lunedì 1 dicembre 2025

Lo schiaffo - Frédéric Hambalek

per un caso fortuito Marielle, 11 anni, da un certo momento in poi, riesce a sentire tutto quello che dicono i genitori, e capisce quanto i genitori siano dei bugiardi patologici, quello che succede davvero è ben altra cosa rispetto a quanto i genitori raccontano a tavola.

i bambini guardano (e ascoltano) i genitori e i genitori non possono più dire bugie impunemente, neanche fra loro.

il film segue la linea di una commedia con tocchi di umorismo nero, niente di straordinario, ma si vede bene.

buona (bugiarda) visione - Ismaele


 

Dietro l'apparenza di una vita perfetta, Julia e Tobias nascondono tensioni e segreti che la loro figlia Marielle è destinata a scoprire. Quando, dopo aver ricevuto uno schiaffo, la bambina sviluppa misteriosi poteri telepatici, nessuna menzogna può più essere taciuta: ogni pensiero, ogni gesto, ogni bugia viene smascherata.
Mentre la verità invade la loro quotidianità, la coppia si ritrova in un gioco di manipolazioni e recriminazioni sempre più assurdo e ironico, che mette a nudo la fragilità dei rapporti familiari e il bisogno, spesso contraddittorio, di sincerità e finzione…

da qui

 

Alla fine, tutto si congela; tutto è un respiro cinematografico. Quel colpo permane, fragile e potente, come una fiaba che oscilla tra tenebra e luce, un gesto minuscolo che alza l’attenzione sui tratti narrativi più nascosti. In esso risuona l’eco profonda della poesia di Rainer Maria Rilke, dove il silenzio diventa voce più eloquente di un’intonazione qualsiasi. È un cinema che trasforma il quotidiano in lirica, il silenzio in melodia, il gesto in enigma. Un racconto che avvolge senza spiegare, che sussurra anziché gridare, capace di rendere universale il frammento più piccolo, e di mutare la vita in un incanto visivo e sensoriale.

No. Lo Schiaffo diretto da Hambalek è – al presente – una violenza subita, agitazione animalesca, infida e disumana nelle allitterazioni sensibili di una fanciulla. Sono due occhi neri talmente profondi da non accorgersi di quanto ci abbia fatto male la reazione improvvisa e veloce. Il colpo è stato un colpo eppure è sembrato un soffio, un fastidio, un fascio di luce, una mano trasparente che ci ha segnato, ammazzato, che ha stonato, che ha diretto curiosità in verticali e fin troppo laboriose per ciò che dovrebbe essere: amore.

da qui

 

In un’opera che affida alle piccole verità del quotidiano la propria sostanza, è il lavoro degli attori a determinarne la riuscita, e Lo schiaffo la conquista grazie a un cast che sceglie la via della sottrazione. L’ensemble opta per un registro estremamente naturalistico, in perfetta sintonia con la scrittura secca e arguta di Hambalek: insieme, riescono a creare un ambiente domestico credibile fino al disagio, per quanto attraversato da un’idea soprannaturale. Julia Jentsch e Felix Kramer, nei panni di due genitori doppiogiochisti, maldestri e dolorosamente umani, sono il cuore pulsante del film: attraverso i loro personaggi Hambalek esplora con precisione millimetrica la colpa, la costruzione di un’immagine di sé e l’autodisprezzo che si annida tra le pieghe della rispettabilità. Sono figure sgradevoli eppure, per certi versi, prossime: si ride di loro, ma non senza avvertire il disagio di una vicinanza, come se ogni loro goffo tentativo di salvare la faccia ci rimandasse uno specchio più opaco ma non meno fedele. La sceneggiatura è serrata, rapida, costantemente attraversata da un umorismo asciutto che convive con intuizioni più amare su come le nostre vite siano plasmate dalla performance e dalla disonestà in quasi ogni gesto. Le gag, spesso fulminanti, contengono dichiarazioni ingannevolmente limpide su quanto delle nostre azioni sia mosso da impulsi egoistici e, soprattutto, su come il nostro comportamento muti nel momento in cui sappiamo di essere osservati: non è solo la bambina a scrutare i genitori, siamo noi, di riflesso, a interrogarci su quanto ci esibiamo davanti a chi amiamo. In questo senso il film firma una brillante decostruzione della fragilità dei muri domestici: il matrimonio e la genitorialità vengono mostrati come dispositivi porosi, attraversati da segreti, omissioni, piccoli e grandi tradimenti. Lo schiaffo suggerisce che la disonestà più grande, all’interno di una famiglia, non risieda tanto in ciò che si nasconde, quanto nei ruoli che ci ostiniamo a interpretare, nelle maschere che non abbiamo il coraggio di togliere nemmeno davanti a chi dovrebbe conoscerci davvero. Il ritmo del film è nervoso, quasi irrequieto, e accompagna la crescente assurdità della situazione familiare, come se la messa in scena non riuscisse più a reggere il peso di tutte le bugie. Il montaggio di Anne Fabini calibra con precisione i tempi comici: sa quando tagliare una scena per ottenere il massimo impatto, quando lasciare respirare una battuta, quando interrompere all’improvviso un momento d’intimità per trasformarlo in qualcosa di profondamente imbarazzante…

da qui

 

Lo schiaffo è girato quasi esclusivamente all’interno di case ed uffici, modelli precisi da colpire per rivelare quanto negli ambienti confortevoli, negli spazi rassicuranti ci siano luoghi ideali per creare un contrasto. Ma sono le persone che li abitano, i loro volti, le loro parole e i loro comportamenti, è insomma il cosiddetto lato attoriale a suscitare ilarità, la espressioni facciali, le smorfie, i tempi comici dei dialoghi, che un buon cast rende efficaci. Venuti i nodi al pettine nel finale il tono acquista maggiore profondità drammatica, ma è sola una chiusa necessaria a sottolineare il cambiamento, a prendere in seria considerazione i problemi, a svegliarsi da quel torpore illusorio in cui vivevano confinati. Dei personaggi viene rivelato il minimo per fornire degli agganci al progredire della storia, che ha un andamento lineare senza sbalzi temporali. Hambalek fotografa il presente, poi lo scombina. La buona riuscita degli sketch è frutto della straordinaria idea iniziale, in quel inserire qualcosa che sfugge al controllo, nel fare ricorso al magico. Un film leggero, di stile poco autoriale, considerata la totale rinuncia ad una prospettiva, ad un’estetica personale. Un film di intrattenimento che non ha sottotesti, ne diversi piani di lettura, perché si dimentica di scavare nelle solitudini, nei desideri inconfessabili. Forse troppo frettoloso a svuotare i caratteri per renderli idonei al meccanismo, ne ignora la psicologia, lasciando allo spettatore una narrazione tutta fatta per il ritmo, una costruzione più televisiva che festivaliera, per quanto poco valgano di questi tempi certe differenze.

Ci manca di capire da dove proviene davvero l’inquietudine di Marielle, ed un sospetto cade inevitabilmente sulla mancanza dei genitori durante il suo processo di crescita, sostituiti dalla nonna materna a tamponare quelle assenze che possono diventare traumatiche. E neanche le fantasie sessuali represse di Julia, risultato di poca attenzione e trascuratezza, o l’insicurezza di Tobias sul lavoro, sono chiari e sono toccati soltanto di passaggio. Uno sguardo più approfondito e meno superficiale nel buio avrebbe reso il film degno di un attenzione che non può andare oltre un semplice svago.

da qui

 

Hambalek, però, non è Lanthimos, nemmeno Haneke o Seidl: se l’incipit del film, verbalmente esplicito nell’immaginazione di spericolate fantasie sessuali, lasciava presagire un’esplorazione incendiaria delle dinamiche relazionali ed esistenziali, il proseguo delle vicende non trova invece corrispondenze altrettanto marcate, traghettando il film su sponde assai meno brucianti: l’incerto, precario barcollare su cui poggia inizialmente l’opera si distende, via via, in una camminata più convenzionale e ‘anestetizzata’, le misteriose implausibilità che la tengono a galla nella prima parte sfociano, talvolta, in un’ironia goffa e tardiva. Il ‘bisogno’ di raccontare arriva a prevaricare sull’introspezione e lo scandaglio. Conseguentemente, la rimessa a fuoco della propria privacy arriva a placare le fiamme di un microcosmo umano pericolosamente autoriferito. In questo senso, Lo schiaffo, alla resa dei conti, appare più un’occasione mancata che un lungometraggio riuscito. Anche se l’ultima sequenza, prima dei titoli di coda, riaccende la scintilla di una stuzzicante ambiguità interpretativa.

da qui

 

Nessun commento:

Posta un commento