domenica 30 novembre 2025

40 secondi – Vincenzo Alfieri

il film segue, nelle ultime 24 ore, la vita di alcune persone coinvolte, in qualche modo, nella vicenda criminale, e per questo riusciamo a sapere e capire tante cose.

Willy è un bravo ragazzo, che non riesce a non intervenire in quella che sembra una rissa da discoteca come tante.

ma le cose si complicano, in 40 secondi il dramma esplode, e poi non restano che le lacrime e il dolore.

un film che andrebbe visto in tutte le scuole, ma chissà se succederà.

bravo il regista, gli sceneggiatori e tutti gli attori e le attrici.

un film da non perdere, senza dubbio.

buona (drammatica) visione - Ismaele


ps: da vedere anche:

Preghiera per Willy Monteiro, di Aurelio Picca:  QUI, (su Raiplay)

Un giorno in pretura - Willy, vittima del branco: QUI

(su Raiplay)




 

Non solo Willy si era fatto avanti per aiutare un amico, ma era fermo, immobile, senza alcun segno di attacco o prepotenza quando, dal nulla, i gemelli Gabriele e Marco Bianchi lo hanno attaccato. Nel film chiamati Lorenzo e Federico. In 40 secondi viene raccontato il giorno precedente, si parte da 24 ore prima. Se invece l’adottare la tecnica di narrare una storia da più punti di vista sia qualcosa di già visto, Vincenzo Alfieri va oltre, perché adotta sei diverse prospettive. Si vedono i gemelli, i due ragazzi che furono anche loro condannati per aver in qualche modo aizzato al pestaggio, Michelle, un’amica di Willy, motivo di gelosia tra i due gruppi coinvolti nella rissa, il poliziotto che trovò Willy senza vita e Willy stesso. Ognuna sta trascorrendo una giornata come tante, ognuno non sa che la loro vita cambierà per sempre di lì a poche ore. La tensione, nonostante si sappi cosa succede, fa fremere e palpitare, come se non si sia a conoscenza di quanto stia per accadere…

da qui

 

40 secondi è un film che andrebbe proiettato nelle scuole. Perché parla di coraggio, amicizia, rispetto, scelte sbagliate e conseguenze irreversibili. Racconta come la violenza possa esplodere in pochi istanti e cambiare per sempre la vita di un’intera comunità. Fa riflettere sulla responsabilità individuale e collettiva. A seguito del caso Willy, il governo Conte introdusse il cosiddetto Daspo Willy: una misura che consente di vietare l’accesso a locali pubblici e aree di ritrovo a persone considerate socialmente pericolose, con l’obiettivo di prevenire aggressioni e violenze nei luoghi della movida.

40 Secondi è un film doloroso e importante. Un film, e una storia, che purtroppo non dimenticheremo mai. È necessario tramandarlo per far sì che incidenti del genere non capitino mai più.

da qui

 

Nel processo ai fratelli Bianchi, responsabili di un pestaggio violentissimo che ha visto morire il giovane Willy Monteiro, uno dei fratelli dice, e viene citato alla fine del film con il video:

“se la violenza che dite voi fosse vera, essendo noi così esperti in materia, si vedrebbero i segni sul viso e dappertutto, non crede?” Il P.M. risponde: (e il montaggio in questo è eccezionale)” Guardi che Willy è morto!”.

In questa risposta mi sembra di rintracciare altro che non so scrivere ma ci provo: andando oltre al processo, alla difesa chiara di chi non capisce cosa ha fatto o che vuole salvarsi da una condanna che arriverà, saggiamente, con l’ergastolo per la gravità della violenza. Mi sembra di poter dire che in un mondo connesso, la comprensione dei fatti, dei gesti, dei nostri gesti, della forza, delle parole, sia fuori gioco non ci sia più; e allora un film come “40 Secondi” è così prezioso nel ricostruire un fatto brutale, e nel farlo traccia una serie di tasselli…

da qui

 

Ciò che rende la pellicola così efficace è la sua struttura: quattro punti di vista differenti - Willy (interpretato da Justin De Vivo), Michelle (Beatrice Puccilli), i fratelli Lorenzo e Federico Bianchi (Luca Petrini e Giordano Giansanti), Maurizio (Francesco Gheghi) - convergono nel tragico epilogo finale. La macchina da presa sta letteralmente addosso ai suoi attori, di cui si ricordano dettagli come una linea di matita nera sugli occhi, il viola di un livido, un bacio tatuato o le gocce di sudore sulla fronte. Alfieri, che attore lo è stato, lascia che si muovano liberi nello spazio ma senza mai uscire dai rispettivi personaggi, costringendoli a respirarne gli umori e a restituirli sullo schermo. Ciascuno di loro appare nel suo habitat naturale, privo di filtri e sopraffatto dall'afa di una torrida giornata settembrina…

da qui

 

…40 secondi è film bellissimo che non scade nella morbosità voyeuristica che purtroppo un dramma simile poteva portare e che Vincenzo Alfieri ha trasformato nel suo C’era una volta a Colleferro omaggiando il povero Willy Monteiro Duarte nello stesso modo con cui Quentin Tarantino omaggio Sharon Tate.

E se non è un colpo da maestro registico questo…

da qui


 

sabato 29 novembre 2025

Orfeo - Virgilio Villoresi

ispirato a Poema a fumetti (di Dino Buzzati), Virgilio Villoresi gira un'opera originale e coraggiosa, un film di cinema con personaggi umani e insieme cinema d'animazione.

la storia è quella di un amore complicato, Orfeo s'innamora completamente di Berenice, ma la morte la reclama.

Orfeo, disperato, la cerca dappertutto, anche all'inferno, a suo rischio e pericolo, ma non importa, non accetta un'ingiustizia così grande.

nella sua discesa agli inferi, così terrestri e così umani, pieni d'inganni e di falsità, affronta ogni trappola, ogni trucco, lui cerca l'amore della sua vita.

una giostra di colori e di effetti speciali, tutti disegnati, accolgono e accompagnano lo spettatore di un film unico.

lo si può vedere solo in meno di venti sale, ma cercatelo, nessuno se ne pentirà.

buona (amorosa e infernale) visione - Ismaele



 

Orfeo è un esordio che colpisce per coraggio e identità. Nel suo intrecciare mito, artigianato, avanguardia visiva e un immaginario dichiaratamente personale, Virgilio Villoresi firma un’opera prima che non assomiglia a nulla nel panorama italiano contemporaneo. Un film che chiede di essere guardato con abbandono, più che interpretato, e che nella sua visione stratificata e sensoriale lascia intravedere la nascita di un autore vero: uno sguardo capace di rischiare, di costruire mondi e di credere nella potenza delle immagini.

da qui

 

Orfeo è un pezzo di cinema di altissima qualità, ha il ritmo di un sogno ed è girato con tecniche artigianali e sperimentali insieme; soprattutto, ha il pregio di parlare di qualcosa che la cultura contemporanea non osa più affrontare, la morte, e lo fa parlandone come la fine di tutto, ma come di qualcosa che c’entra con la vita e con il significato delle nostre attese, paure, gioie. È nell’al di là di Poema a fumetti che i morti «con occhi vuoti» guardano «le nubi, il mare, le selve senza più misteri». Che cos’è la vita? Perché si muore? Né Poema a fumetti né Orfeo si azzardano a rispondere. Ma all’uomo che accanto alla porta del giardino misterioso dice che dall’altra parte non c’è nulla, e tutto era fantasia, Buzzati e Villoresi rispondono con una promessa sussurrata: «Un giorno ci rivedremo»

da qui

 

Giochi di specchi e di illusione che producono "immagini intrappolate nel tempo" e personaggi ossessionati dall'atto del vedere: è forse per questo che negli inferi-in-interni di Villoresi la fanno da padrone le finestre pittoriche, le aperture da e verso il paesaggio, la chiamata in causa della città, lei così ignara delle profondità oniriche che si celano dietro le sue porte all'apparenza più innocue.
In quella milanesità tanto cara a Buzzati (un po' smussata e resa meno novecentesca da Villoresi) c'è una villa dove avvengono metamorfosi, proprio come nelle tavole originali qui ricalcate in inquadratura all'inizio del film. A livello di adattamento siamo davanti a una sottile opera di riconfigurazione, che sa essere insieme fedele e radicalmente diversa. Un po' meno Dalì, un po' più di quella follia cinematografica che ricorda a volte un altro genio folle come Bertrand Mandico…

da qui

 

…Con il film OrfeoVirgilio Villoresi adatta Poema a fumetti di Dino Buzzati trasformandolo in un viaggio sensoriale e simbolico, che mescola cinema, animazione artigianale e illusioni ottiche. “Orfeo nasce da un immaginario che sentivo vicino,” spiega il regista a proposito del film. “Ho scelto un ritmo che seguisse la logica instabile del sogno, girando in 16mm, costruendo scenografie a mano e usando tecniche legate a effetti ottici concreti. Le animazioni sono in stop motion, mentre una sequenza di danza fonde found footage di repertorio con nuove coreografie, in un omaggio intimo a mia madre, ballerina”.

Il risultato è un’opera che attraversa mito, amore e perdita attraverso un linguaggio che unisce sperimentazione e memoria personale.

da qui


 

mercoledì 26 novembre 2025

Il maestro - Andrea Di Stefano

il tennis è lo sfondo del film di Andrea Di Stefano.

grazie a Pierfrancesco Favino (Raul) e Tiziano Menichelli (Felice), in uno scambio continuo di sguardi, gesti, battute, contatti fisici (è quello scambio continuo la loro partita a tennis) vediamo un film che fa ridere, ma è anche triste.

Raul diventa per caso l'allenatore/accompagnatore di Felice, un ragazzino che il padre vede come un campione e si affida a Raul per il gran salto verso il successo sportivo.

ma la realtà non è quella che i due vorrebbero e la convivenza fra i due è quella di due perdenti che imparano a volersi bene, complici e quasi amici, a crescere.

Raul ha una storia complicata, con la quale suo malgrado fa i conti, è un uomo che è stato sempre inadeguato, nel tennis come nell'amore.

non è un capolavoro, ma una bellissima storia di perdenti, solo la loro umanità potrà, forse, salvarli.

buona (tennistica?) visione - Ismaele

 

 

Il Maestro è un film che emoziona senza artifici, capace di alternare leggerezza e dolore con grande naturalezza. Favino offre una delle sue interpretazioni più vulnerabili, restituendo a Raul la disperazione e la vitalità di un uomo a metà, mentre Tiziano Menichelli convince con una recitazione spontanea e incisiva. Alcuni personaggi secondari risultano macchiettistici, caricature forse volute ad amplificare il contrasto tra i due protagonisti. L’equilibrio evocato dal tennis – tra attacco e difesa, tra controllo e abbandono – diventa immagine della vita stessa, del bisogno costante di bilanciare desideri e limiti. È un’opera agrodolce, che fa ridere e piangere, che permette di empatizzare con due destini apparentemente lontani ma uniti dalla stessa ricerca di libertà. Un film di formazione, ma anche un film sul fallimento, sulla possibilità di rinascere e di trovare, almeno per un’estate, un maestro dall’altra parte della rete.

da qui

 

E’ una storia in cui non può non riconoscersi chiunque abbia praticato in giovane età uno sport agonistico: le aspettative di madri e padri, le figure tragicomiche di questi allenatori con un grande avvenire dietro le spalle, che le occasioni mancate della vita e della carriera sportiva se le portano negli occhi. Intorno a questa struttura di viaggio, con la vecchia gloria Raul Gatti che accompagna, appunto, la giovane promessa 13enne Felice per i tornei validi per il ranking nazionale di tennis lungo l’Italia in una estate degli anni ’80, tra Cucuruccuccu Paloma e Drupi alla radio, Di Stefano e Ludovica Rampoldi costruiscono un chiaro omaggio ad un certo cinema italiano agrodolce, tra Dino Risi e Luigi Comencini a, per dire, Sergio Corbucci, senza avere vergogna di spingersi in alcuni momenti puramente grotteschi, e in parentesi visionarie come il Cristo che batte un servizio dalla croce, o la folle fuga sulle note di Cochi & Renato.
“Stiamo giocando un doppio, io e te”, si dicono ad un certo punto l’allievo e il maestro, ed è esattamente così, se da un lato in campo il film segue il percorso di emancipazione di Felice dall’ossessione del padre nei confronti del suo futuro da campione, dall’altro il viaggio tra i tornei sarà per Raul un modo per fare i conti con il proprio passato disastrato.

da qui

 

Con la sua quarta regia, Andrea Di Stefano firma anche la sua opera migliore, perfettamente in equilibrio tra commedia e melodramma. Il maestro è un doppio racconto di formazione che dà voce a ogni possibile sfumatura della paternità, nucleo del film. Ambientato all'inizio degli anni Ottanta, il film manifesta un'ispirazione non comune (il sacchetto di gettoni telefonici, il Cristo che scende dalla croce, le zingarate per necessità della coppia protagonista), e un gusto preciso per i caratteri secondari, dando vita a una serie di duetti che, quando i due lasciano la racchetta, afferrano la sciabola, salvo poi ritrovarsi uniti in un abbraccio che ha tutto il sapore di un affetto perduto e finalmente ritrovato. Il maestro guarda alla commedia all'italiana e al romanzo picaresco: trasforma il road movie tennistico in un tenero elogio della sconfitta, dove solo chi perde a ripetizione impara a diventare adulto.

da qui


 

martedì 25 novembre 2025

La critica cinematografica è completamente cambiata con i social, ma non necessariamente in peggio - Francesco Gerardi

Il cinema italiano sta cambiando e sta cambiando il modo in cui viene raccontato. Ovviamente sui social, da figure che non sono proprio dei critici, ma che hanno una sempre maggiore rilevanza.

(Questo articolo è tratto dal numero di Rivista Studio uscito oggi e dedicato al Nuovo cinema italiano. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online)


Lo stato di salute di un’industria cinematografica si misura dallo stato di salute della critica. È un adagio che si è dimostrato vero tutte le volte, in tutti i Paesi, in tutte le epoche. Ai cinici piace ricondurre la cosa a una questione economica, semplice semplice: se un’industria cinematografica è ricca, alla fine questa ricchezza arriva anche ai critici scivolando giù lungo il pendio immaginario della trickle down economics. Se si fanno tanti film è tanto più probabile che tra questi ce ne siano di belli, quindi è tanto più probabile che ci siano persone che andranno a vederli, e tra queste è tanto più probabile ci saranno persone che vorranno parlarne, scriverne, viverne. Il corollario qui è che se un’industria cinematografica è povera, il tasso di povertà maggiore si misurerà tra i critici: se i film sono pochi o non ci sono, di che parliamo? È un adagio che si è dimostrato vero tutte le volte ma che ha smesso di esserlo quando è iniziata internet, come tutte le cose che sono state vere un tempo, d’altronde. La questione ormai si è fatta troppo complicata per essere esaurita pure in un longform, ma la sostanza è: cosa succede a un mercato nel momento in cui a un’offerta sempre maggiore corrisponde una domanda sempre più striminzita? Che quello smette di essere un mercato e diventa un parco giochi, che quello che prima era un lavoro adesso è un hobby, e tornerà a essere un lavoro solo per quelli abbastanza bravi, abbastanza scafati da farne un’attività scalable, monetizzabile. E infatti qual è una delle frasi più rappresentative dell’età di internet? Everyone’s a critic. La frase è una generalizzazione e per questo funziona: se la usassimo per descrivere lo stato delle cose della critica cinematografica italiana, non andremmo troppo lontani dalla realtà.

Ma poi, esistono ancora i critici? Possono esistere davvero, su internet? O bisogna accettare – sarebbe anche l’ora – che certi attrezzi sono ormai scassati ed è inutile continuare a rimetterli nella cassetta? Yotobi, nome d’arte di Karim Musa, è uno dei padri fondatori di YouTube Italia ed è stato anche uno dei primi youtuber italiani a parlare stabilmente di cinema. Ma è un critico, Yotobi? O un divulgatore? O un creator? I film li spiega o li commenta o li usa soltanto come pretesto per produrre un altro contenuto per saziare l’appetito eterno dell’algoritmo? Nonostante tutti gli anni passati dalla recensione che lo fece scoprire a moltissimi (un mirabile video-sclero dedicato ad Amore 14 di Federico Moccia), le domande che ci si poneva all’epoca su Yotobi sono le domande che ci si pone oggi su tutti quelli che sono venuti dopo di lui, grazie a lui, in collaborazione o in opposizione a lui. VictorLaszlo88 (Mattia Ferrari), Matioski (Mattia Pozzoli), BarbieXanax (Marta Suvi), ViolettaRocks (Violetta Rovetto) e tutto il resto della lista, sono davvero dei critici o sono una figura nuova, dei meticci come sono meticci tutti gli animali di internet, un po’ commento, un po’ spiegazione, un po’ contenuto, un po’ pubblicità subliminale? Dare una risposta a questa domanda è quasi impossibile e quasi certamente irrilevante. Fosse anche solo per una questione di reach, come si dice nel loro campo: che siano critici veri e propri o no conta poco, nel momento in cui il discorso sul cinema italiano (e non) oggi avviene sui loro canali, si fa con la loro lingua, segue la loro programmazione.

La passione per la critica cinematografica è essa stessa cinefilia, quindi non ci si può dire cinefili oggi senza aver visto almeno un reel, letto almeno un post di ArteSettima, imprescindibile pagina Instagram. Chiaramente può spiacere, ci mancherebbe: è giusto rimpiangere Cinema nuovo di Guido Aristarco, sognare che oggi tra Instagram e TikTok i creator possano coltivare in laboratorio una rivalità tra Tecla Insolia e Benedetta Porcaroli come quella architettata tra Sophia Loren e Gina Lollobrigida nell’indisciplinatissima redazione di Titanus. Ma qui stiamo parlando dei nostri nonni, e chi di noi vorrebbe davvero assomigliare ai suoi nonni? I reel, buffi, seri, impacciati, semiprofessionali che i tre di ArteSettima hanno prodotto durante l’ultima Mostra del cinema di Venezia non hanno, non possono avere niente a che fare con i dispacci dal Lido che Goffredo Fofi inviava a Torino, alla redazione di Ombre rosse, negli anni che furono. E perché dovrebbero, come potrebbero. Anche la critica cinematografica italiana di oggi somiglia più ai suoi genitori che ai suoi nonni, come tutti, si capisce. A costo di essere sacrileghi, ma quanto si somigliano i tre di ArteSettima che se ne vanno in giro per la Mostra a fare video surreali con addosso i camici dei tecnici di laboratori di CineCittà a Enrico Ghezzi che commenta i film in jeans, T-shirt bianca e audio fuori sincro? Anche in questo caso, come per tutte le cose di internet, non si può certo dire che le cose siano iniziate la prima volta che ci siamo ritrovati online.

Che la figura del critico in Italia stesse cambiando lo sapevamo da un pezzo, ed è ovvio che di Ghezzi possono esistere solo epitomi, solo repliche in scala ridottissima, ma tant’è: pure lui si era inventato un format, anche lui si era fatto creator, iniziasse oggi probabilmente invece di fare il concorso in Rai si aprirebbe un profilo TikTok. È l’economia dell’attenzione, in un mondo in cui a nessuno importa di niente (men che meno del cinema, a giudicare dal botteghino) devi inventarti qualcosa per emergere intatto dal magma del doomscrolling. Questi nuovi critici, chiamiamoli così, alla fine hanno aggiunto qualche nuova dispensa a una lezione già vecchia. Quella di Ghezzi, appunto. Ma pure quella di Marco Giusti, l’altra faccia della moneta: non c’è un canale YouTube, un pagina Instagram, un profilo TikTok oggi che non debba qualcosa a Stracult, a quel linguaggio, a quell’estetica, a quell’approccio. Ovviamente Giusti aveva il physique du rôle, la camicia con la fantasia sfigata abbastanza, la barba incolta di chi non può perdere tempo a radersi, non con tutti i film che ci sono da vedere. Chiaramente, è più facile (pure più giusto) stare a sentire Giusti che parla della Bestia in calore di Luigi Batzella che mr. Marra, con i suoi pettorali guizzanti e le trecce da appropriazione culturale, che spiega Orphan di László Nemes nell’ultima puntata dei Criticoni, popolarissimo vodcast crossover in cui confluiscono gli abbonati ai canali di Federico Frusciante, Francesco Alò, VictorLaszlo88 e appunto mr. Marra. E ci mancherebbe, non sarò io a dire che quello che per me sono stati Giusti e Stracult, per un ragazzino di oggi potrebbero essere mr. Marra e i criticoni. Il deperimento è innegabile, è evidente, ma quei padri hanno prodotto questi figli: internet, i social alla fine hanno semplicemente accelerato un processo che è cominciato quando Ghezzi ha iniziato ad aggeggiare con l’audio o quando Giusti ha alzato il telefono per chiamare G-Max a lavorare con lui. Internet, alla fine, è semplicemente lo spazio e il tempo in cui si sono materializzate tutte le estreme conseguenze che non avremmo mai pensato di affrontare.

E bisogna anche essere onesti, per quanto di amaro sappia questa onestà. Questi nuovi critici non saranno un movimento (ma anche qui, che parola è mai questa, in un’epoca come la nostra?), non avranno la formazione né l’erudizione (chi di noi ce l’ha, rispetto a quelli che nel ‘900 facevano questi mestieri), ma godono di una rilevanza commerciale, promozionale di cui raramente la critica cinematografica ha goduto nella sua storia. Certo, si potrebbe pure dire che basta questo fatto a risolvere la questione di cui sopra: se sei buono, o torni utile, a vendere un film, un critico non sei. Ma inutile che quelli che si sono inventati empie crasi come advertorial e che ogni volta si dimenticano di marchiare con #adv i contenuti sponsorizzati esigano purezza da altri che hanno l’unica colpa di giocare meglio, e vincere, allo stesso gioco a cui loro hanno accettato di giocare. La rilevanza commerciale e promozionale, si diceva: chiunque oggi segua il cinema sa che non c’è film il cui protagonista, regista, sceneggiatore, elettricista, stagista non passi da un podcast. Che adesso non sono manco più podcast ma vodcast, perché funziona così, gli intervalli tra un pivot to e l’altro ormai si fanno sempre più brevi. Cinque anni fa scoprivamo TikTok e i podcast, e sembrava che il video brevissimo e il contenuto audio fossero gli unici formati possibili per il commento e la critica per sopravvivere. Cinque anni dopo, tutti vanno ospiti in vodcast da un’ora e mezza a puntata, a spiegare i fatti del film e pure quelli loro, perché a quanto pare i ragazzini questo guardano, il vodcaster su YouTube come fosse Fabio Fazio su Rai3, e per farti guardare (in sala, soprattutto) questo tocca fare, che tu sia Timothée Chalamet travestito da Bob Dylan o Luca Marinelli che scimmiotta Benito Mussolini. E alla fine cos’è che conta di più, in un movimento cinematografico? Chi parla di un film che tutti hanno già visto o chi convince qualcuno a vedere un film che non sarebbe andato a vedere?

Marinelli è uno che potrebbe farmi da testimone, in questa filippica tutto sommato abbastanza favorevole ai nuovi critici. Qual è la differenza tra uno che è un critico e uno che non lo è? Una risposta potrebbe essere che il critico ti chiede com’è interpretare Mussolini, il non critico invece vuole sapere com’è metter su 20 chili per interpretare Mussolini. Entrambe le domande sono state poste a Marinelli durante la campagna promozionale di M, una in una puntata di ArteSettima e una in una puntata del Bsmnt di Gianluca Gazzoli. A ognuno la scelta, chi è un critico e chi no.

E dei format precedenti e abbandonati cosa resta? Una miriade di content creator, numerosi, invisibili e indistinguibili come i pollini nell’aria, che fanno liste brevi (vanno fortissimo documentari e horror, chissà se queste persone hanno mai avuto ildocumentario.it nel feed o Nocturno tra le mani) e podcast ormai desueti perché se non ti vedo anche non ti sento nemmeno. Quando ero ragazzino, tutti i cinefili che aspiravano a diventare critici ascoltavano un podcast che si chiamava Ricciotto. Prima di mettermi a scrivere questo pezzo, sono andato a controllare la pagina per vedere di cosa avessero parlato nell’ultimo episodio. Ho scoperto che l’ultimo episodio è dell’11 ottobre del 2022. Che fine avranno fatto? Non che importi, in realtà, basterà aspettare il prossimo pivot to per vederli tornare, di nuovo davanti a tutti, pionieri che in realtà hanno continuato a fare la stessa cosa abbastanza a lungo perché tutti si scordassero di loro e li scoprissero di nuovo. Perché su internet la critica cinematografica funziona così: non solo everyone’s a critic, ma once a critic, always a critic. Basta avere pazienza e aspettare il proprio turno, ogni volta.

da qui

lunedì 24 novembre 2025

Heaven Knows What - fratelli Safdie

una storia d'amore e tradimenti del mondo dei tossicodipendenti a New York, Harley (Arielle Holmes), con tutti i casini del mondo, è innamorata di Ilya (Caleb Landry Jones), ma la testa di Ilya è davvero poco affidabile.

il ritmo del film è nervoso, a momenti indiavolato, Harley non riesce a fare a meno di Ilya, riesce anche a convincerlo ad andare via da New York, ma...

un film che merita, i due fratelli registi sono bravi.

buona (drogata) visione - Ismaele 

 

QUI si può vedere il film con sottotitoli italiani


 

…C’è molta realtà dunque alla base di Heaven Knows What, e si vede. Trasuda da ogni immagine, che appare quasi rubata da un’esistenza urbana fatta di incontri e piccoli espedienti utili a sopravvivere e a rimediarsi una dose di eroina. La disperata storia d’amour fou non è però qui soltanto con la droga, essa si incarna anche nella passione malsana di Harley (questo è il nome del personaggio cui dà vita a Holmes) per un compagno di strada, il tenebroso Ilya (l’attore Caleb Landry Jones).
Ma questa macro-narrazione non va a inficiare l’unitarietà né lo scabroso realismo di Heaven Knows What, i due autori riescono infatti a mantenerla sullo sfondo (la coppia è insieme solo in pochi lacerti del film), e lì si posizionano anche loro, con la loro macchina da presa e un potente teleobiettivo, per catturare, senza interferirvi, ogni istante di un’esistenza frenetica, affamata di affetto oltre che di eroina, pulsante vitalità nonostante la costante esposizione alla morte.

Un desiderio smodato altrettanto addictive è quello che spinge Ben e Joshua Safdie a omaggiare con estrema discrezione nel film il loro bagaglio cinefilo e musicofilo. Sul versante audio Heaven Knows What colpisce duro tanto quanto le sue immagini, associandovi le note distorte dei synth del compositore giapponese Isao Tomita e sparandole a un volume quasi insostenibile. Si segnala poi una gustosa citazione di un musicista sufficientemente maledetto: Harley durante una sosta ad un internet point viene infatti sorpresa intenta a visionare un video di Burzum, compositore norvegese black metal, appassionato dell’occulto, nonché omicida…

da qui

 

Realismo esasperato e schizzato, che si riflette nella regia energica e negli stacchi frenetici di una macchina che non molla i suoi protagonisti e li segue anche e soprattutto quando i reciproci corpi si sfiorano o si battono in duelli corpo a corpo rabbiosi e furenti. Una colonna sono adeguatamente schizzata ed elettronica di rock duro tutto percussioni e suoni allucinati riesce a rendere visivamente concreto il delirio senza fine di un labirinto dal quale uscirne risulta quasi impossibile. Non sappiamo veramente se Arielle, raccontandocelo in prima persona, ci stia assicurando che per lei l'uscita dal tunnel è avvenuta, ma il fatto di vederla percorrere i propri passi nel delirio della discesa agli inferi ci incute una certa impressione, nell'ambito di un film che disturba e dunque coglie nel segno.

da qui

 

es un irritante acercamiento al subgénero de los drogadictos y la crónica urbana como protagonistas, contando una historia de amor y desamor en las calles de Nueva York que sigue todos los previsibles pasos de un manual de guionista principiante. El potencial de la idea se diluye en feísmo visual y música atronadora. Buscan impactar al espectador a cañonazos, sacudir su ánimo e implicarle en la historia para que sienta lo que Harley, alter ego de Holmes, experimenta cada jornada. Pero ese recurso no siempre funciona. En Heaven knows what, por ejemplo, lo que hace es poner de los nervios. Y un espectador frustrado no es el mejor amigo de una propuesta que ante todo quiere ser honesta. El problema es que esa honestidad tiene más cálculo que de espontaneidad, es una operación donde los elementos están muy claros, así como las intenciones y los resultados deseados. Que no son los obtenidos, ni de cerca. Ganadora del Premio a la Mejor actriz (ex-aequo) en la pasada edición del Festival de Sevilla de Cine Europeo, algo que se entiende más que nada como recompensa a Holmes por haber superado esa parte de su pasado, la película ve reducido su pretendido impacto porque dramas así han sido ficcionados muchas veces en pantalla…

da qui


domenica 23 novembre 2025

Giovani madri - fratelli Dardenne

i fratelli Dardenne girano un altro film di cinema della realtà, e non deludono.

è quasi un documentario, nella forma di un film di finzione.

ci sono tante storie di ragazze madri che sono accolte da una struttura pubblica che le assiste, le aiuta ad accettare i bambini, lasciando alle ragazze la possibilità di fare le loro scelte, senza giudicare.

c'è la ragazza (Perla) che non riesce a convincere il padre a vivere insieme, c'è la ragazza (Jessica) che vuole ritrovare e farsi accettare dalla madre che l'aveva abbandonata, e farle conoscere la bambina, c'è la ragazza (Julie) che si sposerà con il padre della bambina, dopo che entrambi sono riusciti a rinunciare alla tossicodipendenza, c'è la ragazza (Ariane) che non vuole vivere con la madre alcolista, c'è la ragazza (Naïma) che inizierà a fare il lavoro che ha sempre sognato, e poi ci sono le insostuibili puericultrici che le aiutano come se fossero loro figlie.

insomma, un film che non cerca la lacrima facile, ma mostra le cose come sono.

come sempre capita ai fratelli Dardenne anche Giovani madri è un film da non perdere, secondo me.

buona (materna) visione - Ismaele


  

Baluardi di una visione socialmente consapevole del cinema – orgogliosamente neorealisti ma nel senso più corretto, non pittoresco o “panni sporchi” ma attenzione totale, disponibilità all’ascolto della vita e della sua verità multiforme – per i fratelli Dardenne Giovani Madri è il miglior film da più di un decennio. Questo perché, finalmente, il duo trova il modo di ricostruire con cura scrupolosa la dialettica tra individuo e ambiente; la produzione più recente era troppo schiacciata sull’individuo e non abbastanza aperta al racconto del contesto, per funzionare. Giovani Madri è un dramma venato di speranza che racconta la maternità nel modo più giusto – una tappa, fondamentale ma non esaustiva, nella vita delle cinque bravissime, autentiche protagoniste – e che trova nella verità dei corpi, accompagnati dallo sguardo vigile ma non intrusivo della macchina da presa, il senso di un cinema in perfetto equilibrio tra intimismo e carica politica.

da qui

 

I cineasti si caricano sulle spalle le loro protagoniste e, più che i corpi, sono i volti e le loro espressioni che raccontano la loro storia e le loro reazioni, anche prima delle parole. Inoltre stavolta Giovani madri recupera quella luminosità di Due giorni, una notte, lascia intravedere un possibile orizzonte, anche nei tentativi di avvicinamento e nelle laceranti separazioni. C’è sempre però un filo che unisce queste azioni contrastanti. Tra quelle più intense, c’è la lettera che una delle ragazze scrive per la figlia quando compirà 18 anni. Certo, è una scena appositamente costruita, dove i Dardenne hanno dato precise indicazioni di regia alla ragazza per realizzarla. Eppure i cineasti catturano quell’impulso che mescola la tristezza e la felicità insieme, le difficoltà del presente e la speranza sul futuro. I drammi segnano le vite delle protagoniste ma c’è comunque un confine sempre più labile tra l’azione e il fuori-campo. Così, anche dei momenti apparentemente non centrali, mostrano quei frammenti di un vento di libertà, sia narrativa sia formale. Una giovane coppia, il motorino, le auto che suonano. È quasi un ritorno agli spostamenti del giovanissimo apprendista meccanico di La promesse. Non è un ritorno alle origini. Oppure lo è in parte. Quella programmaticità degli ultimi film è comunque superata. Non c’è stato un restyling, né un nuovo metodo perché quello, al di là dei risultati, ha comunque mantenuto una coerenza nella loro filmografia. Stavolta è lo sguardo, cinematografico e morale, che è quello giusto. Anche per questo Giovani madri è tra i loro film più ispirati.

da qui

 

C’è un nuovo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne in sala. E non è di certo tra i più memorabili. La comunità dei cinefili europei ci perdonerà, ma dopo trent’anni di visioni, tra cui tutti i titoli dei maestri belgi, qualche distinzione andrà pur fatta. Giovani Madri non vale mezza Rosetta o mezzo Il figlio, ma nemmeno mezzo Tori e Lokita. Mettiamo subito in chiaro cosa non funziona: la logica dell’accumulo di storie, di linee narrative intersecabili, non è tra i pregi dei Dardenne, anzi. Se la peculiarità del loro cinema è la pressione di sguardo in semi-soggettiva, scavo totale su una figura centrale, un perno attorno al quale brulicano poche e precise figure di contorno, quando si dà pari importanza drammaturgica ad almeno cinque co-protagoniste e una marea di facce secondarie l’approccio stilistico salta per aria. O meglio: si svuota di energia e di senso. Capita…

da qui

 

…Non ha senso accusare i due fratelli di ripetizione, poiché il film ripropone in maniera intelligente il loro mondo poetico, la loro cifra stilistica all'insegna della sobrietà, della discrezione, con una macchina da presa meno mobile ed esuberante rispetto a "Rosetta" e "Il figlio", ma bisogna comunque osservare che a tratti ci sono alcune notazioni un po' risapute, non tali da inficiare l'efficacia del disegno complessivo dell'opera. Al festival di Cannes stavolta i due fratelli hanno vinto il premio per la sceneggiatura, l'ultimo di una lunga serie di allori, ma in effetti il copione risulta strutturato in maniera giudiziosa, riuscendo a dare il giusto spazio tanti personaggi e a tante storie che si incrociano in una scrittura polifonica ben padroneggiata, certo non particolarmente nuova, ma verrebbe da dire che non è necessario sempre essere innovatori. Nel cast l'unico attore che sono riuscito a riconoscere è Fabrizio Rongione, in una breve partecipazione, ma per il resto le attrici, che immagino essere almeno in parte non professioniste, svolgono il loro compito con la consueta sensibilità e con un'intensità che più volte lascia il segno, in particolare Elsa Houben e Babette Verbeek.

Rispetto alle ultime prove degli autori, "Giovani madri" mi sembra un passo in avanti, speriamo che se ne accorga anche il pubblico italiano (l'ho visto in un cinema di Roma quasi deserto, nonostante fosse il primo giorno di programmazione).

da qui

 

Le protagoniste sono adolescenti, e il film non lo dimentica mai: hanno voglia di ballare, di scappare, di chiudersi in bagno col telefono, di innamorarsi, di urlare. E il fatto che tutto questo debba convivere con l’arrivo di un neonato crea una tensione che il film preferisce non mediare mai e invece lasciare vibrare. La camera le segue nei loro tentativi di imparare a cambiare un pannolino, nelle chiacchierate complici, nella ricerca costante di un appiglio. E ogni volta che sembra arrivare un momento di tenerezza, la vita entra a gamba tesa e rimette le cose in prospettiva. Anche se c’è ancora domani (pardon), un futuro tutto da progettare, la porta aperta alla speranza.

Giovani madri commuove nella semplicità con cui in fondo mostra una verità che tutti conosciamo ma che evitiamo di affrontare: una madre che non ha mai potuto essere figlia fino in fondo rischia di diventare una ferita che si replica, un trauma che non può che diventare ereditario. Allora i Dardenne scelgono di mostrarci cosa significa spezzare – o almeno provare a spezzare – quella catena senza però mai offrire soluzioni, perché per la loro idea di cinema sarebbero un tradimento. E torniamo a Perla, che vorrebbe rispondere «non ce la faccio, per me è troppo», ma riesce solo a dire «anche io piango, anche io ho fame». Di amore, di cura, di riconoscimento. Ed è proprio quell’“anche io” a diventare la chiave del film e a ricordarci che queste ragazze, prima di essere madri, sono ancora figlie che chiedono una cosa semplicissima: essere viste.

da qui

 

 


sabato 22 novembre 2025

Il mostro - Stefano Sollima

la serie in realtà è l'insieme di quattro film che si rincorrono e si intersecano, trattando gli stessi temi, con alcuni scostamenti dei punti di vista.

la pista sarda è quella che viene seguita ed esposta nei quattro film, a partire da una storia successa a Villacidro, in Sardegna.

quello che si capisce è davvero poco, se la si guarda come solo una storia criminale, occorre, come suggerisce la sceneggiatura dei film, partire dal rapporto malato di alcuni uomini con le donne (il patriarcato).

le donne sono cose, sono proprietà della famiglia, sono animali domestici, che devono obbedire ed essere munte quando il maschio comanda.

la parola libertà, per le donne, non deve esistere, quelle che ci provano rischiano tanto, troppo, anche la vita (e i mostri sono dappertutto, come purtroppo leggiamo tutti i giorni, mica solo il mostro di Firenze).

tanti sono gli aspetti positivi della serie diretta da Stefano Sollima, in primis tutti i personaggi sardi sono interpretati da attori sardi, che non sfoggiano inutili corsi di dizione, non come in un film di Milani il cui titolo non voglio ricordare, va bene il cinema di finzione, ma non quello finto.

una cosa che stona, secondo me (ma non solo), è che tutto è d'epoca, auto, vestiti, case, ma è tutto troppo preciso, troppo giusto, troppo perfettino.

comunque Il mostro è un lavoro solido, da non perdere.

buona (mostruosa) visione - Ismaele



Il Mostro è una miniserie cupa e senza speranza, esattamente come la sua orrifica storia. Sollima sfrutta tutti gli elementi a sua disposizione per realizzare una narrazione a incastri dove, episodio dopo episodio, ogni pezzo del puzzle sembra trovare la sua giusta collocazione. Almeno in apparenza, perché come tristemente avviene nella realtà, una soluzione ai delitti del Mostro di Firenze non esiste ancora. Il cast è composto da attori semi sconosciuti, i cui tratti somatici sono molto simili alle vere persone – vittime e carnefici – protagoniste di questa terrificante vicenda. Forse per far sì che il pubblico si concentri più sulla storia piuttosto che su attori d’eccezione, Sollima pare prediligere una narrazione spontanea e una recitazione “ruvida”, in cui i suoi attori si muovono in un palcoscenico da film dell’orrore eseguendo alla perfezione ogni comando richiesto. Il risultato è d’impatto poiché la concentrazione è sulla vicenda narrata e sulla fotografia “sporca” e una violenza grafica che l’accompagnano: le campagne fiorentine isolate, luoghi lugubri e deserti, in cui vivono l’omertà e il pregiudizio più assoluto…

da qui

 

…Il quesito suona così. Se il folk è ciò che resta grattando la superficie lucida e brillante del pop, è possibile che il primitivo selvaggio, annidato comunque nel folk, abbia allora modo di uscire e manifestarsi? In breve, se accantonando televisione e lavatrici, e il mondo delle origini, primordiale, torna protagonista, cosa è che infine davvero si mostra? Un eden perduto, oppure le scorribande crudeli della specie animale, maschile, padrona e predatrice? Il folk horror, come genere narrativo, in chiave problematica, sarebbe pertanto il segnale d’allarme della presenza minacciosa del primitivo nel folk stesso. Tutto ciò fa de Il mostro un film di quattro ore dal carattere squisitamente politico. Dalle frange della cultura pop, che ha imperversato dalla seconda metà del Novecento in poi, sgusciano ormai fuori quelle vibrazioni dell’ethos del primitivo, che il pop stesso non riesce più a trattenere. Se il pop è la cultura ufficiale della società di massa, nel momento in cui quella cultura non tiene più, il perimetro del villaggio globale si ridisegna allora in aperta e selvaggia campagna, di guerra e di morte. Fasoli e Sollima ambientano Il mostro precisamente in una aperta campagna di violenza e sopraffazione, dove la specie animale maschile, con il ricorso minimo al linguaggio verbale, in assenza dei segni confortevoli del progresso, detta i codici dell’umiliazione e del dominio

da qui

 

Nella storia emerge un Paese rurale, patriarcale e chiuso, dove le coppiette si appartano nelle campagne e finiscono per diventare bersaglio di un odio sistemico verso la libertà femminile. «Si trattava di omicidi ai danni delle donne», afferma il co-sceneggiatore Leonardo Fasoli. «I fidanzati o i compagni erano solo un ostacolo che l’assassino si toglieva di mezzo. Ogni donna al di fuori dei canoni imposti veniva considerata meritevole di punizione. C’era una forte componente maschilista».

E allora la miniserie diventa un doppio specchio: quello di un’Italia che, mentre costruiva la modernità, custodiva ancora i suoi mostri nei campi, nelle caserme, nelle redazioni dei giornali.
Lo dice chiaramente lo stesso Sollima: «Ti rendevi conto che la storia che andavi a raccontare era sì ambientata negli anni ’60-’70, dove c’era una società rurale e patriarcale, ma raccontava la violenza di genere. E non è così diversa dalla violenza di genere di cui leggiamo oggi sui giornali. Il femminicidio è, oggi come allora, un tema assolutamente centrale».

Il Mostro non cerca risposte, ma ne mostra l’assenza come parte del dolore collettivo.
Per il consulente storico della serie Francesco Cappelletti, che da diciassette anni segue la vicenda, «non è facile distinguere i fatti reali dalle versioni romanzate di scrittori e giornalisti». Sollima e Fasoli lo hanno coinvolto «per controllare la cronologia e alcuni dettagli psicologici».
E anche nella scelta degli attori, «siamo partiti dalla pista sarda», dice Sollima, «e ci sembrava rispettoso scritturare interpreti del territorio, anche per una questione linguistica»…

da qui

 

…Il regista, insieme a Leonardo Fasoli, ha dichiarato di aver divorato fascicoli giudiziari e atti processuali fino a farne un’ossessione. Da questa immersione nasce la decisione più coraggiosa: non semplificare, non scegliere una tesi, ma accogliere tutte le piste e restituirle con onestà narrativa. È un metodo che ricorda quello investigativo – seguire l’arma, il modus operandi – ma applicato alla scrittura e alla regia.

Sollima conferma la sua capacità di unire rigore documentario e tensione drammatica. Dopo aver raccontato la criminalità organizzata e il potere politico, con Il Mostro si spinge nel territorio più rischioso: quello in cui il male non ha volto, e proprio per questo diventa universale.

Il Mostro è un racconto inquieto, frammentario, volutamente aperto, che non risolve ma rilancia le domande. La sua forza sta nel trasformare un fatto di cronaca in un dispositivo di riflessione sull’Italia, sulle sue paure, sulle sue colpe collettive.

Sollima evita il sensazionalismo e firma una miniserie cupa e rigorosa, che non cede alla facile tentazione del true crime come intrattenimento, ma affronta l’orrore attraversandolo con rispetto. Non per spiegare, forse neanche per capire, ma per ricordare. E per ricordarci che, come suggerisce il titolo, il mostro potrebbe essere chiunque.

da qui 

 


venerdì 21 novembre 2025

Quando l’arte fa l’impossibile - Alessandra Mecozzi

Il Festival internazionale di cinema delle donne a Gaza: un esempio di resistenza civile, una storia da raccontare

 


Non potremo che ricordare questo evento come un’“utopia realizzata”, tra il 26 e il 31 ottobre 2025, a Deir el Balah nella striscia di Gaza. Anche chi, come me, stentava un anno fa a credere che questo progetto avrebbe preso corpo nel corso di un genocidio, nella distruzione di Gaza, sotto i continui crimini dell’esercito israeliano, con la paura delle bombe, le condizioni di sofferenza, di fame, di mancanza di tutto della popolazione, ha dovuto ricredersi. Sembrava una sfida impossibile, di fronte alle difficoltà materiali, enormi, ma anche al sentire delle persone. Un festival di cinema

Credo che mi abbia convinto a sostenerlo, come ha convinto tutti coloro che hanno aderito attivamente al progetto, la determinazione del suo ideatore Ezzeldeen Shalah, critico e regista, di cui abbiamo più volte ascoltato da Gaza, nelle conversazioni online dei mesi di preparazione, la voce ferma, le parole convinte e irremovibili che dicevano di andare avanti, comprese quelle dette in uno dei momenti più terribili degli attacchi dell’esercito israeliano, l’invasione di terra unita a incessanti bombardamenti, di Gaza City: “Se io non ci sarò più, continuate questo lavoro…”. Parole che ci hanno stretto il cuore, ma anche rafforzati nella convinzione di sostenere la realizzazione del progetto, in tutti i modi possibili.

Il festival è stato presentato, raccogliendo fondi, in varie iniziative in Italia, e in molti paesi delle associazioni e festival di cinema che compongono l’ampia rete internazionale: è arrivato a Cannes, a Venezia, a Firenze gemellandosi con il Festival di cinema delle donne e poi al Festival dei Popoli dove il suo fondatore ha meritatamente ricevuto il premio SUMUD, parola che appartiene storicamente alla cultura palestinese: la perseveranza, la resistenza civile.

Ancora una volta la cultura ha mostrato di essere non lusso, ma risposta a esigenze fondamentali: la speranza in un futuro possibile, la sua capacità di essere vita contro la morteuna forma alta di resistenza.

E a chi gli domanda se ha senso parlare di cultura in tempi di genocidio e di fame, Ezzeldeen ha risposto: “Sì, ed è fondamentale. Il cinema è vita, è una presenza ostinata contro il nulla. Realizzare un festival tra le macerie significa dire che siamo ancora qui, che resistiamo e che c’è speranza. È il nostro modo di sfidare la morte con la vita. Vogliamo trasmettere al pubblico una carica di fiducia: la speranza, in questi tempi, è già una forma di resistenza. (fonte: pungolorosso.com).

Dunque a dispetto di tutti gli ostacoli e le difficoltà, il festival si è fatto, il tappeto rosso è stato steso, le persone che potevano hanno partecipato numerose e attente. È iniziato, come previsto, il 26 ottobre, data scelta per ricordare la Giornata delle donne palestinesi e la prima Conferenza delle donne palestinesi tenutasi a Gerusalemme nel 1929. Si è aperto con la proiezione del film vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia: “La voce di Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania, tunisina, Leone d’Argento a Venezia. Sconvolgente racconto dell’attesa e poi dell’uccisione sotto decine di colpi israeliani, di una bambina in un’auto con i familiari. Terribile e straordinariamente commovente, realizzato con grande capacità tecnica, fa rivivere quei dolorosi momenti in mezzo al genocidio di Gaza.

I 79 film in programma, tra documentari, cortometraggi e lungometraggi di finzione provengono da 28 paesi. Tutti raccontano le vite, le voci e le lotte delle donne. Il Festival è stato poi sospeso per i nuovi bombardamenti nel corso della cosiddetta “tregua” (!) e si è concluso il 31 ottobre con le premiazioni (qui trovate conclusioni e assegnazione dei premi).

La realizzazione di questa edizione del Festival incoraggia a lavorare ad una seconda edizione, come assicura il suo fondatore: “Desideriamo assicurarvi che, a partire da domani, inizieremo i preparativi per la seconda edizione”, ha detto davanti al pubblico Ezzaldeen Shalah, presidente e animatore instancabile del festival che, dal cuore di Gaza, a Deir al-Balah, dove il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha offerto la sua sede, ha parlato al cuore del mondo.

https://comune-info.net/quando-larte-fa-limpossibile

martedì 18 novembre 2025

Il sentiero azzurro (O Último Azul) - Gabriel Mascaro

in un mondo futuro (il futuro è domani) il governo decide di liberarsi dei vecchi, un peso per il paese. 

volenti o nolenti i vecchi vengono portati via, in qualche luogo ignoto.

ma qualcuno dice no, come Tereza, che non brilla per simpatia, ma è testarda come pochi.

riuscirà a scappare, e si salverà?

un film che merita, promesso.

buona (sorprendente) visione - Ismaele


 

 

In un Brasile immaginario (ma non troppo), schiacciato dal controllo e dall’abuso di potere, una donna anziana sfida le leggi e l’ordine costituito avventurandosi in un viaggio in Amazzonia. Gabriel Mascaro firma un film politico e spiazzante, immerso in una visione lisergica dove il colore si fa materia e l’erranza della protagonista è gesto estremo di ribellione e di autodeterminazione. Tra racconto di formazione e road-movie, un film dallo spirito anarchico che restituisce il sapore dolce della libertà.

da qui

 

La rarissima lumaca dalla bava blu, tra questi, è l’elemento in grado di spalancare le porte della percezione e il viatico per un vero e proprio trip lisergico che consente prima a Cadu e poi a Tereza di visualizzare il futuro e mettere a fuoco il desiderio di riappropriarsi della loro esistenza a un livello più profondo e radicale di quanto non abbiano fatto finora. Analogamente il “Pesce Dorato”, sorta di bisca acquatica dove Tereza si gioca economicamente tutto il proprio futuro, vincendo, rappresenta la zona franca non sottoposta al controllo dell’autorità di matrice fascista che vorrebbe coartare il popolo; luogo di possibile perdizione ma anche di subitanee opportunità, in esso la donna appare completamente trasformata (i capelli ora lasciati sciolti, il look fattosi improvvisamente più giovanile), guidata da forze sovrannaturali appannaggio dei pesci utilizzati per le lotte clandestine e capaci di orientare le scelte degli scommettitori. A questo aspetto panico e irrazionale è legato il maggior pregio de Il sentiero azzurro, che altrimenti sarebbe eccessivamente rimasto ostaggio di una metafora politica per molti versi già vista e poco originale nelle sue premesse e che il racconto dai tratti picareschi di Mascaro riesce a vivificare operando una classica contrapposizione tra natura e cultura nella quale la prima può rivelarsi ancora non del tutto irreggimentata dalle logiche perverse della seconda. E, come Tereza, alla fine l’alligatore può nuotare libero nell’immenso letto del fiume, sottratto a un destino di sfruttamento e morte, verso la riconquistata libertà.

da qui

 

Il sentiero azzurro è una storia distopica inserita in un classico stato di polizia, eppure non troppo lontana dalla realtà del paese sotto il regime di Bolsonaro. Ambientato in un tempo indefinito dal passato o del futuro, con dei toni di ilarità e malinconia, ed una fotografia impreziosita dalla luce del sud del mondo che sottolinea l’aspetto onirico, il film ricorda l’importanza di lottare, di non dare niente per scontato e di non firmare cambiali in bianco. Il sentiero azzurro è un road movie politico, con delle punte di visionarietà tra i colori dell’acqua e dell’orizzonte, il volo degli uccelli che invadono il cielo, ed un vertice incredibile in una straordinaria sequenza di lotta tra due pesci tropicali. Non ha bisogno di proclami ed eccessive linee di dialogo. Sono piuttosto le immagini a riprodurre l’insensata profezia, ed in quella riserva comica nel trattare il problema, il film inventa un valore aggiunto e suggerisce come i modi di combattere l’ignoranza e l’arroganza dilagante negli stati repressivi siano tanti, e quello principale stia nel rifiuto di misure di controllo sprovviste di raziocinio, oltre che umilianti e disumane.

da qui

 

Mascaro lancia una prima sfida rappresentando i corpi anziani come ancora desideranti, vivi, non sazi. Punta poi tutto sul fatto di inserire questi stessi corpi in un costrutto narrativo a metà fra il coming of age e la distopia. L’identità del personaggio principale travalica quella di madre e nonna, e nel corso del film acquisisce (e forse scopre) altre identità personali che si allargano oltre i ruoli sociali normalmente attribuiti alle donne anziane. Intorno a lei ruotano personaggi maschili fragili, che non riescono a portare a compimento nulla, annegati in una Amazzonia contemporanea, piena di contraddizioni eppure sempre bellissima e seducente, contesa fra capitalismo e magia, con una natura che sembra quasi parlare. Il ruolo del meraviglioso, del fantastico, brilla, occhieggia con lo spettatore, lo diverte…

da qui