lunedì 30 giugno 2025

Cronaca di una passione - Fabrizio Cattani

il film racconta una storia triste, delle brave persone con un piccolo debito verso l'Erario (30mila o 50mila euro) sono costretti a fallire, a perdere tutto, giorno dopo giorno, anche la dignità.

la storia ha una struttura quasi documentaristica, perfettamente  verosimile.

è terribile che le istituzioni pubbliche siano incapaci di gestire situazioni del genere, d'altronde non si tratta di comprare armi, con relative tangenti, ma di salvare vite, attività commerciali, persone.*

interpreti davvero convincenti, in un film da non perdere.

buona (triste) visione - Ismaele


*la politica italiana (composta di incapaci e ladri, per la maggior parte) non riesce (o non vuole) salvaguardare la vita e la dignità dei suoi cittadini, non esistono meccanismi semplici e chiari per risolvere i problemi, sono le leggi, dicono, come se quei maledetti (sempre per la maggior parte) politici non fossero profumatamente pagati per risolvere problemi.

 

 

 

Il film racconta la storia di Giovanni e Anna, due coniugi sessantenni che hanno vissuto insieme dignitosamente gestendo con passione la loro trattoria nella cittadina di provincia in cui vivono. La crisi economica che attanaglia il Paese non risparmia la loro attività e la coppia comincia ad accumulare debiti con lo Stato a causa di una cartella esattoriale che non sa come saldare. I due si sforzano di tirare avanti fino a quando l’Agenzia di Riscossione dei Tributi dispone il pignoramento forzato della loro casa e la successiva messa all’asta. Da questo momento per Giovanni e Anna comincia un inesorabile calvario che li porta in breve tempo a perdere lavoro e casa, compromettendo inevitabilmente la loro vita più intima. Trasferiti in una casa famiglia dai servizi sociali, saranno costretti a vivere in camere separate e in condizioni di degrado. Abbandonati al loro destino e ignorati dalla società, i due coniugi non cesseranno di lottare per ricominciare a vivere, ma quando ad essere messa in gioco sarà la loro dignità, sceglieranno una soluzione estrema.

Esistenze che vanno a rotoli, corruzione e malaffare amministrativo, scartoffie e lungaggini burocratiche, intimità spezzate. Un film per denunciare e, insieme, riflettere.

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scrive il regista:

Mi sono ispirato ad alcuni fatti di cronaca per raccontare un Paese ferito in profondità dalla grave crisi economica che lo sta attanagliando da tempo e dove chi paga il prezzo più alto sono i più umili. Gli ultimi. E' la cronistoria di ciò che i protagonisti sono stati costretti a vivere in tre anni e mezzo della loro vita insieme dietro l’indifferenza di un Sistema Stato che, anche con superficialità, permette ingiustizie anziché tutelare e aiutare i propri cittadini onesti. Tra il 2012 e il 2015 in Italia, 628 persone si sono tolte la vita per cause legate direttamente al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali. Su un totale di 16,7 milioni di pensionati italiani, quasi 8 milioni percepiscono meno di mille euro mensili e oltre 2 milioni meno di 500 euro. Nello stesso periodo sono state chiuse più di 450.000 aziende di cui 57.000 per fallimento. Gli ultimi dati del rapporto Istat documentano un Paese con consumi calanti e famiglie impossibilitate a far fronte a costi di cure ed esami diagnostici, pagare le bollette e il riscaldamento, con povertà e rischio di esclusione che riguardano un quarto della popolazione, ai livelli più alti d’Europa. Il rapporto segnala che in Europa oltre alla disoccupazione cresce la precarietà, quella che sino a poco tempo fa era uso edulcorare chiamandola flessibilità.

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La coppia Viviani/Ciangottini è perfetta nella parte, l‘eterea fanciulla de La dolce vita, l’irraggiungibile miraggio di purezza di Marcello, ora è diventata una donna provata, la tenera compagna di traversie per Giovanni, uomo mite e incurvato dagli anni, sopraffatto dalla perdita di ogni ancoraggio ad una vita normale.

In un crescendo che procede a piccoli passi inesorabili, Cattani avvolge i due protagonisti in una tela di ragno sottile, i loro movimenti nella vicenda sono realtà pura, nessuna sovrastruttura romanzesca a rompere il lento fluire di giorni senza prospettive né speranze.

L’arrivo della soluzione estrema diventa così cronaca annunciata, nessun soprassalto emotivo, togliersi di mezzo quando la vita ti rinnega non può che essere l’unica via d’uscita.

Ed un mare grigio, freddo, invernale è sempre disposto ad accoglierti se sei colpevole di povertà.

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Quello di Fabrizio Cattani è uno dei film più tristi e senza speranza che si possano immaginare. Eppure, il regista toscano non si crogiola mai nel calvario dei suoi due protagonisti, non cerca la lacrima dello spettatore. Al contrario, si preoccupa di raccontare, senza acrimonia o false ideologie, lo sfondo sociale nel quale il disagio di questa coppia avanti con gli anni trova terreno: l'eccesso di burocrazia, i licenziamenti facili, la corruzione, l'incapacità di ascolto delle istituzioni, la delazione. Tutti elementi che compongono un mosaico di apprezzabile compostezza e che enfatizzano l'incredibile dignità dell'inossidabile coppia protagonista, nella quale Vittorio Viviani sembra decisamente più a suo agio di Valeria Ciangottini.

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sabato 28 giugno 2025

Milarepa - Louis Nero

"girato in una Sardegna post-apocalittica, cioè realista" (come scrive Roberto Silvestri), il film di Louis Nero rivisita la storia di Milarepa (interpretato/a da Isabelle Allen).

il film sembra una storia di fantascienza, dove il passato e il futuro si confondono, non sai mai se vedi una storia del passato o del futuro.

è una storia eterna, shakesperiana in fondo (diremmo oggi), nella quale la famiglia, i tradimenti, gli interessi, muovono le guerre, e poi Milarepa cerca una via d'uscita interiore, cerca di andare aldilà dell'avida vita, in un rinascimento spirituale, attraverso l'obbedienza e l'umiltà.

il film si può vedere solo in un pugno di sale, non saprei dire se è un film che resterà, di sicuro è un film coraggioso e non minimalista, che merita di essere visto.

buona visione - Ismaele


 

 

Milarepa è un film mistico e meditativo, una volontà di far riflettere, di porsi domande esistenziali che vanno dall’attaccamento a tutto ciò che è proprietà materiale fino alla continua devastazione della natura da parte dell’uomo, proponendo una riconciliazione e un ricongiungimento tra essi. Un messaggio ecologista che passa attraverso un mondo post-apocalittico dove la natura ha superato la tecnologia. Dove gli esseri umani, per vivere, dipendono dalla natura, mostrando come questo abbia un senso e un significato molto più profondo rispetto a quello che è dimostrativo di una certezza ingannevole attuale. Perché nel mondo del progresso e della modernità si vive nella fittizia sicurezza di dipendere ormai dalla tecnologia. Per quanto questa rilettura in chiave più contemporanea della figura di Milarepa, che passa attraverso interpretazioni e punti di vista femminili, il film di Louis Nero è liturgia, devozione e spiritualità. E la parte psicologica viene sempre più lasciata a margine, rendendo quella ricercato finalità e quel richiesto ruolo ascetico ed estatico, il vero messaggio, quello più intrigante e trascinante. Tutto in un’epoca senza tempo, tra passato e futuro, in un luogo di inestimabile fascino, che ben si adatta a terre che possono apparire indefinite, remote, antiche e primitive. Dove appunto è la natura a distruggere o accudire chi ha intenzione di abitarla.

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Se il materiale narrativo è gonfio di rimandi e forme previste, lo stile fa altrettanto, tra primi piani insistiti, dialoghi altisonanti, scenografie zeppe di cianfrusaglie, droni onnipresenti, accompagnamento musicale onnipresente, costumi che mescolano elementi arabeggianti e anticheggianti, fuoco, vento, terra, deserto, fulmini... Per non dire dell'apparato spirituale, che fonde misticismo e spiritualismo buddista secondo un'idea di sincretismo che ormai da tempo mette in guardia sulla decadenza della civiltà occidentale e sulla possibilità di palingenesi attraverso un ritorno al magico.

Il problema, in ogni caso, non è tanto, o solo, la confusione dell'idea di cinema di Louis Nero, o la scelta semplicistica di mettere in scena una favola sul bene e sul male attraverso il percorso di crescita fisica e interiore di una giovane donna. Il problema è proprio l'impossibilità che tutto questo armamentario si faccia cinema, e cioè immaginario autonomo, consapevole, credibile, a partire dal fatto che in quasi due ore di film non c'è un picco drammatico, l'azione scolora in dialoghi verbosi, la ricostruzione fantasiosa di un mondo passato (costruito tra la Sardegna e il Lazio) non si fa mai spazio e tempo cinematografici e, ancora, la dimensione fantastica suona purtroppo posticcia, più declamata che realizzata.

La passione - che non manca, perché per fare un cinema così altisonante bisogna essere coraggiosi e amare il cinema, questo è giusto riconoscerlo - a volte non basta per essere cineasti.

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…Per Louis Nero non era, dunque, semplice riscrivere per la terza volta e in modo originale una storia ambientata in un complesso terrain vague tra fiaba e mito, misticismo e religione, dove poi i confini spesso tendono a sovrapporsi o a confondersi. Il risultato, a larghi tratti, è suggestivo grazie soprattutto alla fotografia di Micaela Cauterucci e ad un’attenta scelta delle location (soprattutto sarde) che vogliono forse alludere, riflettere la condizione ambivalente e cangiante della psiche della protagonista. Mila, infatti, vive un viaggio iniziatico, dove l’inizio e la fine della vicenda, come nel film di Liliana Cavani, coincidono, tornando allo stesso punto della storia. Nel mezzo c’è l’ascesa, la caduta e infine la redenzione di chi, infine, trova la giusta strada maestra tra tanti dolori, errori ed illusioni ma sempre comunque guidata da una profonda forza interiore che la porta alla verità.
In una vasta gamma di sfumature, tra il candido e il demoniaco, Isabelle Allen conferisce, con una certa abilità e in modo sostanzialmente convincente, corpo e anima al suo cangiante personaggio. Autorevole e ieratico come sempre, Harvey Keitel dona alla figura del guru quel giusto tocco di ambiguità per spingere Mila sul cammino della salvezza. Come di frequente nelle opere di Louis Nero, troviamo, in diversi ruoli secondari, altri attori di nome come l’oscar F. Murray Abraham oppure Angela Molina e Franco Nero ad arricchire un cast importante – peccato che il doppiaggio dell’edizione italiana spesso non sia all’altezza, appiattendo un po’ il potente coro attoriale del film, comunque arricchito dalla presenza della musica di Andrea Guerra.

Cosa concludere? Milarepa ci è sembrato un film meditativo molto classico, quasi “antico” nella sua impostazione e nella costruzione del plot, quasi al guado nell’esibire e alternare luci e ombre. Possiede, anche con qualche pausa e lungaggine di troppo, momenti di buon cinema, nel narrarci una parabola insieme etica, mistica e religiosa, a tratti emozionante, altre volte, più statica o scontata. Comunque sia, un’opera non pensata per un pubblico mainstream che cerca solo azione o spettacolarità pura.

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E comunque finora le parole più belle su questo film le ho lette su un post di Instagram. L'ha scritto l'attrice Diana Dell'erba (Damena nel Milarepa di Louis Nero): «Grazie all’incredibile fuoco sacro di Louis Nero, al team sempre più accuratamente folto de L'altrofilm produzioni e ai tanti straordinari sardi che si sono uniti a questa avventura. Grazie a questa troupe, per lo più femminile. Grazie al film MILAREPA, al personaggio di Damena, a tutte le eccezionali donne che hanno contribuito a crearlo, alle ossidiane dei su kokku, alle sincronicità e alla potenza dei ricercatori, desiderosi di vedere oltre. Grazie alla Sardegna, terra senza eguali… che con la sua infinita e ancora protetta magia ci mostra cosa sia davvero Madre Natura… e ci richiama alla Verità, stuzzicandoci e bussando silenziosamente alla parte più intima, vera e profonda del nostro essere. Grazie a chi mi ha detto che sono solo le dinamiche intorno all’essere attore a non piacermi, perché sì, sono da sempre infinitamente innamorata della purezza di quest’arte. Grazie a chi mi ha suggerito come esistano “informazioni”, che in luoghi diversi del mondo possono avere nomi diversi… perché sì, il malocchio che troviamo in Sardegna prende il nome di energia negativa al di là dell’oceano... Grazie al Nuraghe di Santu Antine per avermi accompagnato al mio buco nero, quel luogo in cui respira tutta la sofferenza che ho incontrato in questa vita… e grazie per avermi suggerito con forza come spetti solo a noi… aprirlo o chiuderlo. Grazie agli elementi che, tutti insieme, mi hanno fatto vivere momenti di estasi (o unione) senza uguali».

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giovedì 26 giugno 2025

Gli ultimi cinque minuti - Giuseppe Amato

un film simpatico, come a volte capita, è una benedizione.

Vittorio De Sica, somigliante in certi momenti al vecchio Charlie Chaplin, è bravissimo, ma nessuno sfigura.

un piccolo film, davvero da non perdere.

buona (affittevole) visione - Ismaele



QUI si può vedere il film completo



Da un autore di successo degli anni '30 come De Bendetti, e sceneggiato dal drammaturgo stesso, è stato tratto questo film, anche accattivante e di un femminismo antilitteram, con una regista anomalo come Amato, che poneva come condizione la presenza della Darnell, già avuta in Donne Proibite, bella presenza di passati ricordi cinefili americani. Soggetto brillante, che ricorda certe commedie americane sofisticate e divertenti, con un finale edulcorato e diverso da quello originale, che era più pensieroso ed interessante.
Le interpretazioni sono buone ed ottima è anche la presenza dei due protagonisti; De Sica fa ricordare i vecchi periodi della sua gioventù, ma rimaniamo allibiti per la sua bravura in qualsiasi momento del film.

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Commedia sentimentale d'altri tempi leggera solo fino ad un certo punto. Le storie che si intrecciano parlano di sentimenti veri, universali, cui la sceneggiatura scritta con garbo e stile dona un'attualità inaspettata. Molto buona la prova dell'eccellente cast, il vero punto di forza del film, mentre la regia discreta di Amato mostra a tratti poca personalità. Le riprese quasi tutte in interni fanno apprezzare meglio la classe degli attori e i mezzi toni dei dialoghi e nel complesso un certo ritmo non manca. Gli appassionati del genere potrebbero apprezzarlo; gli altri, forse, pure.

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mercoledì 25 giugno 2025

Tempo di uccidere - Giuliano Montaldo

tratto dal libro di Ennio Flaiano (che tutti o quasi dicono molto migliore del film), Giuliano Montaldo gira una storia con protagonista Nicolas Cage (Nicola Gabbia) nella quale protagonista è la merda del colonialismo italiano in Africa.

il regista è bravo, gli attori anche (strano che un soldato italiano sia interpretato dal nipote di Francis Ford Coppola).

il film non è certo un capolavoro, ma uno sguardo lo merita di sicuro.

buona (coloniale) visione - Ismaele


ps: leggerò il libro a breve




Le sempre ottime musiche di Morricone, a conti fatti, sembrano essere l’unico elemento che Tempo di Uccidere di Montaldo sembra aggiungere all’eccezionale lavoro dello scrittore pescarese, mentre la messinscena equilibrata, pur con qualche buon momento di tensione surreale, risulta assai meno potente e conturbante della controparte.

Ma a oggi, fin troppo stridente è la scena di sesso tra il protagonista e l’indigena che, scivolando ambiguamente dallo stupro all’infatuazione consensuale, rende fastidiosa la visione e quasi depotenzia l’allegoria dell’impresa coloniale come brutale atto contro cui sembra scagliarsi una maledizione mortifera.

Rinnovare il giudizio estetico di un’opera del passato con una nuova sensibilità comporta sempre numerose problematiche e rischi, ma Tempo di uccidere non risulta né una delle migliori opere di Montaldo, né tantomeno sembra avere qualche rilevanza se posto in dialettica con il romanzo di Flaiano. Dunque, lasciarlo dov’è non sarà probabilmente un peccato.

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..,Purtroppo però tutto ciò che di buono ci proponeva il libro qui è assente e un po' come accadde nella trasposizione di "1984" ci troviamo davanti ad un film privo di mordente, privo di consistenza, privo di stile e personalità.
Il film fu girato in Zimbabwe dopo una serie di complicazioni, soprattutto di budget, che scaraventarono letteralmente il cast e la crew dall'Etiopia al Kenya sino ad addentrarsi nell'Africa più nera e povera. Sono proprio le atmosfere di questo paese la cosa migliore dell'opera, accompagnate da una colonna sonora di Ennio Morricone molto sofferta e adeguata.
Poi sinceramente rimane ben poco, a parte un Giannini sempre immenso e un Cage abbastanza in parte grazie alla sua giovanile inesperienza (adeguata per il personaggio).
La cosa che più mi ha stizzito è come si sia trattato il rapporto fra il protagonista e il saggio ma inconsapevole Johannes, una parte troppo importante nel capolavoro di Flaiano da liquidare in pochi minuti.
Montaldo si chiese se all'autore del libro fosse potuto piacere il suo film... credo proprio di no, forse gli avrebbe detto che con personaggi come Sacco e Vanzetti o Giordano Bruno si sarebbe trovato molto più a suo agio, e comunque sarebbe andata a finire con un brindisi.
In conclusione non mi sento di stroncarlo in toto, d'altronde è riuscito a farmi rivivere alcune emozioni che l'opera originale mi aveva dato, e poi spero che questo mio commento sia utile a qualcuno per immergersi in una lettura esotica ed intimistica come raramente si può assaporare.

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Per essere la trasposizione cinematografica dell'eponimo romanzo di Flaiano, con cui il grandissimo scrittore vinse il premio Strega nel 1947, può lasciare un po' a desiderare. Ma è comunque un'opera solida e discretamente definita, con un cast piuttosto eterogeneo (Giannini-Cage-Tognazzi jr.: sembra un azzardo, ma la combinazione funziona) e la mano di Montaldo che garantisce sulla tenuta del lavoro. Silvestri-Cage non è nè un antieroe, nè tantomeno un eroe, ma soltanto un uomo, tormentato dai dubbi e dai sensi di colpa. In questo la forza dell'opera di Flaiano, in questo la dignità di quella di Montaldo. Sorprende infine che il romanzo più celebre di uno scrittore che ha dato tanto al cinema (ricevendo comunque altrettanto) venga portato sullo schermo con quasi mezzo secolo di ritardo.

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lunedì 23 giugno 2025

Tutto l'amore che serve (Mon inséparable) - Anne-Sophie Bailly

ottima opera prima di Anne-Sophie Bailly, che affronta un tema spesso al cinema in modo retorico e strappalacrime.

il film racconta la storia di Mona (Laure Calamy), madre sola di Joel, un ragazzo con un ritardo mentale, che si innamora di Oceanie, che resta incinta.

Mona cerca di vivere una vita "normale", ma il pensiero e la cura di Joel la tengono "imprigionata".

Laure Calamy è davvero bravissima, ma Joel non è da meno, in un film coinvolgente, senza trucchetti strappalacrime.

un film da non perdere, purtroppo in poche sale.

buona (amorosa) visione - Ismaele


 

 

Il film trova la sua forza nella straordinaria Laure Calamy, che sa passare senza sforzo apparente dalla leggerezza della commedia allo strazio del dramma, cambiando espressione ogni secondo e comunicando in modo sincero ed efficace le difficoltà del suo personaggio, su cui Bailly non esercita alcun giudizio e a cui non fa mai la morale, come invece fanno le persone intorno a Mona, quelle che non capiranno mai cosa voglia dire stare di guardia 24 ore su 24.
Mona porta il suo peso quotidiano con una specie di allegria, ma rischia di rimanere schiaccciata dalla pressione che la situazione esercita su di lei senza tregua. Anche Charles Peccia Galletto è efficace nel difficile ruolo di Joel, sempre in equilibrio tra volontà di emancipazione e incapacità di provvedere completamente a se stesso.

Anne Sophie Bailly racconta senza fretta, prendendosi il tempo di far penetrare nelle nostre coscienze la consapevolezza dell'impegno di cura, ma anche la forza dell'amore vitale fra madre e figlio. Di fatto, al di là del prisma della disabilità, Tutto l'amore che serve è anche la storia di ogni rapporto madre-figlio diventato una co-dipendenza, e bisognoso di darsi un confine certo per permettere a entrambi una vita autonoma e indipendente. Nel suo film non c'è spazio per la (auto)commiserazione ma solo per la presa d'atto che non tutto è semplice come in un film hollywoodiano, e che le soluzioni non sono sempre a portata di mano. Un esordio davvero promettente, che fa tesoro dell'esperienza documentaria della sua autrice in termini di attenzione ai dettagli e di fedeltà alla complessità del reale.

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Quel che consente a Tutto l’amore che serve di smarcarsi, almeno per buona parte del racconto, dalle trappole del sensazionalismo o dell’eccesso di autocommiserazione, è proprio la naturalezza con cui Anne-Sophie Bailly lega il processo di rivalutazione del rapporto simbiotico madre-figlio alla soppressione dei desideri/istinti carnali della protagonista. Tanto che l’erotismo, agli occhi della regista francese, diventa il viatico di espressione sì dei disagi e delle crisi vissute nel quotidiano da Mona, ma si dipana anche come lo strumento di rielaborazione del rapporto con il suo primogenito. È nei momenti di maggiore liberazione, quando si abbandona tra le braccia dell’amante Frank, che lei arriva a comprendere nel profondo i desideri di Joël, la necessità del giovane uomo di fregiarsi degli stessi diritti di coloro che non soffrono di disabilità, tra cui quello relativo alla paternità e al bisogno, quindi, di assumere l’immagine di genitore e marito, al di là del suo unico status di “figlio” costretto ad essere tutelato per l’eternità. E anche se, in alcuni momenti, il film tende a declinare il percorso di Mona nel vittimismo – rifiutando in parte la lezione che Lee Chang-dong ci ha insegnato all’inizio del Millennio con Oasis – difficilmente il tema della disabilità viene trattato dal cinema transalpino con questa sincerità.

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L’invasione degli ultracorpi: horror e fantascienza come propaganda politica? - Federico Greco

 

sabato 21 giugno 2025

Crazy for football - Matti per il calcio - Volfango De Biasi

uno psichiatra "buono", con una figlia poso frequentata, un allenatore in disgrazia, una squadra di pazienti in gara per la coppa del mondo di calcio a 5 sono i protagonisti di un film per la tv, troppo prevedibile.

bravi gli attori, Max Tortora sopratutto. 

un film che non dispiace, ma Non ci resta che vincere - Campeones era un'altra cosa.

buona (matta) visione - Ismaele



 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Dal documentario al film. Nel 2016 Volfango De Biasi aveva raccontato in Crazy for Football la vicenda di un gruppo di pazienti psichiatrici provenienti da tutta Italia che hanno formato una nazionale di calcio per partecipare ai mondiali che si svolgono in Giappone. Quella storia, premiata nel 2017 con il David di Donatello, si trasforma in un film. Protagonista è lo psichiatra Saverio Lulli (Sergio Castellitto) che si dedica anima e corpo al reinserimento sociale dei suoi pazienti e non ha più una vita privata. Per lui il calcio è uno sport/terapia che aiuta i pazienti a stare meglio. Organizza così il primo mondiale di calcio a cinque aiutato dalla sua assistente Paola (Antonia Truppo) e coinvolge Vittorio Zaccardi (Max Tortora), un ex-calciatore ludopatico che ritrova in una sala Bingo. Per essere ammessi nella formazione, arrivano pazienti da tutta Italia. Alla squadra si unisce anche Alba (Angela Fontana), la figlia adolescente ribelle che gli ha affidato l’ex-moglie per occuparsene. Ci sono però dei problemi; è difficile trovare i finanziamenti e in più lo psichiatra De Metris (Massimo Ghini), un superiore di Saverio, gli mette i bastoni tra le ruote.

Con Crazy for Football – Matti per il calcio, Volfango De Biasi mostra un autentico coinvolgimento per la storia che racconta tanto che il passaggio tra il documentario e il film è apparso naturale. Le interpretazioni dei pazienti psichiatrici risultano credibili e sotto questo punto di vista, il film ricorda quello di un altro “grande sogno” raccontato in Si può fare. I due film, nella loro struttura, hanno infatti diversi punti in comune. La figura di Saverio ricorda quella di Nello interpretato da Claudio Bisio, c’è sempre un dirigente che vuole riportare il protagonista alla realtà e in più i pazienti sono interpretati da attori…

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Forse il momento drammaturgicamente più interessante è quello in cui Saverio viene messo a confronto con il proprio ego e deve chiedersi: "Lo fai per te o per loro?", capendo anche che la sua determinazione non corrisponde necessariamente al benessere dei suoi pazienti. Meno articolato il rapporto fra Saverio e sua figlia Alba, così come quello fra Alba e uno dei giocatori, Tommaso (non a caso entrambi assenti dal documentario). La sceneggiatura si muove su un crinale difficile perché se da un lato l'intenzione dichiarata è quella di "non mettere mai in ridicolo" i pazienti, dall'altra alcuni comportamenti vengono utilizzati anche a scopo comico. In questo senso è magistrale l'interpretazione di Tortora che, nel suo personaggio pragmatico e politicamente scorretto, riesce a far ridere senza mai eccedere, mantenendosi sul filo di una comicità "ruspante vera".

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Prima un libro e un documentario, adesso anche il film. L'idea di Volfango De Biasi di raccontare la faccia pulita della psichiatria si traduce in un lungo lavoro organizzativo che lo ha portato, insieme ad altri, alla realizzazione di un progetto che richiama la visionarietà del grande Franco Basaglia.
Nella finzione, Saverio Lulli (Castellitto) è uno psichiatra iconoclasta e fuori dalle regole che decide di realizzare un campionato mondiale di calcio a cinque per pazienti istituzionalizzati. Il suo diretto superiore (Ghini) nicchia, i dirigenti non vogliono saperne, ma lui va avanti fiero e spavaldo per la sua strada, ipotecando persino la casa e rischiando di mettere a repentaglio il rapporto con la figlia adolescente (Fontana). Per l'operazione gli serve un mister che guidi la squadra e lo trova in un vecchio amico burbero (Tortora), un ex calciatore ludopatico che si appassiona subito all'impresa. I problemi non mancheranno, ma l'operazione sarà comunque un successo.
Girata con linguaggio paratelevisivo (luci piatte, campi e controcampi nei dialoghi, molti interni), la commedia di De Biasi riesce a colpire nel segno per quel tanto di schiettezza che ne fa - sulla scia di film come Strana la vita e Si può fare - un riuscito esempio di convivenza tra la magmatica materia psichiatrica e un registro tanto essenziale quanto leggero e godibile.

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venerdì 20 giugno 2025

Gioventù perduta - Pietro Germi

uno di quei film dei "panni sporchi che si lavano in casa", se i delinquenti sono borghesi e non proletari.

Pietro Germi è bravissimo sin dall'inizio della carriera, in un film che sembra un noir hollywoodiano, è un film italiano che non teme confronti.

un film da non perdere, promesso.

buona (poliziesca) visione - Ismaele



Il primo impatto di Pietro Germi con il mondo del cinema è all’insegna dello scontro. Scartato dalla commissione del Guf di Genova, incaricata di effettuare una prima selezione di candidati ammissibili al concorso indetto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Branca Registi, non si dà per vinto e scrive una lunga lettera per protestare contro quel risultato a suo avviso sommamente ingiusto. Siamo nel 1937, Germi ha 23 anni e un bellicoso talento per l’esercizio dello sdegno, accompagnato da un’indole ribelle che il tempo potrà solo confermare. A dieci anni esatti da quella bocciatura, al “caso” del candidato Germi si aggiunge il “caso” Gioventù perduta, scatenato da un’altra lettera e destinato a rimanere unico, nella carriera del regista genovese, per il massiccio sostegno trasversale ottenuto anche – soprattutto – a sinistra, nel corso di una vera e propria campagna di stampa contro la censura. Portato a termine nell’autunno del 1947, il secondo lungometraggio di Germi ne è il protagonista indiscusso e forse ottiene il nulla osta, nel gennaio del 1948, anche grazie a questa imponente mobilitazione.

Tutto sembra avere inizio, appunto, da una lettera, firmata da 362 fra registi, sceneggiatori e intellettuali dello spettacolo appartenenti agli schieramenti più diversi, e inviata ai giornali romani martedì 9 dicembre 1947 per denunciare «l’approssimarsi di un pericolo […] una tendenza a ripristinare la consuetudine fascista di controllare la produzione dei film […] una vera e propria censura di carattere
ideologico e politico»

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Il ‘caso’ Gioventù perduta [è] scatenato da una lettera [firmata da 36 fra registi, sceneggiatori e intellettuali dello spettacolo] e destinato a rimanere unico, nella carriera del regista genovese, per il massiccio sostegno trasversale ottenuto anche – soprattutto – a sinistra, nel corso di una vera e propria campagna stampa contro la censura. Portato a termine nell’autunno del 1947, il secondo lungometraggio di Germi ne è il protagonista indiscusso e forse ottiene il nulla osta, nel gennaio del 1948, anche grazie a questa imponente mobilitazione. […] Fra gli argomenti adoperati sia nella lettera di protesta dei registi e intellettuali dello spettacolo, sia dalla stampa che interviene in difesa di Gioventù perduta, colpisce anzitutto l’equazione tra antifascismo e (neo)realismo, l’annessione indiscussa di ogni buon film al cinema (neo)realista e la convinzione che la censura voglia colpire proprio quel cinema, di cui Andreotti incarna il nemico per eccellenza. […] A disturbare fu invece soprattutto l’equazione tra delinquenza e borghesia […]. Gioventù perduta sembra voler illustrare lo sviluppo di una delinquenza giovanile di estrazione colta e borghese. Qui il giovane ‘perduto’ non è spinto dal bisogno, bensì dal desiderio di denaro; non fugge la fame, bensì vuole sottrarsi alla mortificazione del razionamento postbellico […]. Non a caso il film verrà considerato il capostipite di uno specifico filone transnazionale, che con I vinti (1953) di Michelangelo Antonioni e Gioventù bruciata (1955) di Nicholas Ray segnerà gli anni Cinquanta. A quel tempo [Germi] è un cinefilo vorace che guarda soprattutto al cinema hollywoodiano, da poco tornato nelle sale italiane; un cinema di cui la critica del tempo nota subito l’influenza, commentando le affinità con il genere poliziesco (ovvero noir) e le somiglianze tra Jacques Sernas e Alan Ladd […]. Ma respira ugualmente la “fresca aria della realtà”, quella del suo tempo, qui restituita attraverso la cronaca a cui si ispira il soggetto; e questo basta alla stessa critica per inserirlo nella corrente (neo)realista. Perché è vero che Gioventù perduta racconta “una storia tipica del dopoguerra”, intrecciata fra l’altro a una riflessione sulle colpe dei padri, se non del fascismo.

Elena Dagrada, Un inizio contro. Censura e scrittura in “Gioventù perduta”, in Il cinema di Pietro Germi, a cura di Luca Malavasi ed Emiliano Morreale, Edizioni di Bianco e Nero/ Edizioni Sabinæ, Roma 2016

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Sembra di guardare un noir americano e anche ben fatto. E invece dietro la macchina da presa c'è l'italianissimo Pietro Germi, al suo secondo lungometraggio. Il film gira in tutte le sue componenti e Germi si conferma abile nel muoversi dentro gialli e thriller. Il suo film è un drammone intenso, bello e crudele, ed è tra i primi ad affrontare il tema della criminalità di stampo borghese. Bravi Massimo Girotti e Jacques Sernas, nei panni dell'odioso protagonista.

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…Da una sceneggiatura collettiva a cui han preso parte nomi illustri del cinema italiano come Mario Monicelli, Antonio Pietrangeli, Leopoldo Trieste, lo stesso Pietro Germi ed altri ancora, Gioventù perduta mescola con felici intuizioni narrative il noir classico con lo stile neorealista intento a farsi carico di descrivere un disagio di una generazione degli anni del dopoguerra, sin troppo facilmente proiettata sulle illusioni del vivere facile e al di sopra delle proprie possibilità.

Premiato come miglior film e miglior attore straniero in un film italiano (relativamente all'interpretazione lodevole di Jacques Sernas, in grado di dar vita ad un personaggio dai molti risvolti e dalle mille sfaccettature, quasi tutte rivolte verso il male), Gioventù perduta anticipa le tematiche di molto cinema futuro impegnato a dedicarsi al disagio dell'età giovanile, al baratro a cui sono destinate certe esistenze illuse a tal punto dai progetti di un facile arricchimento, da inoltrarsi con deliberata imprudenza verso la strada senza ritorno del crimine più efferato e crudele.

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Direttamente da uno dei momenti più drammaticamente dinamici della storia italiana (il primo dopoguerra), Pietro Germi con la fascinazione del 'nero' americano riesce a congelare il periodo. Un periodo di passaggio, di trasformazione, di disagio. E proprio attraverso l'inquietudine del futuro imprevedibile inserito nello schema cinematografico d'oltreoceano, l'intreccio si apre anche ad una visione morale, esistenziale, sociale. La generazione testimone dell'abbassamento di umanità durante la guerra non riesce più a trovare una bussola per orientarsi nel mare del nichilismo e del cinismo. E si perde. Quando gli ideali crollano, le basi su cui poggiavano lasciano intravedere il vuoto. La visione ora dunque si fa drammatica e l'unica cosa che rimane è l'accumulo di denaro e oggetti preziosi, anticipando le 'depravazioni' consumistiche del boom economico. Gioventù Perduta è un film duro, schematico che dietro alla pura azione cela un pessimismo disturbante, avvolgente, come avvolge e inghiotte l'oscuro gorgo dei titoli iniziali che fin dal principio inghiotte lo sguardo dello spettatore.

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mercoledì 18 giugno 2025

Californie - Alessandro Cassigoli, Casey Kauffman

una ragazzina, marocchina, figlia d'immigrati, lascia la scuola, lavora nel salone di parrucchiera di Jasmine, a Torre Annunziata, cerca la sua strada.

è una scugnizza che cresce e a tredici ann iè gia una donna adulta, per maturità e responsabilità.

Jamila è bravissima, come non fare il tifo per lei?

buona (adolescente) visione - Ismaele

 

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay   



 

Girato sempre accanto a Khadija/Jamila, visivamente curato e naturalistico come un documentario, neorealista e armoniosamente connivente con i corpi messi in scena, Californie non indulge neanche per un istante nel mostrare il «contesto disagiato», è molto distante da qualsivoglia pietismo ed è condito al contrario da tanta (magari amara) ironia. Basti pensare che il titolo del film deriva dall’insegna, mal eseguita, del negozio della parrucchiera cui Jamila presta servizio e che si doveva chiamare «California» ma la cui targa è stata declinata erroneamente al plurale. Certo il contrasto tra le strade di Los Angeles e il negozio di Torre Annunziata è programmatico anche nel misurare la distanza ambientale, ma Californie non è una storia di marginalità portata in scena con toni spenti ma anzi un racconto vivo, pulsante, punteggiato di scene persino comiche (come il finto mal di denti della protagonista) che volgono poi a una conclusione ineluttabilmente mesta, al risultato non voluto, come quella targa sbagliata appunto. I cambi di registro ben calibrati e i contrasti tra intenzioni e risultati lasciano talvolta un groppo in gola senza ricattare lo spettatore e al contrario divertendolo nel seguire le peripezie della nostra eroina. Il film è capace di coinvolgere e far immergere, in soli 80′, nelle “fasi” dell’esistenza di Jamila scandite in momenti che, messi in fila, inanellano a dire il vero una serie di disillusioni ma senza drammatizzarle pateticamente e tenendo fermo un solo climax emotivo (la conversazione con l’assistente sociale) da cui scaturisce una maturazione che avvicina affettivamente Jamila alla famiglia, ai cui problemi spesso non pare aver prestato troppa attenzione come capita del resto a tutti i ragazzini. Jamila esibisce sfrontatezza, sicurezza, ha sempre la battuta pronta ma è una persona che deve trovare la propria misura e ogni nuovo inizio, compreso ovviamente il finale, è ancora relativo e parziale sebbene le strettoie del tempo limitino di anno in anno le possibilità. Un bel documentario di creazione giocato sui contrasti sentimentali, su incongruità narrate con grazia, che parte dalla verità della protagonista per intessere un coming of age vero e proprio cui, in ogni caso, la giovane Khadija Jaafari dà corpo e voce in maniera incisiva, spontanea e ricchissima di sfumature.…

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…Sulla vita reale, che potrebbe essere tale per migliaia di migranti senza cittadinanza e un impiego ben retribuito in Italia, Cassigoli-Kauffman innestano l’invenzione, una storia d’amore, i selfie, la parrucchiera, i Tik-Tok di una ragazzina tredicenne. Si capisce bene che i termini documentario e fiction potrebbero essere usati relativamente quando l’idea drammaturgica è tanto vicina alla vita quotidiana, alla sua sensibilità imprevedibile e brusca. Anche il tempo nel film rispetta la realtà che gli sta di fronte, per questo è diviso in quattro capitoli che corrispondono all’età di Jamila che avanza come un conteggio verso la maturità, l’indipendenza, verso l’immagine incipitaria che si apre al futuro.

In Italia l’interesse verso le ultime generazioni di immigrati, gli ambienti marginali e le periferie suburbane, con i problemi, a loro connessi, di criminalità, solitudine sociale, assenza delle istituzioni (basti pensare a Sole di Carlo Sironi, in concorso due anni fa a Venezia) non è cosa nuova, ma Californie, con un approccio documentaristico da film picaresco, lo fa con onestà etica e di sguardo. Le riprese, la maggior parte a mano, non vengono patinate, le parole messe in bocca o improvvisate dai protagonisti attingono da una tragedia che in Italia esiste e deve essere mostrata: il vocabolario e le prospettive sono quelle di persone che costantemente soffrono il conflitto tra la volontà di integrarsi e il rigetto, di questa volontà, da parte dello Stato. Lo sguardo di Jamila non è retorico, colpisce come un pugno, e Cassigoli-Kauffman lo hanno capito.

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I sogni e la realtà. Non solo di una bambina immigrata in Italia, ma i sogni di tutti noi nel passaggio dall'infanzia all'adolescenza.  Jamila, la protagonista marocchina, viene seguita nella sua crescita e bellezza dalla telecamera per ben 5 anni. Individuata dal regista durante le riprese del precedente film, il suo sguardo intenso ha quasi imposto la tessitura su di lei di una trama a metà strada tra realtà e finzione, raccontandoci la sua voglia di riscatto (attraverso la palestra e il pugilato) unita a quella di scappare da Torre Annunziata. Sì, sarò grande nel pugilato, una campionessa, e allora sì che mi vorranno come amica, anzi faranno a gara per avermi nel loro gruppo. È così che Jamila immagina il suo futuro da piccola, fingendo di parlare al telefono con qualcuno che la capisca. Ma nessuno la vuole come amica, a scuola, anzi la deridono e la chiamano pidocchiosa, puzzolente,  e lei ne soffre come un cane. Andrà avanti isolata e decisa a tornarsene in Marocco, sperando di racimolare i soldi del biglietto in qualche modo. Possibile? Certo che no. Anche se li avesse, i soldi, nessuno organizzerebbe il viaggio ad una minorenne. Meglio quindi lasciare la scuola e farsi assumere come apprendista parrucchiera e poi..... Sogni, sogni e speranze, speranze e vita reale si intrecciano nel suo giovane cuore mentre le belle riprese documentaristiche in 4:3 ci suggeriscono che i suoi sogni, come tanti sogni di tutti noi, non vedranno mai la luce.

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lunedì 16 giugno 2025

Antonia. - Ferdinando Cito Filomarino

l'ottima opera prima di Ferdinando Cito Filomarino (pronipote di Luchino Visconti) è dedicata alla poetessa Antonia Pozzi, suicida a 27 anni.

Antonia è una ragazza sensibile, s'innamorava di tutto/i (per citare Fabrizio De Andrè), ma l'unica musica è una canzone di Piero Ciampi.

Antonia ama da studentessa la scuola, la letteratura, insegna anche in un liceo.

è benestante, è esigente con se stessa e gli altri, tutta gente che non ha tempo per lamore, lei ama, spesso non corrisposta come vorrebbe, e scrive, affida i suoi pensieri ai quaderni, scrive poesie (che verranno pubblicate solo dopo la sua morte).

il film non "recita" le sue poesie, il regista ne mostra alcune.

Linda Caridi (che interpreta Antonia) è bravissima, non urla, soffre in silezio, non vuole disturbare nessuno.

cercatelo, non vi deluderà.

buona (poetica) visione - Ismaele

 

 

 

 

il bello del film di Cito Filomarino è che ne rispetta il mistero, non sforzandosi mai di dare una spiegazione psicologistica o sociologistica al malessere di Antonia, mostrandocelo pudicamente, e basta. Con tocchi lievi e allusioni, con molti silenzi e scarne parole, si pensi solo a come il regista risolve la disperazione di Antonia che, dietro una vetrata liberty, sente il colloquio con cui il padre liquida ogni possibilità di una relazione tra lei e un suo insegnante. Succederà ancora, perché il destino di Antonia sembra quello di non essere mai riamata. Intorno a lei nomi che saranno famosi, Remo Cantoni, il maître à penser Antonio Banfi, il futuro poeta Vittorio Sereni. Eppure Antonia non riesce a farsi prendere sul serio e a pubblicare le sue poesie, restando un’incompresa, un’inconclusa, un’incompiuta. Non c’è mai dramma, né tantomeno patetismo in questo film, che sceglie l’osservazione partecipe ma da lontano del suo personaggio. Il tono dominante è quello del rigore, e del pudore. Si tende alla sottrazione, a rischio di sfiorare l’anoressia espressiva. La vita di Antonia Pozzi ci scorre davanti come implosa, più mostrata che rappresentata, in un understatement molto milanese, molto lombardo, poco italiano. Qui non si urla, non si esagera, non si piange, neanche quando si decide di ammazzarsi. Una milanesità che Cito Filomarino riesce a trasmettere perché evidentemente la conosce bene. Tutto è credibile. Quella casa a Pasturo, in Valsassina. Quell’amore così aristo-milanese per le montagne, per l’arrampicata (lo sport più bello e nobile del mondo). Quelle passeggiate nelle campagne di Lombardia dove ti sembra di sentire scorrere l’acqua delle rogge (e mi vengono in mente certe scene analoghe di La monaca di Monza, film di un altro regista di casa, Eriprando Visconti). Si allude pudicamente anche a una possibile attrazione omosessuale di Antonia per l’amica Teresita, ma non aspettatevi scene calde, non ce ne sono. La protagonista resta fino alla fine un mistero, un inafferrabile ectoplasma. Film anomalo, fin troppo trattenuto per la media del nostro cinema…

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Il film ha un cuore ed è una scena lunga quanto una canzone: Antonia è di spalle adagiata su un fianco, nuda, con le gambe rannicchiate invisibili e il viso girato di profilo verso lo spettatore; non è sola… la voce e la musica di Piero Ciampi irrompono e l’accompagnano, si tratta dell’interpretazione di Va, canzone  del  1976 (musica di Gianni Marchetti), il pezzo realizza un incontro perfetto. I versi dipanano il racconto. C’è la forza e la dolcezza, ci sono sguardi e immaginazione, è presente poesia e musica, e tutto sembra attraversare il corpo, tutto passa attraverso esso anche le parole stesse della canzone che ne sono amplificate nel senso. È il corpo della poetessa o della poesia? È una magia che il regista compie e a cui va riconosciuto merito per originalità e coraggio insieme. È lì che il film diventa opera (e pensare che si tratta di opera prima!)…

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Antonia si situa così in una sorta di terra di nessuno: produzione media senza essere ricca, anti-televisiva per concezione e per ritmo narrativo, popolata da volti poco noti, rigorosamente ellittica nel racconto. Sarà forse per questo suo volersi porre in disparte che il film s’è finora visto poco e che, anche al Festival di Torino, è passato quasi sotto silenzio, tra l’altro fuori concorso, mentre avrebbe meritato senz’altro la competizione internazionale.

Raccontando la vicenda di Antonia Pozzi, poetessa vissuta negli anni del fascismo e morta suicida a soli ventisei anni, Filomarino aderisce a un’esistenza inquieta e febbrile mettendola a confronto con l’atmosfera ovattata degli anni del regime. Tutto è rigido e sbiadito, con il padre di lei che marcisce nello studio e con i potenziali innamorati che sono guidati più da una forma esasperata di auto-controllo che dalla passione; mentre al contrario Antonia vorrebbe fortissimamente vivere, vorrebbe scardinare l’esistere, ma istintivamente e quasi senza intenzione, non sapendo che ogni smottamento d’equilibrio nella società del Ventennio è impossibile. Infatti, anche se non vi sono riferimenti diretti al regime fascista, Filomarino sembra alludervi con costanza, arrivando a disegnare una sorta di cappa invisibile che irrigidisce l’esistere e che rende, ad esempio, inaccettabile il trasporto con cui Antonia bacia appassionatamente una sua amica.

Niente scandali comunque in Antonia: la giovane viene sempre tenuta a freno e controllata, tanto che quando esagera sono proprio le persone che dovrebbero esserle più vicine a giudicarla negativamente (si pensi ancora all’episodio dell’amica che, una volta ricevuto il bacio da Antonia, scappa a gambe levate).
Solo in montagna o nella solitudine della sua stanza la giovane ha l’impressione a tratti di trovare la piena espressione del vivere o, almeno, di potersi concedere di essere sincera con se stessa e con l’abisso esistenziale. I monti dalla vegetazione rada e dall’aria austera regalano un senso di vuoto, in cui la protagonista si muove come nei meandri della sua mente, mentre la stanza non è mai abbastanza accogliente e calda – grazie sempre alla fotografia di Sayombhu Mukdeeprom – e, anzi, è disperatamente ingannevole, come dimostra la mirabile sequenza in cui Antonia, piangendo, si dimena nuda sul letto mentre si sente come commento extradiegetico la meravigliosa canzone di Piero Ciampi Va. In questo frammento c’è la sintesi perfetta del film e la dimostrazione dell’ottimo lavoro fatto da Filomarino: si può e si deve osare, anche e soprattutto nel nostro ovattato sistema cinematografico.

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Il cinema “neonato”di Ferdinando Cito Filomarino, al suo esordio nel lungo dopo il cortometraggio Diarchia, è già capace di fondere in sé la preparazione e la sensibilità di un giovane intellettuale della cultura, non tanto genericamente umanistica, quanto specificatamente letteraria, figurativa, storica e musicale senza dimenticare l'afflato e la passione per le traiettorie del piacere cinematografico. Un cinema però che non segue una linea narrativa tradizionale ma che crea il racconto attraverso la concentrazione di diverse voci, immagini, frammenti, per trarne un mosaico policromo, un concerto polifonico dove la bellezza è qualità essenziale del mondo e la vera sfida, completamente riuscita, per il regista giace nel coraggio di filmarne la naturale poesia.

Antonia è un film dove lo spettatore è chiamato a cogliere qualcosa di diverso, a evocare: nessun pertugio di speranza, nessun approdo rasserenante, dove si è addirittura indotti a pensare che in questa vicenda di vita e di morte non sia rintracciabile alcuna ragione ma, in Antonia Pozzi, la consapevolezza del proprio dramma esistenziale coesiste con la percezione della bellezza della vita e della natura e dunque, cessata la forza e la capacità di coglierla, non resta che scegliere l'oblio e affidarsi all'auspicio della luce fioca ma avvolgente della speranza di una rinascita.

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domenica 15 giugno 2025

Come gocce d'acqua - Stefano Chiantini

il film si regge sopratutto sulle spalle di Sara Silvestro (Jenny) e Edoardo Pesce (Alvaro), figlia e padre che si ritrovano dopo anni di freddezza, sopratutto da parte della figlia nuotatrice, che tiene a distanza il padre, ancora non sa tutta la storia familiare. 

quando il babbo si ammala e diventa sempre più debole, e con un'autonomia fisica sempre più limitata, Jenny farà la sua parte, come fa una brava figlia.

un altro piccolo film italiano (dopo Nero) che riesce a coinvolgere ed emozionare, non facile da vedere, è solo in una trentina di sale.

buona (filiale) visione - Ismaele


 


 

Ancora una volta, il lavoro sullo spazio e sul tempo è determinante, in quanto sembra che Alvaro e Jenny si muovano tra un alternarsi senza soluzione di continuità di albe e tramonti, quasi a voler contestualizzare il loro trovarsi a metà strada tra la possibilità di un inizio e l’ineluttabilità di una fine. Non c’è nessuna sensazione di preordinato, di fatale o fatalistico, ogni conseguenza è riportata ad una scelta. Alvaro è un gaudente insofferente a qualsiasi indicazione di uno stile di vita sano, Jenny ha una malcelata testardaggine che spesso la rende respingente e solitaria, Margherita, la madre, si mostra a tratti sfuggente e manipolatrice (probabilmente per non affrontare in maniera diretta le responsabilità di un segreto/bugia troppo pesante). Questo intreccio di vissuti e comportamenti è risolto su un piano non di catartica elaborazione attraverso la parola e il dialogo, ma riguarda l’espressione dei sentimenti per mezzo della rappresentazione di un paesaggio sul confine tra l’indefinito orizzonte del mare e l’astrattezza da non luoghi di alcuni paesaggi urbani, in particolare le stazioni di servizio e i ballatoi dei palazzi nei sobborghi delle città.

Come i personaggi, anche le ambientazioni non sono strettamente e riconoscibilmente connotate a livello geografico, ma diventano la trasfigurazione delle prigioni in cui possono trasformarsi alcuni rapporti oppure delle inattese via di fuga e di libertà che possono aprire. Rispetto alla lettura di questo potenziale, la resa effettiva non è sempre all’ altezza e il rischio di un respiro un po’ asfittico del racconto e dello sguardo si manifesta lasciando in alcuni punti l’impressione di un giro vuoto.

Prevale però l’affetto con cui Chiantini si rivolge alle tenui figure di questa umanità in balia delle maree, alle tentano di opporre una forma di resistenza dei sentimenti. E la schiettezza di un cinema italiano che alla ricerca dell’effetto preferisce il pudore della sottrazione.

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Il rapporto frastagliato dei due protagonisti non sfugge mai alla macchina da presa che li pedina costantemente. Anche grazie ad un montaggio serrato, lo spettatore può entrare in simbiosi con i personaggi.  L’occhio attento del regista cattura attentamente gli sguardi dei protagonisti senza emettere giudizi. Grazie a questa prospettiva sempre distante il film non inciampa mai in risvolti narrativi fastidiosamente retorici…

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Come gocce d'acqua è un film volutamente piccolo e intimo che mette in scena una vita di provincia - Roma viene evocata come metropoli in cui realizzarsi sportivamente ma non compare mai -, ripresa nei suoi spazi anonimi e impersonali (il ristretto ambiente domestico, la piscina da competizione e quella per la riabilitazione, il discount dove lavora la madre, lo spicchio di spiaggia poco frequentato). Consapevolmente a metà strada tra il lato drammatico della convivenza con la sopravvenuta disabilità di Alvaro e la vestale espiazione di Jenny che diventa la badante del genitore, Chiantini non stacca mai la sua MdP dai suoi personaggi. E anche se in alcuni passaggi le musiche di Piernicola Di Muro smentiscono con la loro grave retoricità l’andamento altrimenti discreto della scrittura e della regia, il film non giudica mai i suoi protagonisti concedendo loro di riaggiustare una rotta morale ubertosa e umbratile. Così il colpo di scena sulla paternità di Alvaro che in altre mani sarebbe sicuramente risultato un espediente manualistico qui arriva invece con delicatezza ad aggiungere complicazione nell’anima semplice e buona di Jenny. Come gocce d’acqua è un lungometraggio che indaga allora la forza di un legame familiare che proprio nel momento di maggior difficoltà esce in superficie con insospettato vigore, come fa la protagonista ad ogni bracciata sia quando gareggia che quando si tuffa in piscina per schiarirsi i pensieri. Fiero di essere un prodotto medio ma profondamente sincero, l’opera di Chiantini merita sicuramente la visione perché permette allo spettatore medio di tornare ad immedesimarsi in queste esistenze fragili eppure, nonostante le avversità, ancora tenacemente buone. E il finale aperto, con quella passeggiata chiaroscurale dopo il tentativo da parte di Alvaro di lasciarsi inghiottire dalle onde rammenta che in realtà quel movimento delle acque, anche mitologicamente, ha più spesso portato la vita che tolta.

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