuoco, i passi sul terreno e tutti gli altri elementi del luogo radicano le animazioni in un reale che si costruisce passo passo nella mente dello spettatore.

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Ventura e il suo amico Michele corrono, in fuga. Perché il furto di cavalli? Tutto è ammantato di leggenda. I due erano benestanti, non rubavano per il denaro. Forse si trattava di liberare gli animali per salvarli da una brutta fine in guerra, come teme il bambino della famiglia di contadini che ha venduto quei cavalli all’esercito, proprio per poterlo mantenere agli studi, o di rubare ai ricchi per dare ai poveri. Forse proprio per pura “balentia”, la virtù, lo spirito cavalleresco dell’uomo sardo che porta avanti nelle condizioni sociali e ambientali più avverse. Spirito incarnato in questo eroe definito come un “cabaddeddu”, un cavallino, per il suo amore per i cavalli e per il suo portamento. C’è qualcosa di cristologico – ancora per l’autore di Su re – nella morte di Ventura, con le donne velate sarde che lo piangono, intonando gli “attitos”, i pianti funebri. In fondo si tratta ancora di un archetipo declinato nella cultura sarda. La stessa consistenza eterea dei personaggi disegnati prefigura una loro esistenza da fantasmi, o da risorti. I personaggi si muovono in una Sardegna, come il resto dell’Italia, avvolta nelle fosche nubi del fascismo, in una Sardegna interna premoderna attraversata da cavalli e treni a vapore. Per Columbu si tratta anche di un primitivismo dell’immagine in movimento stessa, tra citazioni del Vampyr di Dreyer (la ripresa dal basso del punto di vista di Ventura morto come quella dalla bara di quella pellicola classica, anche riprendendone la musica), tra i cavalli di Muybridge e i treni dei Lumiére, le didascalie, in sardo, da cinema muto, l’iris, le ombre cinesi. Uno scavare fino ad arrivare ai meccanismi primari delle immagini in movimento messi a nudo, righe e cerchi che sono l’intelaiatura grafica dei treni in viaggio. In parallelo con lo scavare nella cultura ancestrale sarda.

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…Basterebbero forse i paesani che, non capendo le intenzioni dei ragazzi, li identificano come «senza testa sulle spalle», pensando al loro atto semplicemente come a una bravata, o al massimo come a un furto per necessità. Eppure, a differenza del loro amico che non parteciperà all’azione, ma che metterà loro la pulce nell’orecchio parlando di come il padre abbia dovuto vendere i propri cavalli all’esercito per pagargli gli studi, i due protagonisti di Balentes non sembrano avere problemi economici di alcun tipo. Il loro atto di coraggio è semplicemente figlio di un eroismo poetico e naïf, utopista, visionario, che il film fa proprio nel narrarli nel suo altrettanto coraggioso, altrettanto lirico e altrettanto visionario mosaico di stili animati, e nel suo prodigioso tappeto di suoni, rumori, voci, passi, crepitii, spari e musiche noise straordinariamente ipnotiche e realistiche, così perfettamente complementari all’impressionismo suggestivo e pittorico delle immagini (im)possibili, dei contrasti, delle trasparenze, della fluidità dei movimenti più e meno dinamici di figure a cui non serve un volto, perché il loro volto siamo tutti noi. E poi delle linee, dei cerchi, delle forme ora stilizzate e ora definite. Dei corpi che emergono dal buio come in un prisma di ricordi e di sogni, o forse semplicemente di storie che, dai loro apparenti margini caliginosi e indistinti, contribuiscono a fare la Storia di una famiglia, di un paese, di un’isola, di un popolo, dell’Italia, dell’Europa, forse dell’intero mondo. Elementi cardine di un film, presentato nella multiforme sezione Harbour dell’International Film Festival Rotterdam dopo il primo passaggio in Alice nella Città all’ultima Festa del Cinema di Roma, che testimonia ancora una volta e pure nell’animazione lo straordinario stato di salute che sta vivendo negli ultimi anni il cinema sardo, con Giovanni Columbu intento a passarsi di volta in volta il testimone con Bonifacio Angius e Salvatore Mereu in una piccola Nouvelle Vague isolana fatta di identità e di inquietudine, di antico e di moderno, di malinconia e di orgogliosa appartenenza a una cultura primigenia e proprio per questo così pura e ancestrale. Un cinema che si identifica nel territorio da cui nasce e che si immerge fino alle sue radici più mistiche e profonde, arroccate, tradizionali, magiche, immutabili come gli spiriti. A salvare dall’oblio una memoria familiare, custode di un’intera civiltà, che sarebbe altrimenti andata perduta, e (letteralmente) con le proprie mani consegnarla all’eterno.

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…Amassing around 30,000 drawings and paintings over the course of production, Columbu invokes the elemental Sardinian landscape as a series of abstract minimalist visas, sometimes using just the sparest of brushstrokes, or even an entirely blank screen. He also incorporates scratches and stains, inky smudges and runic blotches randomly generated during the animation process into the film’s overall aesthetic, creating a looping, flickering, glitchy feel similar to that of degraded vintage celluloid.

The trade-off for all these arty flourishes is that the narrative thread of Balentes sometimes get a little lost in stylistic swerves and loops: dialogue is fragmentary, the timeline diffuse, naturalistic performances reduced to blocky modernist graphics by rotoscoping and other techniques. But Columbu helps ease this problem with sparing use of explanatory inter-titles written in the Sardinian language, a dialect closer to Latin than modern Italian. In another knowing nod to silent-era cinema, the soundtrack also incorporates elements of Wolfgang Zeller’s mournful orchestral score from Carl Theodor Dreyer’s early horror classic Vampyr (1932). The cumulative effect is a melancholy memory palace of a film that feels both antique and modern, strikingly avant-garde yet hauntingly beautiful.

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…La tecnica adottata parte da una ricerca sulle origini dell’animazione, su soluzioni espressive dimenticate o escluse, come i primi esperimenti di fine Ottocento, ma anche dai riferimenti alla pittura iperrealista e all’espressionismo cinematografico. Ogni fotogramma nasce da un’interazione tra gesto impulsivo e forma contenuta, grazie all’uso di mascherature in pellicola plastica che permettono al colore – acrilico – di seguire percorsi imprevisti, restando però nei contorni definiti.

Ne risulta un’animazione rarefatta, dove le figure emergono e scompaiono come fantasmi, attraversando “porte invisibili”, evocando la memoria, la perdita, la persistenza. “L’emozione che si provava allora – racconta Columbu – mi suggeriva che qualcosa non si fosse mai del tutto dissolto”.

Il racconto di Balentes nasce da un ricordo familiare, da un racconto della nonna del regista, che aveva conosciuto uno dei protagonisti: Ventura, detto Cabaddeddu, giovane nuorese dal portamento fiero, appassionato di cavalli. La sua morte, durante la fuga, colpito dai barracelli, è diventata leggenda popolare e oggetto di canti funebri (“attitidos”) che ancora oggi vengono ricordati.

Il film è, al tempo stesso, atto di resistenza artistica e civile: resistenza alla normalizzazione del segno, alla velocità del gesto digitale, ma anche alle narrazioni imposte della Storia. La Sardegna che racconta Columbu è una terra di contrasti – tra tradizione e modernità, natura e meccanizzazione – in cui la memoria non è mai solo evocazione, ma parte viva e politica del presente…

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qui un'interessante intervista a Giovanni Columbu

 

 

venerdì 30 maggio 2025

L’ombra del giorno – Giuseppe Piccioni

ad Ascoli Piceno i fascisti imperversano, Luciano (Riccardo Scamarcio), fascista non militante, assume nel ristorante Anna (Benedetta Porcaioli), un'ebrea in fuga.

lui la protegge dai fascisti in camicia nera, finchè può.

bravi i due protagonisti, Riccardo Scamarcio di più.

buona visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay


  

Un film di impianto classico attraverso il quale Giuseppe Piccioni racconta una pagina tragica della nostra storia e un amore difficile e appassionante, capace però di sovvertire gli ideali più forti e biechi, fronteggiando i più grandi pericoli. Un film nel quale grandi protagonisti sono gli sguardi, le diverse angolazioni della realtà, tra l’apparenza di un regime votato all’ordine e all’armonia, e la realtà delle leggi razziali, dell’intolleranza e della violenza. Tra chi come Luciano guardando attraverso la vetrina del suo ristorante si nasconde e finge di non vedere, e chi come Anna vede chiaramente la realtà piano piano sgretolarsi, il futuro lastricato di sangue e morte. “Chissà perché non vedo le cose che vedete voi”, chiede a Luciano verso il quale capirà subito di provare un sentimento, ricambiata a sua volta…

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Una certa raffinatezza di scrittura cinematografica, elemento di riconoscibilità per  una personalità autoriale toccata talvolta dalla grazia, riscatta alcuni passaggi narrativi più convenzionali e una regia che cede il passo ad un andamento televisivo, con la lunga durata più adatta  a uno sceneggiato che alle esigenze di un Kammerspiel, come lo ha definito il regista (aggiungeremo concentrico e concentrato, visto il passaggio piazza-ristorante-cantina). Ed essendo il cinema di Piccioni fatto anche di parole e di attori, non si possono ignorare le prestazioni di Riccardo Scamarcio, la cui fissità in questo caso rende bene il contrasto con le accelerazioni di quello che accade e scorre davanti agli occhi enormi e spalancati di Luciano, e soprattutto Benedetta Porcaioli: il modo in cui equilibra certi impulsi da eroina battagliera e protofemminista (forse un po’ troppo contaminata da suggestioni e riflessioni contemporanee per essere completamente credibile come ragazza di quel tempo) , con l’ambiguità di una seduzione giocata prima per spirito di sopravvivenza e poi per autentica passione ,  ne fanno un’interprete carismatica e versatile per molti altri sguardi sulle donne, in un cinema italiano asfittico da questo punto di vista e dove proprio Piccioni si è sempre distinto per varietà e complessità…

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Non spegnete lo schermo: appello per il nostro cinema - Roberto Bernabò


In un silenzio quasi assordante, si sta smantellando uno dei luoghi più profondi della nostra identità: il cinema.

Ci sono momenti in cui l’arte non chiede applausi, ma protezione. Questo è uno di quei momenti.

 


Nel 2008, un gruppo di 100 autori lanciava un appello per difendere il cinema italiano da politiche miopi e penalizzanti.

Oggi, nel 2025, siamo purtroppo costretti a farlo di nuovo.

Il Governo ha introdotto modifiche che mettono seriamente a rischio l’intero sistema cinematografico nazionale:

§  tagli al Tax Credit – ovvero il credito d’imposta per il settore – e regole più restrittive che ostacolano le produzioni indipendenti e d’autore;

§  blocco o rallentamento dei fondi automatici e selettivi;

§  un accentramento decisionale che rende i criteri di assegnazione opachi e arbitrari.

Tutto questo sta generando una desertificazione culturale.

Il cinema italiano – che è memoria, lavoro, visione – viene trattato come un costo da contenere, anziché come un asset strategico da valorizzare.

Si dimentica che nonostante le tente difficoltà il nostro cinema rimane quello che ha vinto il maggior numero di Oscar per il miglior film straniero.

E questa è una cosa che andrebbe difesa, sostenuta.

Ma la crisi non è solo nei numeri: è nella visione.

Facciamo un confronto per capirci meglio

Il governo guidato da Giorgia Meloni ha destinato fondi pubblici a Stellantis (ex Fiat/FCA) principalmente attraverso due canali:

§  investimenti diretti350 milioni di euro per la riconversione dello stabilimento di Termoli in una gigafactory per batterie elettriche. Un progetto oggi in discussione a causa delle incertezze nella joint venture con TotalEnergies e Mercedes-Benz.

§  ecoincentivi per l’acquisto di autodei 1,95 miliardi di euro stanziati nel 2024, circa il 40% (quasi 800 milioni) ha beneficiato le auto del gruppo Stellantis, anche se solo la metà è prodotta in Italia.

Sottolineiamo: nessun nuovo prestito o garanzia statale è stata concessa sotto il governo Meloni, a differenza dei 6,3 miliardi garantiti dallo Stato a FCA nel 2020, sotto il governo Conte II.

E il cinema?

Guardiamo alla Francia

Secondo le ultime rilevazioni (fonte: Variety / Cineuropa), i fondi pubblici italiani sono meno della metà di quelli stanziati annualmente dalla Francia.

Eppure Parigi ha capito da tempo che investire nel cinema significa investire nell’identità culturale di un Paese.

In Italia, invece, si preferisce tagliare dove si dovrebbe seminare.

Anche i grandi network televisivi nazionali, pubblici e privati, investono nel cinema molto meno di quanto non facciano nello sport – e nel calcio in particolare.

Un solo minuto di una finale di calcio può valere milioni.

Ma quanto vale una storia che resterà per sempre?

Lo scnario è veramente cambiato?

 

È vero: lo scenario è cambiato.

Sono arrivate le piattafrorme di streaming NetflixPrime VideoDisney+Paramount PlusNow TV, SkyApple TVMediaset Infinity.

Ma anche tutti questi nuovi servizi di streaming – che pure offrono nuove opportunità che paradossalmente ampliano i ricavi dell’industria Cinema rendendo gli investimenti molto più profittevoli – non compensano la disattenzione strutturale dello Stato e dei broadcaster italiani.

Lo dicono i dati: la quota d’investimento in produzioni italiane resta bassa rispetto agli standard europei.

Questo appello non è solo una difesa. È una proposta

Chiediamo:

§  più fondi pubblici, non meno;

§  criteri trasparenti, condivisi, meritocratici, per evitare che le storture esistenti penalizzino le maestranze, gli autori, i produttori, i tecnici e tutti i lavoratori del cinema;

§  un impegno concreto da parte della RAI e dei network privati per sostenere la produzione nazionale, culturale, plurale.

Certo, è vero, e lo ammettiamo con la massima onìestà intellettuale di cui siamo capaci, il sistema non è esente da storture.

Esistono criticità, abusi, meccanismi da rivedere.

Ma tagliare indiscriminatamente i fondi significa colpire tutti – anche chi lavora con serietà, passione e qualità.

Le riforme si fanno con il confronto, non con le forbici. Serve più trasparenza, non meno risorse.

Perché senza cinema, un Paese non ha occhi.

E noi vogliamo continuare a guardarci – e a farci guardare – con dignità.

 

La nostra voce si unisce a quella di tanti altri professionisti che in questi giorni hanno preso posizione.

Come l’attore Elio Germano e l’attrice e conduttrice Geppi Cucciari, che per primi – in occasione dei David di Donatello 2025 – hanno denunciato le difficoltà che l’industria del cinema sta attraversando, contestando le dichiarazioni ritenute eccessivamente ottimistiche del Ministro della Cultura.

In una lettera indirizzata proprio al Ministro Giuli e ai Sottosegretari Borgonzoni e Mazzi, 94 tra attori e registi – da Paolo Sorrentino a Paola Cortellesi, da Pierfrancesco Favino a Toni Servillo – hanno ribadito la gravità della situazione: una crisi che rischia di togliere creatività, autonomia e innovazione a tutto il comparto.

Il decreto correttivo sul Tax Credit rappresenta solo una prima risposta, ancora incompleta e insufficiente.

È urgente che il Ministero apra finalmente un confronto diretto con le associazioni che rappresentano attori, autori e tecnici.

E che si smetta di trasformare ogni critica in polemica.

La cultura vive di confronto, non di intimidazione.

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La cultura vive di confronto, non di intimidazione.

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Facciamoci vedere. Facciamoci sentire.

NO al taglio del Tax Credit.

SI al cinema d’autore, indipendente, libero.

Difendiamo la cultura, non solo l’intrattenimento.

 

https://www.cinemavistodame.com/2025/05/29/non-spegnete-lo-schermo-appello-per-il-nostro-cinema/


mercoledì 28 maggio 2025

Gli innocenti dalle mani sporche – Claude Chabrol

dice l'avvocato (Jean Rochefort), alla cliente Romy Schneider: "lei è una donna molto bella".

l'avvocato è fatto così, un po' naif, un po' azzeccagarbugli, di sicuro divertente.

e poi ci sono i due poliziotti, archetipi della coppia di poliziotti inventati molti anni dopo da Bruno Dumont in Ptit Quinquin.

e ultima, ma è la prima, una bravissima Romy Schneider, in un film dove tutto è quello che non sembra.

non sarà un capolavoro, ma è un giro sulle montagne russe, astenersi i deboli di cuore.

buona (sainttropeziana) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in italiano

 

 

La serie stordente dei colpi di scena non inganni. Qui siamo in presenza di uno studio antropologico e le incredibili vicissitudini della trama cessano di esser tali per divenire occasione d'esame d'alcuni tipi umani. Chabrol opera con freddezza entomologica, come testimonia la penultima inquadratura della Schneider a colloquio con l'avvocato, stagliata com'è su un monotono e atonale sfondo verde. Steiger e Romy adeguati, ma è il contorno (ottimo Rochefort) a risultare decisivo per mettere in risalto i vari caratteri sotto la nostra lente.

da qui

 

Dopo i primi 10’, ossia già alla fine dei titoli di testa, tutto sembra avviato su binari consueti: una malmaritata, trovatosi un amante giovane (e, vedendo Romy Schneider in tutto il suo fulgore, ci si stupisce che ci abbia messo tanto tempo a trovarlo), decide di usarlo per far fuori il consorte alcolizzato e impotente. Poi sembra che Chabrol, solitamente lineare nello sviluppare i suoi soggetti, abbia deciso di concentrare qui tutti i colpi di scena della sua carriera: quasi inutile enumerarli (dico solo che i due morti apparenti in realtà sono vivi entrambi, come si capisce abbastanza presto), come è inutile rilevare le inverosimiglianze, a tal punto è chiaro che il regista ha voluto portare all’estremo, al limite della parodia, uno dei suoi tipici intrecci. Si tratta dunque di un divertissement metacinematografico, ed è bene saperlo prima della visione, perché altrimenti si rischia di sentirsi presi in giro; chiarito questo, ci si possono godere anche gli intermezzi quasi comici affidati a due poliziotti che sembrano Gianni e Pinotto e soprattutto all’avvocato buffoncello Jean Rochefort.

da qui

 

Sopraffino davvero, Chabrol sfotte i ricconi della Costa Azzurra e li immerge nelle acque torbide di un noir alla Cain (quello de "Il postino suona sempre due volte") che però è tratto da un romanzo di Richard Neely (chi sarà mai?).
L'intrigo si mischia alla farsa in maniera squisita (valga per tutte la lunga sequenza in cui un grande Rochefort, abbagliato dalla presenza della Schneider, arringa un'appassionata difesa nell'ufficio del giudice, con risultati esilaranti!) anche grazie all'occhio di fine osservatore del regista che si diverte ad offrire un quadro clinico e sottile di varia umanità coinvolta nell'indagine a tinte fosche.
Steiger è un perfetto marito tradito ma Romy, vestita da Yves Saint Laurent, è oltremodo maestosa nella sua suprema bellezza mozzafiato e senza confini, per di più alle prese con un personaggio intrigante come pochi.
Divertissement très chic!

da qui

 

Chabrol, assieme a Truffaut, era tra i più grandi ammiratori di Hitchcock e questa pellicola è un divertito omaggio alla sua poetica: partendo da un romanzo di matrice noir, il regista aggiunge un colpo di scena dopo l'altro, creando un effetto talmente inverosimile da sfociare nella parodia.
In aggiunta, c'è una coppia di poliziotti sui generis, che entra ed esce dalla scena con incredibile nonchalance, un avvocato logorroico (grande Jean Rochefort) che gestisce la causa 'improvvisando' e la bellezza di Romy Schneider, davvero abbagliante.
Forse l'unico neo è la presenza di Rod Steiger, per il suo stile di recitazione troppo 'Actors Studio', che non riesce ad amalgamarsi al resto del cast e allo spirito del film.

da qui