martedì 19 agosto 2025

L’erede - Xavier Lagrande

un film che inizia come tanti e poi il Male prende il sopravvento. 

il bravissimo Marc-André Grondin (l'erede) sostiene tutto il film sulle sue spalle. e sulle sue lacrime.

la morte del padre, che non vedeva da molti anni, con cui non andava d'accordo (è un eufemismo), lo costringe a tornare il Canada per le esequie e la burocrazia dell'eredità.

ma non sono tempi facili, e, bene o male, il figlio diventa come il padre, cosa che sempre ha odiato.

ma guardatevi il film, nessuno resterà deluso, anzi...

buona (drammatica) visione - Ismaele




QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Il regista francese dimostra una sbalorditiva capacità di creare tensione disseminando indizi che si ricompongono con sapienza magistrale in un finale perfetto. È proprio nel climax che le inquietudini del protagonista – radicate in un conflitto edipico mai risolto col padre e covate silenziosamente per tutta la narrazione – trovano una risposta compiuta. Legrand affila con precisione chirurgica gli strumenti del thriller psicanalitico, orchestrando un meccanismo narrativo in cui la casa di famiglia si trasforma in una trappola simbolica, e l’eredità – più che economica – è quella di un destino tossico, paterno, ingombrante e forse, chissà, persino genetico. La sua regia tratteggia un personaggio spaesato, intrappolato tra il panico, l’asma e la paura che il male, oltre a farsi sistema, si tramandi come un mobile antico. Certo, qualche passaggio narrativo della prima parte non sembra indispensabile, ma l’ultima mezz’ora – sconcertante, se non devastante – restituisce senso e necessità all’intero racconto. La tassa da pagare, da bravo erede, è salatissima.

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L’erede torna agli spazi e vuoti oscuri della memoria e del trauma familiare, scavando sempre più a fondo, fino a raggiungere il marcio e così l’oscurità, quella vera, rispetto al male che gli uomini fanno, nonostante le vittime siano padri, nonostante le vittime siano figli. La stessa oscurità che L’affido in qualche modo risolveva in un finale brutale e cupo, eppure conciliatorio. La stessa che qui non ha limiti. Poiché al contrario de L’affido, la scrittura – e così la regia – di L’erede, non intende più limitarsi agli stilemi del dramma familiare, muovendosi abilmente tra i linguaggi del thriller e dell’horror. Cosa si nasconde nella casa del padre? Qual è il reale significato di questo titolo così simbolico? E ancora, quanto è vero, che dai padri controvoglia o meno, si finisce sempre per ereditare una parte di sé?

Un’indagine sul male, celato nell’ordinarietà più spaventosa, che serpeggia e sussurra impunito, tra le stradine di un quartiere residenziale e le vite tranquille e dolorose di volti e corpi segnati dal tempo. Ingenui talvolta e per questo così inebetiti di fronte alle regole della violenza e dell’oscurità. Quella che il giovane e ignaro Ellias è chiamato a smascherare, correndo il rischio di assumerla su di sé, aderendole perfettamente, pur dichiarandosene estraneo.

Un cinema angosciante, brutale e laconico, che se inizialmente sembra richiamare l’immaginario di Tom Ford (Animali notturni), via via che l’orrore prende piede, ritrova sempre più tanto l’ambiguo e orrorifico Tom à la ferme di Xavier Dolan, quanto la disperazione cupa del Prisoners di Denis Villeneuve. Le colpe dei padri ancora ricadono sui figli e con esse le maschere e i volti reali che l’oscurità ha da sempre celato. Porta via ad un uomo la sua famiglia e il male arriverà. È su questo che ragiona il cinema di Legrand, è qui che l’horror dialoga con il reale e fa paura, molta.

https://www.sentieriselvaggi.it/lerede-di-xavier-legrand/

 

L’aspetto più interessante è però, ancora una volta, la riflessione su come il maschile tenda a sopraffare il femminile, cioè sull’ombra venefica del patriarcato. Ellias, da stilista qual è, tende a oggettificare le donne, arrivando persino ad “uccidere” la musa del suo stesso mentore, per poi avere a che fare con il segreto del padre e con il rapporto malsano di quest’ultimo verso il sesso femminile. Legrand ha parlato di Hitchcock e Lang  nello stile e nel tono con cui ha deciso di approcciarsi a questa storia, ma forse i riferimenti sono troppo alti e non così necessari. Quel che però è certo è che L’erede è ben costruito anche nel modo in cui gestisce la propria tensione drammaturgica, aspetto per niente scontato.

Grazie all’intelligenza della messinscena e alla propria portata oscura nel suo rifarsi ai topos della tragedia greca, il film è un assalto ben assestato ai nervi dello spettatore, efficace come thriller claustrofobico ma anche come riflessione stridente su fino a che punto può spingersi un uomo per proteggere la propria eredità spirituale. Certo, qualche incertezza di scrittura non manca e nella parte centrale gli eventi tendono un po’ troppo a trascinarsi senza un’apparente direzione, ma il risultato è quello di una suggestione morbosa che non lascia andare facilmente lo spettatore anche dopo i titoli di coda. Ancora una volta, non era scontato.

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domenica 17 agosto 2025

Caccia tragica - Giuseppe De Santis

Giuseppe De Santis ha fatto pochi film nella sua carriera, chissà se  dipende da film come questo, chi finanzia un film che spaventa il potere facendo vincere le cooperative del dopoguerra contro gli avidi latifondisti amanti del fascismo?

il film racconta una storia terribile, migliaia e milioni di contadini erano in balia dei proprietari terrieri, come avviene oggi in India, per esempio.

vedendo Caccia tragica starete vedendo un pezzo di Novecento, il gran film di Bernardo Bertolucci, che avrà visto e rivisto il film di Giuseppe De Santis.

un film da non perdere, un capolavoro immeritatamente poco conosciuto, non ve ne pentirete.

buona (politica e classista) visione - Ismaele



 

QUI o QUI si può vedere il film completo

 

 

 

Splendido esempio di neorealismo "resistente" (anche dal punto di vista cinematografico). Prima del capolavoro Riso amaro De Santis formula già compiutamente la sua idea di un cinema consapevole e "partigiano" sul piano politico/civile quanto strutturato e "accumulativo" sul piano tecnico e spettacolare. Il quadro di un'Italia ribollente e sfasciata, imbarbarita ma non impietosa è descritto con una forza a cui si perdonano errori ed eccessi melò. Tutti in parte gli attori, ma ruolo della vita per Vivi Gioi/Daniela, spia tedesca rapata e donna perduta.

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Dopo il documentario Giorni di gloria, lavoro di montaggio di materiali altrui, Caccia tragica (80 min.) costituisce il vero film d'esordio di Giuseppe de Santis. Conclusa l'importante collaborazione in qualita' di aiuto regista nel film di Vergano (primi mesi del 1946), il cineasta ciociaro ottiene a sua volta i finanziamenti dall'ANPI per una pellicola che mostri la situazione precaria delle cooperative agricole nella bassa padana, strette tra i debiti, il padronato che le considera una concorrenza abusiva e la criminalita'. Il risultato (presentato con successo alla mostra di Venezia nel settembre 1947) e' sorprendente e si puo' tranquillamente considerare il migliore lungomeraggio della lunga e disomogenea carriera di De Santis nonche' una tra le cose piu' significative del periodo. L'esordiente non sfugge alla scontato e propagandistico manicheismo che vuole tutto il bene con il popolo (i contadini della cooperativa nel caso specifico) e tutto il male con i padroni e gli ex fascisti. Pero', come avveniva nell'unica altra pellicola compiuta e condivisivbile finora apparsa sull'argomento, Due lettere anonime di Camerini, De Santis riesce a mettere in scena in entrambe le fazioni, l'un contro l'altra armate, anziche' penose marionette, dei protagonisti a tutto tondo, credibili e dotati di una loro particolare umanita' (pur con alcune eccezioni). Inoltre l'autore evita le secche dell'improvvisazione e del "neorealismo" piu' sperimentale di Rossellini per affidarsi ad una solida e ben costruita sceneggiatura (prodotta da un  piccolo ìesercito di scrittori tra i quali Alvaro, Lizzani, Antonioni e Zavattini) in cui le reazioni dei personaggi emergono quale prodotto di situazioni stringenti, memori del noir americano. Concisione narrativa hollywoodiana e lirismo tutto italiano propongono, per la prima volta, una delle "ricette" vincenti del nostro futuro cinema; basti pensare che almeno due capolavori posteriori quali Salvatore Giuliano (Rosi 1961) e Novecento (Bertolucci, 1976) in alcune scene di massa (le donne in piazza a Montelepre,  i contadini assiepati sugli argini del Po) sembrano ricordarsi e citare proprio l' "antico" Caccia tragica

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Sposarsi sotto le bombe, riuscendo ad essere felici anche in circostanze belliche e venire, immediatamente dopo, allontanati dall'uomo che si ama. È quello che capita alla protagonista della pellicola di De Santis, che realizza un'opera (e in questo il film ha un duplice valore) sull'Italia postbellica in chiave documentaristica, fotografando la realtà di allora con il paesaggio usato per rappresentare gli stati d'animo in uno stile quasi impersonale. Ed è ancora l'Italia contadina a farla da protagonista assoluta. Neorealismo doc.

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Nonostante la fine delle ostilità, tutto ancora ricorda i recenti combattimenti. Le campagne sono disseminate di mine; girano ancora armi in quantità; la nomenclatura dei luoghi reca le tracce dell'occupazione tedesca, da poco conclusasi; le persone vagano da un luogo all'altro con qualunque mezzo disponibile. Esiste, infine, il dramma dei reduci, sfiancati e delusi dagli anni di guerra e prigionia, quasi un peso per la società in via di formazione. Eppure, è necessario reintegrarli e dar loro speranze per il futuro. Alberto e Daniela sono interpretati rispettivamente dal prolifico Andrea Checchi e l'attrice di padre norvegese Vivi Gioi; amanti lunatici ed inclini al bisticcio, rappresentano una coppia di fatto, agli antipodi nella sua essenza rispetto quella di Giovanna e Michele (Carla Del Poggio, Massimo Girotti), unita dal vincolo del matrimonio, dalla fedeltà, dal sostegno reciproco, da una visione positiva del futuro. Il film è ambientato tra campagne pianeggianti e piccoli insediamenti, in un luogo che potrebbe essere l'Emilia-Romagna. "Caccia Tragica" è un buon esempio di cinema neorealista. Non nega le immense difficoltà della collettività appena uscita dal conflitto, ma, al tempo stesso, ne elogia le qualità positive, attraverso le quali essa può emendarsi e migliorare, al fine di lasciar per sempre dietro di sè i mali del periodo bellico.

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Caccia Tragica è un esempio di grande cinema nostro e non solo legato all’idea di neo-realismo, ma sceneggiatura, legata a nomi come Lizzani, Zavattini, Antonioni, che hanno superato il neorealismo facendo una vera e propria operazione di cinema. Il finale ha un significato tutto suo e nostro come quello del lancio delle zolle di terra. Colpisce molto il personaggio di Daniela, Lilì Marlene, collaborazionista con i tedeschi che ha   avuto la punizione del taglio dei capelli dai partigiani, un personaggio femminile complesso a cavallo fra il mondo tarlato di ieri con la trasparenza lucida dell’oggi. Un film che alcuni nostri grandi registi non hanno dimenticato vedi Rosi  di Salvatore Giulino e Bertolucci di Novecento, dove alcune scene sono state rifatte pari pari.

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De Santis imposta, già con Caccia tragica, un cinema figurativamente influenzato dall'esperienza eisensteiniana (e, del resto, lo sguardo del regista di Fondi era direzionato verso l'URSS anche politicamente), narrativamente parente del cinema americano (per buttare là due nomi, direi Walsh Huston), ma che non prescindeva dalla realtà sociale e politica dell'Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Interessantissima, in quest'ottica, l'ambientazione in una pianura padana sconvolta dallo scontro tra i vecchi proprietari terrieri e le cooperative di contadini, che rifiutavano l'antica condizione di braccianti e mezzadri, per mettere il sudore della fronte al servizio delle proprie famiglie, anziché di un padrone dalle belle braghe bianche. Ed a testimoniare il recente passaggio della guerra, restano le mine sepolte nei campi, che impongono agli agricoltori un lavoro supplementare, preliminare perfino al dissodamento di quella terra che nel finale viene lanciata al reduce, che aveva pensato di fare soldi senza il duro lavoro delle braccia, e si era inconsapevolmente messo al servizio dei proprietari terrieri.

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La corposa fisicità delle immagini,il dialogo forse enfatico ma profondamente plausibile tra i personaggi,la reale forza delle intenzioni:la mobilità senza sosta e senza esitazioni della cinepresa bracca in ogni angolo le storie e i pentimenti e le false gloria di chi le porta,la folla che non è inferocita ma sa gridare il proprio trionfo e la rabbia,come cavallette umane in grado raccogliere forze e armi.
Le scene memorabili,avvolte da una fotografia ci crudo calore,sono diverse e anche compiaciute,tenute insieme da un desiderio quasi brutale di tessere una storia di quelle scene che presto saranno memoria e coscienza.
Infatti,sia come cinema di genere che si ispira alla tradizione americana ma lasciando cadere spesso il senso del romanzo per privilegiare il cinema stesso come documento più sensuale,sia come opera finalmente autoriale,”Caccia tragica” ha il valore di una oralità che sente il bisogno della decisiva trascrizione visiva.
E la facce rigorosamente umane e attuali dei suoi attori,più sorprendenti di quelle di qualsiasi divo,
ce lo ricordano in ogni momento,fino all’ultima delle comparse.
Da far rivedere non solo ai registi italiani,definitivamente insofferenti al cinema di genere(o del tutto incapaci di realizzarlo),ma anche a quelli americani che hanno perso il senso della misura,della narrazione e della tradizione.

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venerdì 15 agosto 2025

I banchieri di Dio - Il caso Calvi - Giuseppe Ferrara

nel 2002 apparve questo film di Giuseppe Ferrara (che non gira film d'intrattenimento), bisognerebbe vederlo spesso per capire l'involuzione dell'Italia.

appare nel film Licio Gelli, che parla di un obiettivo importantissimo, la separazione delle carriere dei magistrati.

dopo decenni dalla scoperta del programma della P2 e dopo un paio di decenni dal film "scopriamo" che il nostro governo servo degli Usa e di Israele è soptratutto il governo della P2, sic e simpliciter.

il film riesce in due ore a concentrare e gestire mille fili, e quello che si vede nel film è storia.

Calvi è interpretato da un eccezionalmente bravo Omero Antonutti.

un film da non perdere, una volta alla settimana dovrebbe apparire in prima serata in tv.

buona (coraggiosa) visione - Ismaele

 

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

…La produzione del film fu molto sofferta, con finanziamenti a singhiozzo, poca disponibilità, interferenze della magistratura, denunce da parte di Flavio Carboni (il faccendiere interpretato da Giannini) che costrinsero Ferrara a corredare parti di film con didascalie che contestualizzano e spiegano, e che sono letteralmente tratte dalle carte processuali. I Banchieri Di Dio è dedicato alla memoria di Gian Maria Volonté, attore al quale Ferrara aveva anche pensato per il ruolo da protagonista all'indomani de Il Caso Moro, ma che morì nel 1994. Così come Gene Hackman sarebbe dovuto essere Marcinkus. L'uscita in sala non premiò l'opera, poiché non venne accolta granché bene dal pubblico, evidentemente poco voglioso di perdersi nei meandri del malaffare italiano e certamente ancor meno invogliato da una pellicola che, al netto della sua fisiologica tortuosità, non è esente da difetti. La critica si approcciò a I Banchieri Di Dio in modo altrettanto freddo. Rimane agli atti come l'unico (encomiabile) tentativo di apparecchiare la materia Calvi in modo esaustivo e senza infingimenti - il Vaticano, il governo italiano, vari poteri e potentati nazionali non ne escono affatto bene - pur con tutte le difficoltà del caso.

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Giuseppe Ferrara è uno testardo, si sa. Sono più famosi i suoi film rispetto a lui ed hanno sempre suscitato una marea di polemiche da parte di certa politica e molte perplessità nelle file della critica cinematografia: Il caso Moro e Giovanni Falcone valgano da esempi emblematici. Lo si accusa da sempre di superficialità e rozzezza della messinscena, pretenziosità dei fatti narrati, dialoghi tagliati con l’accetta, personaggi famosi imitati alla Bagaglino.

Non fece eccezione nemmeno questo I banchieri di Dio, uscito nel 2002 e subito fatto sequestrare dall’autorità giudiziaria dopo la querela esposta da Flavio Carboni. Un film, prima di tutto, sofferto: erano quindici anni che Ferrara cercava di portare sullo schermo gli ultimi mesi di Roberto Calvi, presidente del Banco Cattolico Ambrosiano. Non tanto per la vicenda umana in sé per sé, quanto per gli intrighi di palazzo con eminenze grigie della politica (Andreotti), prelati dalla dubbia condotta morale (Marcinkus), gran maestri e burattinai (Licio Gelli), la massoneria, la P2, la finanza laica e quella cattolica, la mafia, i servizi segreti, i paesi sudamericani…

C’è tanta carne al fuoco – cucinata grazie ai documenti giudiziari in possesso e non tesi infondate – e capace di spiazzare lo spettatore che non riesce a tenere più di tanto il filo del discorso. Ci sono tanti personaggi pubblici (ci sono anche Forlani, Sindona, Rosone, Senatore, Craxi, persino Wojtyla, del quale non vediamo il volto “per doveroso rispetto”) e altri meno celebri ma ugualmente influenti (il faccendiere Carboni, il misterioso Pazienza, lo scagnozzo Vittor), in questa torbida storia italiana, un vero mistero del quale non conosciamo ancora molto e sembra la rottura di un equilibrio che si era creato con facilità e appoggio dall’alto. Il caso Calvi, per l’appunto, il ritratto di un uomo che si ritrova in un gioco più grande di lui, dal quale non riesce ad uscire (ma lui ne vuole uscire?)…

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Rigoroso nella narrazione seguendo dato per dato tutti i fili della vicenda. Fosse stato solo questo sarebbe stato un onesto prodotto paratelevisivo da "film dossier" invece, per fortuna, Ferrara ci mette del suo e affida molti ruoli a caratteristi della commedia all'italiana (come il Camillo Milli dei FANTOZZI!). Pure Giannini e Hauer, altrove serissimi, sembra che si divertano. Questo rende il tutto grottesco e quindi efficace alla critica di certe ipocrisie dell'Italia dell'epoca. E poi a confermarne l'efficacia ci sono state denunce e vari sequestri alla pellicola. Grande Ferrara!!!

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E' il classico film che merita di essere visto più per quello che dice che per come lo dice. Certo la complessità delle vicende narrate non agevole la compresione, che rischia di essere davvero ardua per chi non le conosca almeno in parte. Il taglio troppo televisivo e lo schematismo di fondo sicuramente non giovano all'operazione, ma forse non c'era altro modo per riassumere in due ore un groviglio in cui erano coinvolti banchieri, bancarottieri, faccendieri, il Vaticano, servizi segreti più o meno deviati, massoneria, partiti politici, mafia e chi più ne ha più ne metta. Alle prese con una materia così scottante, Ferrara (assistito da Armenia Balducci in sede di sceneggiatura) si è attenuto
abbastanza scrupolosamente alla documentazione ufficiale (non mancano immagini di repertorio) senza fare sconti a nessuno, nemmeno al Papa (il cui volto comunque non compare nel film "per doveroso rispetto", recita la didascalia iniziale). Il vero punto di forza è comunque nella raffigurazione di Calvi, che grazia alla splendida interpretazione di Omero Antonutti, emerge come un personaggio che per ambizione e smania di potere si è trovato coinvolto in un gioco troppo più grande di lui, ma così terribilmente umano nel suo ondeggiare tra momenti di totale rassegnazione e di ingenuità quasi disarmante, convinto che in fondo le cose si potessero ancora aggiustare

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OTTIMO direi
Non riesco a capire perchè Film TV debba basare il giudizio di un film su un valore solamente estetico? E' questo atteggiamento superficiale che mi ha fatto smettere di comprarlo in edicola.Nella storia del cinema mi pare più utile e legittimo il film di Ferrara piuttosto che altre porcate che ci propinano come film indimenticabili: Titanic (ottimo), L'allenatore nel pallone(sufficiente), Troy(buono),il gladiatore(sufficiente). Ovviamente anche la vostra libertà di giudizio è legittima ma rivalutate un pò di valutazioni...ah!grande Ferrara, registi ormai in estinzione di fronte ai dilaganti Muccino.

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giovedì 14 agosto 2025

Stranizza d’amuri – Giuseppe Fiorello

purtroppo il film è tratto da una storia vera.

due giovani si incontrano, diventa amici inseparabili e anche amanti.

ma qualcuno aveva deciso che gli amori strani dovevano essere interrotti a qualsiasi costo, e il costo fu l'assassino dei due ragazzi.

il film è emozionante e coinvolgente, ottimi gli attori nelle mani di n sorprendente regista, sulla musica di Franco Battiato.

davvero un film da non perdere.

buona (amorosa) visione - Ismaele

 


 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Ti amo, ma è strano – Stranizza d’amuri di Beppe Fiorello: l’amore tra due ragazzi che oggi non è strano

Alle prime scene, senza vedere il trailer e senza sapere altro, l’amore strano si suppone sia quello tra due maschi in Sicilia nel 1982, quando il film di Beppe Fiorello è ambientato, ispirandosi a fatti di cronaca di due anni prima. Dopo pochi minuti e dopo le prime scene, inizia il racconto di un altro amore diverso e più strano: l’amore tra uno dei due protagonisti, Gianni, e sua madre. 

L’amore materno è il focolare, la certezza, il riparo, che quasi per definizione non sarebbe mai strano. A volte può trasformarsi in odio – ma comunque non lo chiameresti strano. Beppe Fiorello riesce a raccontare un amore materno che sa mettere in bilico il nostro riferimento, lasciandoci dispersi e in cerca di agganci che non sapevamo di avere. Questo è il compito della letteratura, anche cinematografica. Nel film, è la stranezza di un amore tra madre e figlio che concede la metrica. 

Stranizza d’amuri: come una canzone di Battiato

A debilitarci, non è l’amore tra i due ragazzi – che è gioia e vita in ogni frammento – ma l’amore tra la madre e il figlio, dentro un appartamento con carte da parati color sangue e rosa, giallo e ocra, che in Sicilia sono i colori sopra un’officina meccanica. L’olio del motore, una tuta da lavoro rossa per il marito violento, e azzurro intenso per quelle del ragazzo. In casa, il frigorifero non è appoggiato alla parete, ma al centro dell’angolo, come ancora un oggetto estraneo, che non si sapeva bene come gestire: il manico in alluminio, la porta impiallacciata. In quegli anni, gli elettrodomestici erano ancora entità strane

https://lampoonmagazine[F1] .com/stranizza-damuri-beppe-fiorello/

 

Non cerca la lacrima facile, non idealizza i personaggi. La messa in scena è lucida, mai artificiosa, spesso poetica (vedi la stupenda sequenza di sospesa felicità per Gianni e sua madre, che ballano in cucina, come in una parafrasi di “Mamma Roma” di Pasolini, sulle note de “Il mio mondo” di Umberto Bindi, con Nino che idealmente partecipa, sorridente, in montaggio alternato, per strada sul suo motorino). Merito anche dei due giovani attori protagonisti, Samuele Segreto (Gianni) e Gabriele Pizzurro (Nino), spontanei, intensi, mai sopra le righe. Riescono a rendere vero un sentimento che non ha avuto il tempo di diventare adulto, e che proprio per questo ci colpisce con una forza straordinaria. In definitiva, “Stranizza d’Amuri” non è solo un film su una storia d’amore spezzata. È un’opera civile, necessaria. Ci ricorda, con dolore, ma anche con tenerezza, quanto sia stato (e a volte sia ancora) difficile essere se stessi in un Paese che troppo a lungo ha considerato “diverso” sinonimo di “sbagliato”. È un richiamo a non abbassare la guardia, a non dimenticare mai quante vite sono state schiacciate dalla cultura dell’odio e della paura. Un film che lascia il segno. E che merita di essere visto e discusso.

https://www.articolo21.org/2025/08/stranizza-damuri-di-giuseppe-fiorello-ita-2023/

 

Carnefice, insomma, è quanto li contiene, un universo culturale che i caratteri secondari - dalla madre-padrona-vittima-amante al gay represso che è se stesso solo violentemente - assorbono e manifestano (la famiglia di Nino, all’inizio la più accogliente, poi la più barbara) a loro insaputa. Il giudizio, la tesi cattedratica a Fiorello non interessa, e lo capiamo quando decide di chiudere il suo film bruscamente, rivelandone la verità - la vicenda di Stranizza d’amuri è ispirata al duplice delitto omofobo avvenuto a Giarre il 31 ottobre 1980 - soltanto allo scoccare dell’ultima inquadratura. Quando il mondo, semplicemente, finisce, e non c’è più null’altro da sentire. È in questa scelta di campo, nella direzione attoriale (oltre ai luminosi protagonisti Pizzurro e Segreto, strepitose le facce e le presenze di Antonio De Matteo, Simona Malato, Fabrizia Sacchi, Giuseppe Lo Piccolo…), nella scrittura visiva, nell’indietreggiare dalla didascalia, che Fiorello compie il piccolo miracolo di disciogliere in un’opera pregevole una confezione che si sarebbe potuta immaginare tendente a modi e forme della fiction. E invece.

https://www.spietati.it/stranizza-damuri/

 

 

 

 


martedì 12 agosto 2025

Misericordia - Emma Dante

Arturo (un omaggio a Elsa Morante) è un bambino e poi un giovane che viene adottato da due puttane, l'unico essere che le due amano.

è un film crudo e poetico, Arturo (una specie di Lazzaro felice) è un ragazzo difficile, pauroso e dolcissimo, gioca e danza tutto il tempo, le due puttane, a cui se ne aggiungerà una terza, più giovane, proteggono Arturo in tutto e per tutto, ma dovranno prendere una decisione importante.

vivono in una comunità di poveri, ma solidali, piena di bambini, tutti amici di Arturo.

un film che riesce a coinvolgere e commuovere.

da non perdere, promesso.

buona (Arturo) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 


 

Misericordia è la storia di puttane, definite così per eufemismo, vittime di una becera ilarità e di descrizioni sprezzanti che non si soffermano sulla sofferenza e complessità che caratterizza il loro mondo, un mondo che le costringe ad un gioco umiliante. Arturo, rimasto orfano alla nascita, è figlio di queste donne, esempio di violenza e tenerezza; un gigante buono molestato dai tanti giganti cattivi, protetto però dalle madri che il caso che gli ha messo accanto, madri diverse, egoiste ed egocentriche, ma che di certo, lo amano.  

È una trama complessa quella di Misericordia, che si intreccia seguendo un percorso emozionale, sensoriale che si dipana in una scala di colori e si aggira nella spigolosità delle rocce eternamente in movimento, in un’isola dai significati persi “ieri” e riavvolti nelle speranze di un domani.
E quanto all’amore? Ha un volto sgualcito, amaro; ha il volto di Anna, un vestito azzurro e mani sporche, sudicie che abusano del suo corpo. Arturo la sente, la avverte, in mezzo a quel porcile di fanghiglia seppellito sotto stracci sporchi strizzati fino a togliere il respiro…

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…Arturo (citazione da Elsa Morante, lo conferma la regista) è un giovane mai cresciuto, corre nudo saltellando come un uccello fra l’immondizia di quel borgo di catapecchie, chiuso in un’insenatura del mare di Erice, riserva naturale che ha fatto da set, a ridosso di una falesia minacciosa, davanti al mare cristallino di Sicilia.

Borgo di prostitute, omaccioni e bambinetti vocianti, Arturo è la loro mascotte, adottato da tre madri più la pecora che l’ha assistito quando, neonato urlante, era abbandonato nel cavo della roccia.

Femminicidio, non poteva mancare, è la scena di apertura, quindi niente spoiler.

La madre in fondo al mare e venti anni dopo il bambino Arturo, cervello compromesso dai colpi del padre sulla pancia della donna.

Un film durissimo, certo a molte anime belle non piacerà, un film pieno di amore.

Il mare ribolle e invade le case, dietro la tenda all’uncinetto si fa sesso, davanti la fila di uomini aspetta scolando birra, le bambine vestono abiti di tulle da fata, il padre giura che prima o poi ucciderà quel disgraziato aborto di natura…

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Film di vertiginosa bellezza, "Misericordia". Emma Dante realizza il suo capolavoro e tocca il cuore delle cose, tutte, con questo personaggio, Arturo, un orfano rimasto bambino per un ritardo di nascita, cresciuto da una comunità di prostitute, come la madre, uccisa nel tentativo di fuggire da una vita disperata e disperante. Arturo è il perno attorno a cui ruotano le tristi vite di queste donne, orogliose e fiere, dure come l'acciaio, ma segnate da un destino evidentemente ineluttabile: Arturo rappresenta per loro la libertà, l'immaginazione, la purezza, e quando, inevitabilmente, si caccia nei guai, fanno famiglia, quella vera. Emma Dante non fa un film per tutti, se ne frega, evviva, del grande pubblico, e disegna un racconto estremamente periferico, duro e respingente, sopra un'isola del sud, siciliana, tutta sommovimenti della terra, rovine, rifiuti e degrado. Donne comunque forti, che hanno accettato per destino quella che è una vita difficile e senza compromessi: un cliente via l'altro, un pappone, soldi e mercificazione. Ma Arturo è un angelo che illumina ogni cosa, senza retorica e senza melodramma, che le accompagnerà fino a un finale quasi insostenibile, che mi ha commosso alle lacrime. Film enorme, poetico quando serve, luminoso quando serve, senza buoni sentimenti un tanto al chilo. Bellissimo.

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Rimane comunque la potenza dei corpi, il loro esprimersi attraverso un linguaggio intimo veicolato dalla danza, il loro ribellarsi rumoroso e straripante contro ogni cosa, anche contro la natura stessa. E soprattutto rimane uno sguardo poetico che cerca di esplorare le pieghe del reale.

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…Misericordia oscilla tra dramma e frammenti di favola in nero in cui il mondo attuale e il mito convivono in un eterno presente, riproducendo all’infinito quel conflitto tra maschile e femminile che genera vita ma si nutre solo di abusi, violenza e sottomissione.

La complessità dei concetti si esprime attraverso un ragionato uso di simboli – l’acqua come liquido amniotico e forza inarrestabile sotterranea, l’agnello di matrice cristiana, il firmamento arturiano, la natura matrigna – e arrivano dritti al cuore e privi di retorica grazie a una sapiente direzione di attori di rara bravura.

Simona Malato, Tiziana Cuticchio e Milena Catalano muovono i corpi e danno parola ai loro volti che ribollono di accenti ora amorevoli, ora sguaiati, ora ribelli e ora rassegnati. Questo linguaggio materico rafforza l’aspra sonorità del dialetto siciliano e fa da contrappunto alla rumorosa e scomposta vitalità di Arturo. Il danzatore professionista Simone Strambelli regala a questo toccante personaggio una personalissima voce composta dal ritmico, continuo girare in tondo, da vocalizzi di animale libero e felice, dal paziente tessere e annodare fili di lana che, dalla sua bocca, diventano fisici e colorati universi. Un mondo fertile in cui venire al mondo è come nascere stella, una stella di nome Arturo, la più luminosa e brillante del cielo notturno.

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…Cristo inebetito e rigirante su se stesso come un derviscio incosciente (ma anche come i francescani di rosselliniana memoria) Arturo è l’atto di liberazione del cinema di Emma Dante, che si lascia poi sedurre – ed è la vera forza del film – da un ambiente naturale di cui sa comprendere e rispettare la potenza. La mitologia che è entrata nel racconto di nuovo in modo dichiarato nel personaggio di Polifemo, interpretato da un Fabrizio Ferracane in veste di Lucifero laido, la si rintraccia in modo meno intellettuale ma più centrato in quel posto fuori dal mondo, chiuso tra la montagna che si sgretola e il mare in cui si affonda. Un mondo che uccide, ma mai con la ferale crudeltà dell’umano, e in particolar modo del maschile, qui accettabile solo nella sua forma priva di consapevolezza delle proprie azioni (Arturo, ovviamente) ma per il resto di una cattiveria irredimibile, e insopportabile. Emma Dante si sta progressivamente “liberando” del ventre caldo e protettivo del testo preesistente, e Misericordia racconta dunque due tentativi di fuga libertaria, quella di Arturo e quella della stessa regista. Ed è forse questo, prima ancora del discorso tematico, a rappresentare il reale motivo d’interesse del film, in attesa dei futuri sviluppi dell’autrice.

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…In un passaggio de "La città dei vivi" (Einaudi, 2020) - il romanzo di Nicola Lagioia che racconta dell’omicidio Varani - lo scrittore siciliano scrive di quanto sia difficile credere nel potenziale magico della parola in un mondo, il nostro, materialista, in cui, cioè, si suppone la realtà sia sempre uguale a sé stessa. "Misericordia" e la narrazione di Lagioia hanno in comune l’ineluttabilità, della violenza certo, ma soprattutto della conseguenza - il materialismo e la sua ossessione per ciò che è causa e ciò che è effetto. Nel film, l’esempio più evidente è quello della montagna, protagonista assoluta dei campi lunghi, in cui la rilettura della più famosa delle operette morali di Leopardi ("Dialogo della natura e di un islandese") prende forma: la natura, come la casa, è matrigna, ma anche agente controfattuale, salvatrice, se distruggesse la baraccopoli con la sua forza. Né Betta, né Nuccia o Anna ne hanno paura, "tanto non succede" dicono, l’ineluttabilità appunto…

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lunedì 11 agosto 2025

Fela - Il mio Dio Vivente - Daniele Vicari

Michele Avantario era un ragazzo che incrociò la musica rivoluzionaria di Fela Kuti e fu amore. 

partì per la Nigeria, riuscì ad entrare nella comunità di Fela Kuti, che lo accolse con curiosità e affetto.

per Michele fu un'illuminazione, verso Fela fu devozione, è stato il suo Dio vivente.

il film è coinvolgente, emozionante, commovente, come se l'avesse girato Michele Avantario, che con noi ringrazia Daniele Vicari per l'impresa.

non perdetevi il film, nessuno resterà deluso.

buona (straordinaria) visione - Ismaele

e (ri)ascoltiamo la musica di Fela Kuti!

 


QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Il testo di Daniele Vicari su “Fela il mio dio vivente”:

Nel 1984 avevo 16 anni, e venni a vivere a Roma. Ero una sorta di “tabula rasa”, un ragazzo spaesato. Anzi, spatriato. Non conoscevo il cinema, non conoscevo la musica. Ascoltavo l’hard rock e il reggae ma un po’ a caso, devo essere sincero. Il 1984 è l’anno del concerto romano di Fela Kuti, un concerto rimasto nella memoria di molti. Io non ci andai perché non sospettavo nemmeno esistesse un artista come Fela. Lo scoprii nei mesi successivi. A seguito di quel concerto nei centri sociali, durante le manifestazioni, nelle feste e nei locali di musica africana che a Roma erano un bel po’, la musica di Kuti cominciò a circolare.

Mi sono molto emozionato quando, guardando i repertori che Michele Avantario ha lasciato a Renata di Leone, ho capito che si trattava di quell’anno lì e di quel concerto lì che riecheggiò in tutta la città per mesi. Raggiungendo persino un outsider come me.

Non la solita apologia di un gigante della musica del ‘900

Nel 2019 camminando lungo il porticato dell’Auditorium, alla festa di Roma, ho incontrato Renata Di Leone. Avevo scelto Giovanni Capalbo, suo secondo marito, per un piccolo ruolo in Alligatore e lui era lì con lei. Mi fermarono e mi raccontarono di aver creato una società di produzione che si chiama Fabrique Entertainment. Poi mi raccontarono dell’esistenza di questi repertori lasciati a Renata dal suo primo marito, morto nel 2003.

Loro mi parlarono dell’idea di fare un film su Fela Kuti, grazie a queste immagini. Ma quando ho visto una parte di quel patrimonio ed ho letto gli appunti di Michele, che aveva intenzione di fare un film di finzione su Fela Kuti, rimasi molto colpito dal modo in cui quelle immagini erano state realizzate. Dall’intenzione del regista che vi traspariva, oltre che da cosa mostravano. Il materiale di Michele mi offriva una opportunità unica per fare qualcosa che nei film musicali è praticamente impossibile: un film che non fosse la solita apologia di un gigante della musica del ‘900.

Quasi sempre i film musicali sono poco interessanti dal punto di vista strettamente cinematografico. Ci sono troppi vincoli, cioè le etichette musicali, le famiglie degli artisti. Gli artisti stessi che hanno una “immagine” che vogliono mantenere a tutti i costi. Nelle riprese di Michele invece Fela Kuti è ripreso nella sua nuda verità quotidiana, senza censure o autocensure. Lo sguardo di Michele ci racconta un Fela Kuti in chiaroscuro e più umanizza quell’uomo più lo rende importante ai nostri occhi, perché lo coglie nella sua fragilità. Non è una popstar che vediamo rappresentata ma un amico, un maestro, un “babalawo”. Soprattutto quelle immagini raccontano due cose che ho considerato idee guida: lo sguardo di Michele, la sua intenzionalità particolare e la storia di un progetto cinematografico fallito. Due cose molte significative, cosa avrei potuto chiedere di più?...

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Michele Avantario ha lanciato programmi televisivi, fatto videoarte, creato lo spot promozionale dell'Estate romana di Renato Nicolini, ma soprattutto è stato un grande conoscitore di musica africana superfan del musicista nigeriano Fela Kuti, Back President dell'afro beat e simbolo della nuova evoluzione africana.
Avantario ha seguito Kuti ovunque, invitandolo ad esibirsi in Italia e recandosi regolarmente in Nigeria, e riuscendo a poco a poco a guadagnarsi la fiducia del musicista che alla fine lo accoglieva presso la sua comune, Kalakuta, come un membro della sua famiglia allargata - peraltro l'unico bianco.
Il sogno di Michele era girare un film su quello che era arrivato a considerare come la sua guida spirituale, e per far questo ha girato ore di riprese e ha recuperato le bobine di pellicola in 35mm dirette da un altro cineasta e poi abbandonate all'incuria. Il risultato è la testimonianza ricchissima e inedita di un artista eclettico e controverso, ma anche dell'uomo che l'ha inseguito per anni con l'obiettivo di raccontarne l'unicità.

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Quella di Avantario per la figura di Fela Kuti, morto nel 1997, è una vera passione, quasi un’ossessione e il documentario la rende molto bene. Pugliese trapiantato a Roma, Michele Avantario si dimostra fin da subito molto attratto dalla musica afro e conosce in questo modo l’arte di Fela Kuti, inventore del genere afrobeat. Quando il comune di Roma, nel 1984, gli affida il compito di organizzare un concerto di Kuti, per Michele non è solo la realizzazione di un sogno ma anche l’occasione di conoscere direttamente questo autentico mito musicale; una figura carismatica e punto di riferimento politico per il popolo africano, non solo della Nigeria. Avantario – cui si deve anche il merito di aver importato in Italia la musica afrobeat – inizia ad accarezzare l’idea di realizzare un film su Kuti e per questo passa molto tempo a Lagos, nella comune in cui Kuti viveva con le sue 27 mogli, i figli, i musicisti. Un sogno destinato a rimanere tale perché Fela a un certo punto si oppone alla realizzazione del film, dal titolo provvisorio di Black President

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Daniele Vicari torna alle origini della sua (bella) carrierra cinematografica, riscoprendo il formato del documentario. Lo fa raccontando un sogno, una straordinaria esperienza di vita, quella di Michele Avantario, artista visivo e autore per la televisione, ma soprattutto vero e proprio discepolo di un dio musicale, ovvero del nigeriano Fela Kuti, inventore dell'afro beat, jazzista, rivoluzionario e figura spirituale tout court. Il sogno di Avantario era quello di realizzare un film su Fela, riprendendo l'idea di un altro film, andato perduto, "Black President", e innervandolo con la sua incredibile esperienza personale, che lo portò ad essere uno dei pochissimi bianchi che potevano frequentare la casa-comune di Kuti a Lagos. Vicari recupera il girato di Michele, spesso riprese traballanti e personali, e ne ricava, tramite una voce off che ne legge i diari di lavorazione, un documentario affascinate, utopico, che finisce per, ironicamente, dare pure un bello spaccato di cosa l'artista nigeriano sia stato per la musica africana e mondiale e, soprattutto, per il suo Paese…

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sabato 9 agosto 2025

La voglia matta – Luciano Salce

un affermato ingegnere (Antonio, interpretato da Ugo Tognazzi) impazzisce per Francesca (interpretata da Catherine Spaak), lui non è più gipvane e finisce in un gruppo di giovani che lo prendono per culo, in dramma è che se ne accorge, ma non riesce a lasciare la banda di giovani, a causa della sua voglia matta.

è un film inquietante, fa soffrire il gap generazionale e inquieta il rapporto con Francesca, che qualcuno definisce come un caso di pedofilia (a un certo punto Antonio cita i matrimoni con ragazze di 14 anni).

Ugo Tognazzi è perfetto per la sua parte, inadeguato a gestire la situazione in cui si trova, disprezza quei giovani ma non si allontana, Francesca è una calamita (ma anche una calamità), senza pietà.

insomma, un film che non fa ridere, se non con crudeltà, di commedia c'è poco, di tragedia molto di più.

non perdetelo, un film che resterà, grazie a un regista sottovalutato e a interpreti in stato di grazia.

buona (crudele) visione - Ismaele



QUI o QUI si può vedere il film online

 

 

Salce dirige un gran bel film con un ottimo Tognazzi, ingegnere quarantenne, che si invaghisce di una sedicenne Catherine Spaak. Comico ma anche amaro nel suo tono malinconico, vagamente nostalgico, col protagonista costretto a constare la sua "vecchiaia", ovvero la distanza incolmabile tra sé e il suo mondo rispetto alla giovinetta oggetto del suo desiderio e il suo circoletto di amici.

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probabilmente il miglior film di Salce assieme a Il federale dove alla commedia di costume si aggiunge anche una robusta dose di malinconia, di inquietudine per qualcosa che avrebbe potuto dare una scossa alla vita dell'ingegnere quarantenne e invece non è successo nulla. La performance di Tognazzi è veramente di alto livello, il suo cercare di adeguarsi ad un a eta' che non è la sua è da commedia nobile, come la sua inadeguatezza di cui non è conscio e il suo tira e molla con la lolita Spaak è il sale che dà vita a questo bel film. Sicuramente i compagni della lolita sono piu' insopportabili di cacche sotto le scarpe ,ma si sa quando l'ormone si scatena, si fa di tutto....Probabilmente sottovalutato...

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Colpisce, rivedendo il film oggi, come il regista abbia anticipato il vuoto esistenziale di una borghesia annoiata, sazia del proprio benessere e fondamentalmente priva di valori. Ed è la stessa figura del protagonista, protesa al disperato inseguimento della gioventù perduta a risultare di straordinaria attualità. La vicenda si svolge tutta in un giorno e in una notte in una casa sulla spiaggia nelle vicinanze di Roma, dove i giovani festeggiano l’ultimo week-end dell’estate. e dove l’ingegnere milanese li segue per mettere in atto i suoi goffi tentativi di corteggiamento. Siamo nel pieno del boom economico; è in atto la trasformazione definitiva dell’Italia da paese rurale a nazione industriale. Salce è uno dei primi autori che si sofferma ad analizzare la generazione dei giovani degli anni ’60, sottolineandone l’edonismo e l’egoismo, oltre che un rifiuto preconcetto per ogni forma di cultura (“Mussolini chi, il padre del pianista?”). Inoltre utilizza alcuni espedienti stilistici per organizzare la narrazione: il flusso interiore del protagonista viene descritto attraverso il dialogo con un alter ego che svolge la funzione di coscienza morale, per lo più inascoltata, e i flash back, in cui rappresenta i sogni del protagonista.
Ugo Tognazzi rende il suo personaggio irresistibile: l’ingegnere rampante e sicuro di sé, passa dalla prosopopea esibita nell’incipit durante la rappresentazione del Giulio Cesare al teatro romano di Ostia Antica (“la donna deve essere messa in orizzontale”), alla totale umiliazione in riva al lungomare di Sabaudia. C’è molto cinismo in questi giovani che ordiscono una serie di scherzi impietosi ai danni dell’ignaro ingegnere tutto preso dai suoi goffi tentativi di corteggiamento. L’atmosfera goliardica e festaiola lentamente s’incupisce, le luci dell’estate fanno posto alle ombre dell’autunno; un cielo grigio e le canzoni di Gino Paoli 
accompagnano l’amara malinconia che permea la narrazione filmica. Dietro la maschera comica, il protagonista fa trasparire bagliori di un vissuto caratterizzato dal rimorso e dal senso di colpa (l’assassinio di un soldato inglese nella campagna d’Africa, la separazione dalla moglie, il figlio depositato in collegio), che si riflettono nell’ insicurezza sul proprio corpo di fronte alla prestanza fisica dei giovanotti che lo circondano, su tutti il rivale in amore Piero (Gianni Garko).D’altro canto, anche Catherine Spaak, che si muove come una Lolita kubrickiana, comunica un senso di vuoto e di spaesamento collegato dalla rottura dei rapporti con le figure autorevoli e significative affettivamente (i genitori, lo spasimante ricco). Sembra di cogliere in alcuni tratti dei due protagonisti elementi autobiografici del regista, un padre immaturo e una madre giovane che abbandona…

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Per raccontare il mondo interiore di un uomo all’alba dei suoi quarant’anni, a cavallo tra l’essere un eterno Peter Pan ma anche quello che oggi sarebbe definito come boomer, Luciano Salce approccia in modo tanto naturale quanto riflessivo il tema della pedofilia. Si, perché alla fine è di questo che tratta La voglia matta. Il crescente e indomabile impulso erotico di un uomo di trentanove anni nei confronti di una quindicenne che, sia nei modi di fare che in quelli di ragionare, è poco più di una bambina. E Antonio, il protagonista della vicenda, non solo si ritrova inaspettatamente attratto da quella “bambina”, nel corso del film fa anche sua l’idea di poterla sposare per farla diventare sua moglie (a tal proposito, irresistibile la proiezione di Antonio quando immagina come potrebbe essere la sua vita se sposato con Francesca)…

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Bel lavoro di Salce. Il protagonista della sua storia potrebbe essere chiunque di noi, maturo uomo di successo nella vita professionale, ma un poveretto in quella umana e sentimentale,perde la testa per una ragazzina che finge di cedergli, ma in realtà non se lo fila proprio, anzi sfrutta il suo potere seduttivo per canzonarlo e metterlo alla berlina in diverse situazioni e quindi farlo diventare lo zimbello del gruppo di amici vacanzieri, in cui lui per caso s'imbatte. Geniale la trovata di far sentire con voce fuori campo i pensieri di un Tognazzi brillantissimo, che vanno al rovescio rispetto alle sue azioni.Ne viene fuori il ritratto di un individuo meschino, egoista, narcisista e patetico e quanti lo diventerebbero di fronte alle lusinghe di una graziosa civettuola diciasettenne. I dialoghi sono intelligenti e rivelano anche lo spirito degli adolescenti dell'epoca, dal carattere apatico, volubile e antipaticamente goliardico, passivi si lasciano vivere senza grandi slanci. Da vedere per chi non l'ha fatto.

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Salce, al massimo dell'ispirazione, realizza una bellissima commedia di costume assolutamente intelligente e spiritosa, che riesce abilmente a mescolare cattiveria e cinismo con sentimento e delicatezza. Salce mette alla berlina la borghesia, le nuove generazioni del boom economico nate sotto l'insegna del consumismo sfrenato e il rapporto tra due diverse generazioni. Tognazzi, che ormai si sta lasciando alle spalle i perlopiù mediocri ruoli comici degli esordi, ci regala qui un'interpretazione intensa e profonda. La Spaak, nel ruolo di un'adolescente immatura e superficiale, non gli è da meno.

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Grandissima pellicola di Salce, anche se definirla commedia è forse un po' riduttivo, o comunque non riesce a delineare bene lo spirito del film, velato di una forte amarezza che il regista sa dosare e alternare a scene invece comiche nel senso più puro del termine.
Tognazzi ci dona un'interpretazione incredibile nella sua apparente semplicità. Antonio Berlinghieri, uomo di mezz'età perde la testa per una sedicenne (una Catharine Spaak quanto mai meravigliosa e maliziosa); i tentativi di conquista da parte dell'ingegnere sono un buco nell'acqua, a testimonianza di come le ultime illusioni di gioventù svaniscano, e alla fine resti solo tanta amarezza e tanta nostalgia dei tempi passati..
I momenti comici di sicuro non mancano, d'altra parte con Tognazzi come protagonista le risate di certo non possono mancare, però a mio avviso questa profonda amarezza e senso nostalgia di fondo rende il film molto più profondo e intelligente, ma lascia lo spettatore con un profondo senso di tristezza, facendo malinconicamente riflettere su come la gioventù debba terminare per ognuno di noi.

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Luciano Salce, oltre che attore brillante e simpatico era anche un geniale regista.  Questo  filmetto, che sembra poca cosa, è invece una intelligente, ironica  e feroce sferzata alla "middle class" degli anni sessanta, mediocre, presuntuosa e arrogante. Ingegnere maturo, s'invaghisce per una ragazzina incontrata casualmente, da lui soccorsa perchè rimasta senza benzina in una località balneare. Per una intera giornata e una notte, vivrà una vera e propria odissea, lei lo stuzzica, poi l'allontana , poi lo illude  , in un' altalena capricciosa di atteggiamenti e comportamenti ,imprevedibili e contradditori.Non si concede mai, ma nemmeno lo rifiuta completamente e in balia di questa  insana passione, meschino e pavido,  viene messo continuamente in  ridicolo dalla maliziosa, Catherine Spaak,e dai suoi amici, giovani annoiati e cinici, che  lo fanno diventare  lo zimbello del gruppo. Lezione di vita immensa, il tempo scorre e sentirsi giovani non significa esserlo per davvero. Il richiamo dei sensi molte volte è forte, ma bisogna saperlo gestire. Certo nessuno si può erigere a maestro e quello che succede al nostro protagonista, può capitare a ciascuno di noi, tuttavia è necessario conservare un briciolo di dignità  se  si  ha un pò di amor proprio e si  vuole il rispetto degli altri.

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   La voglia matta di Salce è quella di raccontare un’epoca, una generazione, attraverso una commedia agrodolce, in cui i protagonisti sono perfetti, la musica che accompagna lo spettatore pizzica le note giuste e, mentre riecheggia “Sassi che il mare ha consumato/sono le parole d’amore per te/ogni parola che diciamo è stata detta mille volte/ogni attimo che viviamo è stato vissuto mille volte”, noi, un po’ spaesati come Antonio, completamente in balia di lei ma un po’ ammaliatori, alla fine del film non possiamo far altro che dire: “che rabbia, l’estate è finita”.

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Il vero capolavoro di Salce, un film che riesce a raccontare la crisi dei quarantenni con una leggerezza e un tono ironico davvero invidiabili eppure alla fine questo film divertente e spesso irresistibile (memorabile la "gara di fisicità" dei ragazzi dove partecipa un Antonio indomito e ovviamente patetico) mette l'amaro in bocca: la consapevolezza del tempo che passa, il "gusto" di riappropriarsi di un codice giovanile che per il protagonista (un immenso Ugo Tognazzi) è fuori tempo massimo, il disagio davanti alla spensieratezza e all'audacia di quei giovani belli e felici, diventa uno dei ritratti maschili più impetuosi del cinema italiano.
Bravi tutti i comprimari, a cui Salce "impone" la goliardia del classico teen-movie: la "distanza" tra loro e Antonio è inarrivabile proprio per questo.
Semplicemente stupenda la diciassettenne Catherine Spaak: bella da togliere il respiro a chiunque.

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In un weekend di fine estate, un industriale milanese di mezza età cerca inutilmente di mescolarsi a un gruppo di ragazzotti viziati per abbordare una sedicenne e si infila in un perverso meccanismo di coazione a ripetere. Quasi un rovesciamento del coevo Il sorpasso: un on the road dove sono i giovani a essere strafottenti e irresponsabili, mentre l’adulto è un matusa (così si diceva allora) pateticamente illuso di essere ancora come loro; e anche i soliloqui di Tognazzi, come quelli di Trintignant, rivelano la distanza fra i suoi pensieri e le sue azioni. La sequenza iniziale e una serie di fulminei flashback e flashforward illustrano la vita di lui: una mantenuta a Roma, un figlioletto depositato in collegio dalle suore, un branco di leccapiedi che ridono alle sue barzellette stupide. Viceversa i ragazzotti sono appiattiti su un presente che credono eterno: passano i giorni a non fare nulla, imbastiscono flirt per vincere la noia, tirano gli schiaffi ogni volta che aprono bocca. Due mondi che si ignorano, pur condividendo momentaneamente gli stessi spazi: alla fine nessuno è maturato, nessuno ha imparato nulla, ognuno va per la sua strada. Un film divertente e al tempo stesso amaro, come sapeva essere la commedia italiana dei suoi anni d’oro.

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"La voglia matta" diretto nel
1962 da Luciano Salce,devo dire che l'ho
trovato strepitoso.

La storia tratta che l'ingegnere milanese
Antonio Berlinghieri fa un viaggio per andare
a trovare il figlio in collegio per il fine settimana.

Però lungo il percorso incontra un gruppo
di ragazzi diretti al mare,che inizialmente
lo bersagliano con i loro scherzi per poi
fare amicizia e passare insieme la domenica.

Antonio accetta ma finisce per invaghirsi della
sedicenne Francesca.

Siamo in pieno filone "Commedia all'Italiana"
dove Luciano Salce era un maestro e
Ugo Tognazzi un eccellente protagonista,
che con una sceneggiatura ben costruita
scritta dallo stesso regista e da
Castellano e Pipolo in forma smagliante,
e prendono la storia da una novella
di Enrico La Stella chiamata:
"Una ragazza di nome Francesca".

La Francesca è la sensualissima
e intrigante Catherine Spaak,
che provoca l'ingegnere fino
a che lo fa capitolare,
ma sempre in un modo sbarazzino
e poco serio con continui scherzi.

Salce con questa Commedia vuole descrivere
la gioventù spensierata degli anni '60
e lo fa in un modo godibile e nello stesso
cattivo,ma che fa vedere le tracce sincere
dell'aria dell'Italia di quel tempo.

Ma contempo racconta la crisi di mezza età
di una persona che la gioventù la smarrita
e cerca di riacquistarla grazie a questa
sedicenne tutta pepe,che all'inizio
fa venire i problemi di coscienza
all'ingegnere,anche per la differenza
d'eta,per poi buttarsi.

E lo fa con continui flashback che ci fanno
vedere cosa gli è successo in passato,
con siparietti efficaci davvero divertenti.

Nel Cast figurano Gianni Garko,
un giovane Jimmy Fontana,
Star dell'epoca,ed in una particina
il mitico "portafortuna" Jimmi il fenomeno
e un cameo dello stesso regista.

In conclusione un grande Film
che in Italia non se fanno più,
con una creatività gigantesca,
nonostante il risicato Budget,
e la parte del leone l'ha
fa uno straordinario Ugo Tognazzi,
e che finisce in un modo malinconico,
dove l'estate chiude e gli affetti
se ne vanno con tutto il resto.

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