lunedì 16 giugno 2025

Antonia. - Ferdinando Cito Filomarino

l'ottima opera prima di Ferdinando Cito Filomarino (pronipote di Luchino Visconti) è dedicata alla poetessa Antonia Pozzi, suicida a 27 anni.

Antonia è una ragazza sensibile, s'innamorava di tutto/i (per citare Fabrizio De Andrè), ma l'unica musica è una canzone di Piero Ciampi.

Antonia ama da studentessa la scuola, la letteratura, insegna anche in un liceo.

è benestante, è esigente con se stessa e gli altri, tutta gente che non ha tempo per lamore, lei ama, spesso non corrisposta come vorrebbe, e scrive, affida i suoi pensieri ai quaderni, scrive poesie (che verranno pubblicate solo dopo la sua morte).

il film non "recita" le sue poesie, il regista ne mostra alcune.

Linda Caridi (che interpreta Antonia) è bravissima, non urla, soffre in silezio, non vuole disturbare nessuno.

cercatelo, non vi deluderà.

buona (poetica) visione - Ismaele

 

 

 

 

il bello del film di Cito Filomarino è che ne rispetta il mistero, non sforzandosi mai di dare una spiegazione psicologistica o sociologistica al malessere di Antonia, mostrandocelo pudicamente, e basta. Con tocchi lievi e allusioni, con molti silenzi e scarne parole, si pensi solo a come il regista risolve la disperazione di Antonia che, dietro una vetrata liberty, sente il colloquio con cui il padre liquida ogni possibilità di una relazione tra lei e un suo insegnante. Succederà ancora, perché il destino di Antonia sembra quello di non essere mai riamata. Intorno a lei nomi che saranno famosi, Remo Cantoni, il maître à penser Antonio Banfi, il futuro poeta Vittorio Sereni. Eppure Antonia non riesce a farsi prendere sul serio e a pubblicare le sue poesie, restando un’incompresa, un’inconclusa, un’incompiuta. Non c’è mai dramma, né tantomeno patetismo in questo film, che sceglie l’osservazione partecipe ma da lontano del suo personaggio. Il tono dominante è quello del rigore, e del pudore. Si tende alla sottrazione, a rischio di sfiorare l’anoressia espressiva. La vita di Antonia Pozzi ci scorre davanti come implosa, più mostrata che rappresentata, in un understatement molto milanese, molto lombardo, poco italiano. Qui non si urla, non si esagera, non si piange, neanche quando si decide di ammazzarsi. Una milanesità che Cito Filomarino riesce a trasmettere perché evidentemente la conosce bene. Tutto è credibile. Quella casa a Pasturo, in Valsassina. Quell’amore così aristo-milanese per le montagne, per l’arrampicata (lo sport più bello e nobile del mondo). Quelle passeggiate nelle campagne di Lombardia dove ti sembra di sentire scorrere l’acqua delle rogge (e mi vengono in mente certe scene analoghe di La monaca di Monza, film di un altro regista di casa, Eriprando Visconti). Si allude pudicamente anche a una possibile attrazione omosessuale di Antonia per l’amica Teresita, ma non aspettatevi scene calde, non ce ne sono. La protagonista resta fino alla fine un mistero, un inafferrabile ectoplasma. Film anomalo, fin troppo trattenuto per la media del nostro cinema…

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Il film ha un cuore ed è una scena lunga quanto una canzone: Antonia è di spalle adagiata su un fianco, nuda, con le gambe rannicchiate invisibili e il viso girato di profilo verso lo spettatore; non è sola… la voce e la musica di Piero Ciampi irrompono e l’accompagnano, si tratta dell’interpretazione di Va, canzone  del  1976 (musica di Gianni Marchetti), il pezzo realizza un incontro perfetto. I versi dipanano il racconto. C’è la forza e la dolcezza, ci sono sguardi e immaginazione, è presente poesia e musica, e tutto sembra attraversare il corpo, tutto passa attraverso esso anche le parole stesse della canzone che ne sono amplificate nel senso. È il corpo della poetessa o della poesia? È una magia che il regista compie e a cui va riconosciuto merito per originalità e coraggio insieme. È lì che il film diventa opera (e pensare che si tratta di opera prima!)…

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Antonia si situa così in una sorta di terra di nessuno: produzione media senza essere ricca, anti-televisiva per concezione e per ritmo narrativo, popolata da volti poco noti, rigorosamente ellittica nel racconto. Sarà forse per questo suo volersi porre in disparte che il film s’è finora visto poco e che, anche al Festival di Torino, è passato quasi sotto silenzio, tra l’altro fuori concorso, mentre avrebbe meritato senz’altro la competizione internazionale.

Raccontando la vicenda di Antonia Pozzi, poetessa vissuta negli anni del fascismo e morta suicida a soli ventisei anni, Filomarino aderisce a un’esistenza inquieta e febbrile mettendola a confronto con l’atmosfera ovattata degli anni del regime. Tutto è rigido e sbiadito, con il padre di lei che marcisce nello studio e con i potenziali innamorati che sono guidati più da una forma esasperata di auto-controllo che dalla passione; mentre al contrario Antonia vorrebbe fortissimamente vivere, vorrebbe scardinare l’esistere, ma istintivamente e quasi senza intenzione, non sapendo che ogni smottamento d’equilibrio nella società del Ventennio è impossibile. Infatti, anche se non vi sono riferimenti diretti al regime fascista, Filomarino sembra alludervi con costanza, arrivando a disegnare una sorta di cappa invisibile che irrigidisce l’esistere e che rende, ad esempio, inaccettabile il trasporto con cui Antonia bacia appassionatamente una sua amica.

Niente scandali comunque in Antonia: la giovane viene sempre tenuta a freno e controllata, tanto che quando esagera sono proprio le persone che dovrebbero esserle più vicine a giudicarla negativamente (si pensi ancora all’episodio dell’amica che, una volta ricevuto il bacio da Antonia, scappa a gambe levate).
Solo in montagna o nella solitudine della sua stanza la giovane ha l’impressione a tratti di trovare la piena espressione del vivere o, almeno, di potersi concedere di essere sincera con se stessa e con l’abisso esistenziale. I monti dalla vegetazione rada e dall’aria austera regalano un senso di vuoto, in cui la protagonista si muove come nei meandri della sua mente, mentre la stanza non è mai abbastanza accogliente e calda – grazie sempre alla fotografia di Sayombhu Mukdeeprom – e, anzi, è disperatamente ingannevole, come dimostra la mirabile sequenza in cui Antonia, piangendo, si dimena nuda sul letto mentre si sente come commento extradiegetico la meravigliosa canzone di Piero Ciampi Va. In questo frammento c’è la sintesi perfetta del film e la dimostrazione dell’ottimo lavoro fatto da Filomarino: si può e si deve osare, anche e soprattutto nel nostro ovattato sistema cinematografico.

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Il cinema “neonato”di Ferdinando Cito Filomarino, al suo esordio nel lungo dopo il cortometraggio Diarchia, è già capace di fondere in sé la preparazione e la sensibilità di un giovane intellettuale della cultura, non tanto genericamente umanistica, quanto specificatamente letteraria, figurativa, storica e musicale senza dimenticare l'afflato e la passione per le traiettorie del piacere cinematografico. Un cinema però che non segue una linea narrativa tradizionale ma che crea il racconto attraverso la concentrazione di diverse voci, immagini, frammenti, per trarne un mosaico policromo, un concerto polifonico dove la bellezza è qualità essenziale del mondo e la vera sfida, completamente riuscita, per il regista giace nel coraggio di filmarne la naturale poesia.

Antonia è un film dove lo spettatore è chiamato a cogliere qualcosa di diverso, a evocare: nessun pertugio di speranza, nessun approdo rasserenante, dove si è addirittura indotti a pensare che in questa vicenda di vita e di morte non sia rintracciabile alcuna ragione ma, in Antonia Pozzi, la consapevolezza del proprio dramma esistenziale coesiste con la percezione della bellezza della vita e della natura e dunque, cessata la forza e la capacità di coglierla, non resta che scegliere l'oblio e affidarsi all'auspicio della luce fioca ma avvolgente della speranza di una rinascita.

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domenica 15 giugno 2025

Come gocce d'acqua - Stefano Chiantini

il film si regge sopratutto sulle spalle di Sara Silvestro (Jenny) e Edoardo Pesce (Alvaro), figlia e padre che si ritrovano dopo anni di freddezza, sopratutto da parte della figlia nuotatrice, che tiene a distanza il padre, ancora non sa tutta la storia familiare. 

quando il babbo si ammala e diventa sempre più debole, e con un'autonomia fisica sempre più limitata, Jenny farà la sua parte, come fa una brava figlia.

un altro piccolo film italiano (dopo Nero) che riesce a coinvolgere ed emozionare, non facile da vedere, è solo in una trentina di sale.

buona (filiale) visione - Ismaele


 


 

Ancora una volta, il lavoro sullo spazio e sul tempo è determinante, in quanto sembra che Alvaro e Jenny si muovano tra un alternarsi senza soluzione di continuità di albe e tramonti, quasi a voler contestualizzare il loro trovarsi a metà strada tra la possibilità di un inizio e l’ineluttabilità di una fine. Non c’è nessuna sensazione di preordinato, di fatale o fatalistico, ogni conseguenza è riportata ad una scelta. Alvaro è un gaudente insofferente a qualsiasi indicazione di uno stile di vita sano, Jenny ha una malcelata testardaggine che spesso la rende respingente e solitaria, Margherita, la madre, si mostra a tratti sfuggente e manipolatrice (probabilmente per non affrontare in maniera diretta le responsabilità di un segreto/bugia troppo pesante). Questo intreccio di vissuti e comportamenti è risolto su un piano non di catartica elaborazione attraverso la parola e il dialogo, ma riguarda l’espressione dei sentimenti per mezzo della rappresentazione di un paesaggio sul confine tra l’indefinito orizzonte del mare e l’astrattezza da non luoghi di alcuni paesaggi urbani, in particolare le stazioni di servizio e i ballatoi dei palazzi nei sobborghi delle città.

Come i personaggi, anche le ambientazioni non sono strettamente e riconoscibilmente connotate a livello geografico, ma diventano la trasfigurazione delle prigioni in cui possono trasformarsi alcuni rapporti oppure delle inattese via di fuga e di libertà che possono aprire. Rispetto alla lettura di questo potenziale, la resa effettiva non è sempre all’ altezza e il rischio di un respiro un po’ asfittico del racconto e dello sguardo si manifesta lasciando in alcuni punti l’impressione di un giro vuoto.

Prevale però l’affetto con cui Chiantini si rivolge alle tenui figure di questa umanità in balia delle maree, alle tentano di opporre una forma di resistenza dei sentimenti. E la schiettezza di un cinema italiano che alla ricerca dell’effetto preferisce il pudore della sottrazione.

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Il rapporto frastagliato dei due protagonisti non sfugge mai alla macchina da presa che li pedina costantemente. Anche grazie ad un montaggio serrato, lo spettatore può entrare in simbiosi con i personaggi.  L’occhio attento del regista cattura attentamente gli sguardi dei protagonisti senza emettere giudizi. Grazie a questa prospettiva sempre distante il film non inciampa mai in risvolti narrativi fastidiosamente retorici…

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Come gocce d'acqua è un film volutamente piccolo e intimo che mette in scena una vita di provincia - Roma viene evocata come metropoli in cui realizzarsi sportivamente ma non compare mai -, ripresa nei suoi spazi anonimi e impersonali (il ristretto ambiente domestico, la piscina da competizione e quella per la riabilitazione, il discount dove lavora la madre, lo spicchio di spiaggia poco frequentato). Consapevolmente a metà strada tra il lato drammatico della convivenza con la sopravvenuta disabilità di Alvaro e la vestale espiazione di Jenny che diventa la badante del genitore, Chiantini non stacca mai la sua MdP dai suoi personaggi. E anche se in alcuni passaggi le musiche di Piernicola Di Muro smentiscono con la loro grave retoricità l’andamento altrimenti discreto della scrittura e della regia, il film non giudica mai i suoi protagonisti concedendo loro di riaggiustare una rotta morale ubertosa e umbratile. Così il colpo di scena sulla paternità di Alvaro che in altre mani sarebbe sicuramente risultato un espediente manualistico qui arriva invece con delicatezza ad aggiungere complicazione nell’anima semplice e buona di Jenny. Come gocce d’acqua è un lungometraggio che indaga allora la forza di un legame familiare che proprio nel momento di maggior difficoltà esce in superficie con insospettato vigore, come fa la protagonista ad ogni bracciata sia quando gareggia che quando si tuffa in piscina per schiarirsi i pensieri. Fiero di essere un prodotto medio ma profondamente sincero, l’opera di Chiantini merita sicuramente la visione perché permette allo spettatore medio di tornare ad immedesimarsi in queste esistenze fragili eppure, nonostante le avversità, ancora tenacemente buone. E il finale aperto, con quella passeggiata chiaroscurale dopo il tentativo da parte di Alvaro di lasciarsi inghiottire dalle onde rammenta che in realtà quel movimento delle acque, anche mitologicamente, ha più spesso portato la vita che tolta.

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sabato 14 giugno 2025

Risate di Gioia - Mario Monicelli

Anna Magnani, Totò e Ben Gazzara sono dei perdenti, in una notte, l'ultima dell'anno, vorrebbero svoltare, ma non cambia mai niente.

non sarà un capolavoro, ma vedere Anna Magnani e Totò insieme, per la prima volta in un film, è un regalo senza prezzo.

guardatelo e godetene tutti.

buona (ladresca) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, in italiano

 

 

Titolo chiave nella filmografia di Monicelli, regista che ha dato sempre il meglio di sè nell'agro, sensibile nel mostrar la tristezza che la risata comunque maschera. Eccolo qui, grazie all'aiuto in sceneggiatura della Signora Suso e dei grandi Age/Scarpelli, ricostituire la coppia Totò-Magnani per ridarceli non più come icone impresse nella pellicola ma come comparse della vita: soli, inadeguati, costretti a difendere la lorò dignità con unghie laccate e pochi denti. Un film in cui tutti "recitano" una parte dall'inizio alla fine. Crepuscolare e finale.

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Il talento di due mostri sacri e la complicità della Magnani con Totò, frutto di anni di lavoro insieme a teatro, genera una commedia brillante dal sapore agrodolce, imperdibile per gli amanti del cinema puro. La cornice romana e una fotografia dai chiaroscuri di rara intensità, che ricorda un certo cinema antonionano, riflette ed evidenzia l'amaro di una vita dura ma che si ama comunque. Inutile tessere le doti della Magnani, un mito in grado di impressionare quanto a realismo delle sue interpretazioni, mentre Totò è magia pura. Grande cinema.

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Anni fa, leggendo una biografia su Anna Magnani, rimasi colpito dalla riportata freddezza di cui parlava sui rapporti con Totò, con cui avevano iniziato la carriera nell'avanspettacolo. In particolare, del fatto che esistesse un solo film che li vede entrambi protagonisti ("Risate di gioia" di Monicelli),raccontando delle difficoltà di far lavorare insieme due "primedonne" del cinema. A dire il vero, avendo avuto recentemente la possibilità di vedere il film, questa difficoltà è ben dissimulata vuoi per la trama scoppiettante vuoi per l'estrema professionalità di due dei più grandi attori del cinema italiano. Inoltre il film è veramente gradevole, un insieme di equivoci e rocambolesche avventure di un terzetto di "disperati" (oltre a Totò e la Magnani, anche un ottimo Ben Gazzara) nella notte di Capodanno. Certo, non aspettatevi il Totò esilarante di altri film (d'altro canto buona parte dei suoi film cosiddetti tardi mostrano un attore diventato più maturo e posato, ma non per questo meno comico, solo di una comicità meno pirotecnica). Una commedia degli equivoci brillante, non eccezionale nella trama, ma sicuramente godibile dall'inizio alla fine.

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C’è una distanza abissale tra Umberto e Tortorella e i vari commensali dei cenoni di fine anno, tutti arrivati, sicuri di sé e così sprezzanti. Risate di gioia, dove le risate si svelano rare nella crescente malinconia, è un film fatto di immediata semplicità che arriva dritto al suo senso più profondo, tutto controcorrente. In questa prospettiva tutti i registri sono alterati e dove ad esempio, il genio comico di Totò non si manifesta secondo i canoni consueti e forse solo Anna Magnani riafferma il suo talento multiforme nei panni però di un’altra popolana sconfitta dalla vita. È un altro controcanto di Monicelli e i suoi personaggi, che difendono la propria dignità pur nella povertà e nella sconfitta, sono il riflesso del lato oscuro di una società all’epoca opulenta. Paradossalmente questo film, dal titolo misuratamente e malinconicamente ironico, trova oggi una sua migliore collocazione temporale. In un’epoca di sconfitti solo il genio di Mario Monicelli poteva girare un film per il futuro, pienamente calato dentro la nostra società, oltre 50 anni dopo la sua (prima) uscita.

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…il film non fu un successo commerciale malgrado la presenza dei due divi e la regia del sommo Mario, che veniva dagli exploit de I soliti ignoti e de La grande guerra. I motivi sono riscontrabili nelle caratteristiche più evidenti di quest’opera rischiosa e quantomeno particolare: è un film amarissimo, spesso cattivo se non addirittura acido, disincantato, disperato. Non mi sorprende che nell’Italia che entrava nel boom economico una storia come questa (tratta da due racconti di Alberto Moravia) non abbia incontrato l’interesse del pubblico. È giusto recuperarlo per almeno tre motivi. Il primo è la struttura, avvincente benché non sempre fluida: una notte di Capodanno (all’epoca si diceva ancora San Silvestro) che inizia nella miseria di vite piccole e spiantate, prosegue come in una grande fuga a tappe per mangiare e inseguire qualche sogno di seconda mano (ristoranti, metropolitane, palazzi nobiliari) e finisce nell’alba di un giorno che inevitabilmente inizia nel peggiore dei modi.

 

Il secondo è la messinscena di Monicelli, sciolta, complessa, capace di fotografare con maestria tanto le folle (le feste rappresentate sono quasi felliniane nel senso dei Vitelloni) quanto i singoli personaggi, contraddistinta da un tono sottilmente melodrammatico senza finire nel patetismo più spiccio. Il terzo, e il più importante, è il memorabile duetto dei due protagonisti: se Anna Magnani, di ritorno dall’Oscar e dai melodrammoni americani, conferisce alla sua Gioia Fabricotti detta Tortorella, comparsa di Cinecittà, tutta la disperata vitalità di chi spera comunque che il domani offra qualcosa di diverso (ma la più grande attrice italiana d’ogni tempo non amava affatto il film), Totò, nei panni del guitto Umberto Pennazzuto, un vinto assoluto, mette a segno una delle più belle e misconosciute interpretazioni del suo percorso recitativo (mai un eccesso, mai una smorfia di troppo, mai niente fuori posto: che attore stupendo).

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mercoledì 11 giugno 2025

L'orso di peluche - Jacques Deray

ispirato a un romanzo di Simenon, il film racconta la storia di un luminare della medicina (interpretato da Alain Delon), grande t(r)ombeur de femmes.

riceve minacce, che poi si scopre dovute alla morte di un'infermiera (interpretata da Claudia Pandolfi).

intanto la sua fiamma attuale è un ballerina dj, insaziabile come lui.

la fine è inattesa e sorprendente.

niente di straordinario, un film come tanti, solo il colpo di scena finale gli dà un mezzo punto in più.

il film è ambientato a Bruxelles.

buona (belga) visione - Ismaele



QUI il film completo, in francese

 

 

Un "guru" della ginecologia, sposato ma impenitente dongiovanni, riceve una telefonata anonima che lo minaccia di morte. Dopo l'avvertimento minatorio riceve un orso di peluche che apparteneva a una sua infermiera, da lui sedotta e abbandonata, e che per questo motivo aveva posto fine al suoi giorni suicidandosi. Per il dottore è l'inizio di un incubo... La rodata coppia Delon-Derey distrugge e banalizza un romanzo di Simenon con una storia che gira a vuoto e sfiora il ridicolo attimo dopo attimo. La presenza della Dellera, poi, provvede a cancellare qualsiasi speranza.

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Jacques Deray è stato uno dei maggiori esponenti del cinema noir francese e qui, al suo ultimo film per il cinema, si avvale del fido Alain Delon e di un romanzo del solidissimo George Simenon. Chi conosce il prolifico scrittore belga sa già cosa aspettarsi: una storia più drammatica che gialla, dove un uomo viene costretto ad una indagine che più che esterna viene condotta dentro di lui e lo porterà ad una autoanalisi di se stesso piuttosto che dei suoi rapporti con le persone che lo circondano. Con un misto di umanità e di cinismo la vicenda procede lenta ma inesorabile verso un epilogo che fino alla fine non lascia spazio a previsioni. Film davvero interessante costruito su buoni dialoghi che esaltano ogni singolo personaggio. Notevole cast.

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Un affermato ginecologo e maturo playboy riceve misteriose minacce di morte assieme a un orsetto di peluche. Pessimo thriller dalla tensione nulla, che è soltanto uno squallido pretesto per mettere nello stesso letto Delon con la Dellera, all'epoca la gnocca di turno. Un discreto e insolito cast gettato completamente alle ortiche, con un Delon 58enne imbolsito e poco convinto. Certo che averlo come ginecologo è il sogno di ogni donna... Il regista Deray è qui irriconoscibile.

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lunedì 9 giugno 2025

Nero - Giovanni Esposito

arriva al cinema, miracolosamente, in tutti i sensi, un'opera prima di Giovanni Esposito, già attore in molti film.

i protagonisti (bravissimi) sono Nero (Giovanni Esposito) e Imma (Susy Del Giudice), fratello e sorella nel film (marito e moglie nella vita).

vivono in una città sul mare (il film è girato fra Mondragone e Castel Volturno), con più neri che bianchi, e la presenza della camorra non manca.

Nero cerca di andare avanti in una vita al là della legalità, e si cura della vita di Imma, un amore fraterno come pochi, la sorella malata che dipende solo da lui.

Imma ha la passione del disegno, e capisce tutto, anche se non sembra.

il film non sarà perfetto, ma non annoia mai.

a giugno le sale sono vuote, nessuno avrà problemi a trovare un posto, e nessuno si pentirà di aver visto questo film sorprendente.

buona (miracolosa) visione - Ismaele



 

 

Vorrebbe guardare il mondo come la sorella il Nero di Giovanni Esposito che qui si toglie la maschera ridereccia vista nella commedia partenopea – dal bellissimo Polvere di Napoli di Capuano a I fratelli De Filippo di Sergio Rubini – per mettersi le vesti di un (anti)eroe di provincia senza meriti o virtù.

Il risultato è un film di contrasti, fra il protagonista e la disaffezione dei luoghi (merito anche della scarna fotografia di Ciprì), il suo passato e una domanda che rintocca nella coscienza di Nero come un frastuono, un bivio inaspettato che reclama soltanto una scelta: l’ego del sé o il sacrificio per gli altri?

L’esordio di Giovanni Esposito è un film sincero, grezzo e tutt’altro che perfetto – innegabili i problemi di ritmo e una struttura in medias res che troppo presto si cala nel dramma – ma Nero ha il pregio di guardare alle forme di un sottogenere saturo come il crime meridionale e di riscriverne gli esiti verso un tenero mélo.

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Esposito interpreta anche il ruolo del protagonista, lasciando finalmente spazio a quel talentaccio che riusciva a trasparire anche dalle commedie più demenziali cui in passato ha partecipato. Con l'aiuto del direttore della fotografia Daniele Ciprì, Esposito firma un debutto originale ed elegante, benché ambientato fra macerie e vari stadi di abbrutimento.

Il suo Paride è un puro, un uomo fondamentalmente buono abituato a vivere di espedienti, con un attaccamento feroce a quella sorella che gli altri considerano solo una palla al piede, perché ha il "difetto" di essere troppo sensibile: ma il Nero non le impone le mani perché invece, dal suo punto di vista, in lei non c'è niente da curare. "È una malattia la sensibilità?", domanda retoricamente. Pur sapendo che purtroppo in certi quartieri e in certi ambienti degradati la sensibilità è un lusso che non ci si può permettere…

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Trama classica per una fiaba moderna, dove l’eroe è un disgraziato, la fata buona è una malata di mente e i cattivi sono mafiosi.
Paride, detto Nero, e sua sorella Imma hanno vissuto nell’infanzia momenti di una certa agiatezza, ma ora, adulti fatti e rimasti senza genitori, si trovano dalla parte dei perdenti della società. Lui vive commettendo furtarelli, maldestri e poco redditizi; lei è nello stato mentale di una bimba, ama disegnare ma lo fa con inquietanti premonizioni.

Tra i due c’è un legame saldissimo, tanto che Nero non si è fatto una famiglia per potersi dedicare alla sorella. Ma dietro allo stretto legame di amore fraterno si nasconde una remota, oscura e drammatica vicenda che ha portato i due a essere quello che oggi sono.
Durante una delle sue maldestre rapine, Nero per sbaglio uccide un uomo. Disperato, si china sul cadavere e poi scappa. Ma poco dopo apprende dalla TV che l’uomo in realtà è rimasto illeso. Ben presto questo miracolo viene attribuito a Nero, che però si accorge che tali prodigi hanno un prezzo che lui paga con il suo stesso corpo.

Un film bello: intenso, empatico, delicato, sensibile, ma anche capace della genuina ironia napoletana del bravissimo regista, come nella geniale trovata della “Madonna dei detersivi”…

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Un debutto alla regia che non passa inosservato, che affronta una moltitudine di problemi contemporanei senza risultare mai eccessivo. Periferia, santità, malavita, disabilità convivono tra le trame della pellicola in una danza naturale, che lascia sul fondo un intenso profumo di umanità, l’idea indissolubile del bene fraterno: atavico, indiscutibile, sincero. Legato da un filo sottilissimo e taciuto; una matassa finissima di cui alla fine si ritrova il bandolo. Finisce così Nero: due esseri poggiati sul creato, come i primi venuti al mondo (o come gli ultimi sopravvissuti). Soli in uno spazio che ci ha dimostrato di non concepire l’amore incondizionato. Eppure lo gridano. Nero lo grida fino al midollo, ce lo grida sottovoce, come chi non vuole dirci cosa fare, ma come. E ce lo mostra. Nero ci mostra come amare.

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domenica 8 giugno 2025

Días contados - Imanol Uribe

quando l'ETA era il nemico massimo dello stato spagnolo, un commando basco è in missione per compiere un attentato in una caserma della Guardia Civil.

la preparazione è accurata, ma l'amore ci mette lo zampino, oltre agli spacciatori e drogati confidenti della polizia.

Antonio si innamora di Charo, da lì nasce la tragedia.

un film che non delude.

buona (amore e morte) visione - Ismaele 



 

 

 

En la película los personajes masculinos no despiertan simpatía al espectador, exceptuando a Antonio los personajes del barrio son personas degradadas por la droga y sumidas en un mundo de auto destrucción como por ejemplo Lisardo (interpretado por Javier Bardem) un camello y yonqui que busca el beneficio a través de Charo y su vecina Vanesa prostituyéndolas siendo capaz de traicionar a sus propios amigos actuando como chivato ante la policia, representa la degradación extrema de la denominada “movida madrileña”. Ugarte (Pepón Nieto) es la personalidad más débil de la película pero es el único que logra salir de esa espiral de autodestrucción del barrio y a casa con su familia.

Por su parte los personajes femeninos del barrio son maltratados por los hombres que las rodean: Lisandro, El Portugués o la Policía. Vanesa y Charo son tratadas a base de insultos o como si simplemente fuesen cuerpos para traficar. El Portugués un traficante del barrio le dice a Charo “Si tuviera una hija como tú la mataba a hostias; por mi santa madre que me la cargaba: guarra, puta y drogadicta, menudo castigo” no hay que olvidar ante estas palabras tan crudas que el personaje interpretado por Ruth Gabriel solo tiene 18 años. Ni Vanesa ni Charo son capaces de imponer su voluntad a lo largo de la película. Por su parte Lourdes es la única mujer que forma parte del comando, amante de Antonio anteriormente y en el que busca un apoyo que no encuentra. Se muestra convencida a abandonar la  banda terrorista pero no es lo suficientemente valiente para hacer de ese pensamiento una realidad…

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Lo más importante para que una película en la que los personajes son la parte importante es la elección de los actores. La mayoría del elenco era desconocido para el gran público lo que contribuyó a una mayor credibilidad de los personajes. En una crítica para la revista Fotogramas, Vicente Molina Foix [10] hacía referencia este elenco de calidad de la película “Para llevar a cabo una premisa cinematográfica tan rica con tan podo despliegue de aparato, Uribe se reserva la carta de los actores, en uno de los casts más inspirados y globalmente perfectos del cine español” [11]. Para Ruth Gabriel, Candela Peña, Pepón Nieto, Elvira Mínguez o Mariola Orellana este era su primer papel en el cine. Entre los más experimentados se encontraba Carmelo Gómez y Javier Bardem que ya había protagonizado sendas películas Vacas de Julio Medem el primero y Jamón, Jamón de Bigas Luna el segundo.
No hay que ver esta película como una obra centrada en ETA y hay que ir más allá de la pertenencia del personaje de Carmelo Gómez a la banda terrorista y el objetivo de esta en la película. Días contados trata sobre personajes cada uno con sus características que comparten un mundo en el que cada uno se auto destruye y no tiene salida. No hay que sentirse extraño por ver la parte humana de Antonio y llegar a entender la situación por la que atraviesa en la obra de Uribe.

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venerdì 6 giugno 2025

The Space fa proprio schifo

a marzo rinnovo per l'ennesima volta la tessera per cinque ingrassi prepagati.

dopo qualche settimana, quando la presento alle casse, la tessera non

viene riconosciuta dai loro computer.

chiedo di parlare con un responsabile, che mi spiega che il sistema operativo è cambiato, ha fatto una foto della tessera, avrebbe risolto lui, mi ha detto.

passa un altro mese, la tessera, che avevo pagato con soldi veri, non viene riconosciuta, un altro responsabile mi dice di scrivere al sito, così ho fatto, e dopo qualche giorno ricevo una risposta:


Gentile Cliente,

La ringraziamo per averci contatto.

Siamo lieti di informarla che abbiamo recentemente rilasciato il nuovo sito e la nuova app di The Space Cinema.

Se è in possesso di una o più card già utilizzate online, la informiamo che i suoi crediti sono stati accorpati in una unica card associata automaticamente alla mail con la quale la utilizzava. La troverà nella sezione "Il mio account" presente su sito e app una volta effettuato l'accesso.

In caso possegga una card fisica per poterla utilizzare in cassa o online sarà necessario associare la The Space Card al suo account nella sua area riservata alla sezione "Il mio account". Una volta associata la card fisica e il codice riportato in essa non sarà più utilizzabile.

La informiamo che il codice della card vecchia non sarà da inserire nella sezione "aggiungi il codice voucher". Il codice della card non è più un elemento valido per il suo utilizzo.

Per utilizzarla online la invitiamo ad effettuare il login sul nostro sito con la sua utenza e procedere alla selezione dello spettacolo desiderato.
In fase d'acquisto, per utilizzare The Space Card, segua la seguente procedura:
- Alla voce "Quali posti desideri?"selezioni la tipologia di posti da lei preferita (questa informazione potrà essere modificata in seguito);
- Nella stessa colonna, dopo la voce "Aggiungi un voucher", dovrebbe visualizzare come opzione di acquisto la sua The Space Card.
- Successivamente dovrà selezionare la voce "applica" per utilizzarla e se lo desidera potrà selezionare la voce accompagnatore e aggiungere il posto desiderato.

Se desidera invece utilizzarla in cassa dovrà mostrare il Qr Code della sua card presente nella sezione "Il mio account".

Se dovesse riscontrare delle problematiche la invitiamo a contattarci nuovamente inviandoci delle immagini della problematica riscontrata.

Restiamo a disposizione.

Cordiali Saluti,

Staff Customer Care


perdendo tempo, provo a seguire le istruzioni, ma non funzionano.

glielo scrivo, ma non rispondono più.

a questo punto lascerò perdere, mi hanno rubato i soldi, maledetti, spero solo che falliscano in fretta.

per quanto mi riguarda non metterò più piede in quel mondo di ladri, come cantava Venditti.

quello che mi interessa lo vedrò lo stesso, ma non da loro.


giovedì 5 giugno 2025

La collezionista - Éric Rohmer

la collezionista è una ragazza (Haydée) mangiatrice di uomini, e si trova in una casa di campagna con Adrien e Daniel che parlano molto, e filosofeggiano sulla morale che li guida, ma non cedono al fascino di Haydée.

il film (che inizia con dei ritratti dei tre) è tutto in questa attesa di quello che sembra non succedere.

Éric Rohmer è agli inizi della carriera, ma è già un solido regista.

cercatelo, nessuno se ne pentirà.

buona (erotica) visione - Ismaele



 

 

 

Con La collezionistaRohmer costruisce una pellicola in cui le parole, come nel resto della sua filmografia, sono il centro nevralgico. Il quarto capitolo dei “Sei racconti morali”, ovviamente non è da meno. Adrien, Daniel e Haydée, si confrontano costantemente, esponendo ognuno le proprie idee. Da queste tre figure, il film risulta quasi come una sorta di gigantesco brainstorming sui temi della seduzione, dell’amore e del bello.

Se non sono i dialoghi a parlare, ci pensa la voce narrante di Adrien, ad accompagnare le immagini. Come all’inizio, arrivato alla villa, espone per diversi minuti il suo intento di acquisire, nella sua vacanza, l’ozio estremo.

Ma importanti in questo film sono anche i silenzi, momenti che di solito si caratterizzano per lo sguardo della macchina su Haydée. Uno sguardo che a volte viene veicolato attraverso delle soggettive di Adrien, come quando passeggiando nel corridoio della casa, sbircia nella camera della ragazza…

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La Collezionista è un vero film di rivoluzione. Di e non sulla rivoluzione perché è solamente basato sulle idee e su come esse elaborino i pochissimi avvenimenti, spesso apparentemente insignificativi, che si susseguono in una qualsiasi vita umana. Non c’è politica, non c’è letteratura, non c’è pittura, non c’è musica… non c’è nulla di tutto ciò nei dialoghi e nelle riflessioni dei personaggi. C’è soltanto il sé.

Il sé come elemento del Tutto, e al contempo come entità a sè stante, prima fra tutte che sentiamo di dover accordare.

Non c’è storia. La storia è la storia del sé dei personaggi. In particolare di uno, Adrien, un giovane e aitante commerciante d’arte a tempo perso che si ritrova a condividere un mese delle vacanze estive in una villa nel sud della Francia assieme a un caro amico e a una ragazzina, re-interpretazione antiedipica di Lolita, che interpreterà il ruolo di scombussolatrice delle stasi dell’animo…

… Forse il dialogo più bello è in scena proprio quando il protagonista si confronta con il suo acquirente collezionista d’arte e dimostra la sua teoria del “ci vuole più coraggio a non lavorare che a lavorare” in virtù del fatto che il lavoro è qualcosa che non siamo in grado di mettere in discussione nella nostra vita. Per tutti noi è normale trovare un lavoro, ma questo cosa comporta? Comporta l’inserimento meccanico in un processo societario così come inscenò Lang nel suo celebre Metropolis del ’27. Una lunga catena di montaggio per la produzione di beni di assoluta non prima necessità, beni superflui che crediamo di volere e di necessitare. Chiamarsi fuori da tutto ciò è per Rohmer, coraggioso. Non agire, per agire contro una società del consumo e dello sfruttamento dell’uomo, che si ritrova così senza possibilità di dedicarsi al sé e a ciò che lo circonda, che è sempre parte del sé, e viceversa.

E tutto ciò lo si può desumere osservando un film nel quale nulla succede, oltretutto girato con una tecnica registica quasi improvvisata, in pieno stile nouvellevaguiano. Molte sono le scene in controluce, molte sono le inquadrature decentrate e il montaggio non segue minimamente quanto imposto dal découpage del cinema classico hollywoodiano. La suddivisione in capitoli del film è totalmente arbitraria e spiazzante. Il finale così improvvisamente troncato si conferma una delle migliori trovate dell’intera nouvelle vague, e ripropone quanto lo stesso Rohmer aveva già proposto nel primo dei racconti morali, il cortometraggio La Boulangère De Monceau. L’interpretazione degli attori è perfetta per l’occasione ma tutt’altro che accademica. L’immagine perde ogni sua importanza in favore della parola, grazie a una sceneggiatura tra le più forti che si siano mai viste al cinema, assieme a quelle di Bergman.

La Collezionista è un film adatto a pochi, non perché sia estremamente lento o pesante ma perché rischia di non essere compreso nella sua essenza. Per apprezzare questo film è necessario entrare in profonda empatia con quanto rappresentato, altrimenti si assisterà a un inutile susseguirsi di situazioni insignificanti.

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Una mise en scène scarna ed essenziale caratterizza l’opera di Eric Rohmer a cui riserva un’ambientazione bucolica, tipica dei sui film e che sottolinea il profondo legame con la natura. Digressioni filosofiche e letterarie affidate al protagonista maschile sono presenti in quasi tutti i dialoghi costruiti con gli stessi attori in fase di stesura della sceneggiatura. Patrick Bauchau è Adrien, un personaggio annoiato e soprattutto distaccato dal rapporto sentimentale che lo lega alla sua ragazza in partenza per Londra. È in qualche modo attratto da Haydée ma sa che cedere al suo magnifico corpo comporterebbe una scelta indegna per la sua morale e significherebbe cadere nella “collezione” della giovane. Daniel è interpretato da  Daniel Pommereulle e il suo è un personaggio aggressivo e particolarmente irritevole, tanto che spesso pare solleticare la bella Haydée per compiacersi della propria superiorità morale. Infine la protagonista femminile interpretata da Haydée Politoff è l’ambiguità incarnata, un mix di innocenza e sensualità che Rohmer ha saputo perfettamente cogliere e portare sullo schermo. La Politoff è a ragione una metafora del cinema rohmeriano: rappresenta l’essere umano nelle sue molteplici sfaccettature, nei suoi pensieri e ripensamenti, nelle sue convinzioni e nel suo cedere alla tentazione. La fisicità di Haydée riassume l’intento del regista francese teso a sondare la natura umana e in particolar modo il campo intellettuale dei personaggi. Anche “La collezionista”, in linea con la cinematografia di Eric Rohmer, non sottopone mai la storia a un giudizio critico bensì alla sola osservazione, quasi stessimo assistendo divertiti a un esperimento scientifico sulle (in)capacità umane di intrecciare rapporti.

Uno scorcio antropologico che nasconde per mostrare. Un cinema che prolifera e che – per nostra fortuna – non smette di sorprendere.

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Per quanto datato nel suo sfrontato intellettualismo e a tratti farraginoso nello sviluppo narrativo, LA COLLEZIONISTA rimane ancora oggi un gioiello imperdibile per chi ama il cinema di Rohmer.
Innanzitutto è la pellicola in cui il cineasta francese sperimenta, per la prima volta, il colore e lo fa avvalendosi dello straordinario contributo fotigrafico di Nestor Almendros, successivo collaboratore per altri grandi registi come Malick (I GIORNI DEL CIELO), Scorsese (LEZIONI DI VERO) e Joffe (MISSION). Dal punto di vista visivo il film ruba l'occhio a ogni inquadratura, caricando l'opera di un raffinatissimo naturalismo cromatico, in cui i caldi colori d'estate si sposano con uno sguargo entomologico particolarmente attento nel ritrarre in modo oggettivo il rapporto uomo-natura. Più che in altri film dello stesso regista, ne LA COLLEZIONISTA la visione si carica di chiare metafore filosofiche che, perfettamente in linea con l' incisività di dialoghi e voce fuori campo, contribuiscono a quella fusione rohmeriana ineguagliabile e assolutamente unica tra immagine e parola.

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La narrazione fa perno sull’instabilità dei rapporti individuali pilotati dalla capricciosità di un plot che si diverte a contrapporre a due individui legati da discordanti affinità elettive una sinuosa seduttrice priva di condizionamenti morali, pronta a graffiare al momento opportuno con le unghie affilate della sua passività destabilizzante ed a porsi come indesiderata interlocutrice nel rapporto dialettico tra le personalità dei suoi interlocutori, assurgendo tout court, come d’altronde ogni altra figura predominante di donna nei racconti morali, a simbolo di un trionfo dell’astuzia femminile nei confronti di sbiaditi esemplari di mascolinità più o meno frustrata. Caratterizzato come sempre da rigore compositivo e severità di contenuto, come sospeso in una sorta di spazio fluidificato a causa di una tensione puramente mentale che cresce e si spegne con la stessa rapidità del lampo, il film si guarda bene dal violentare più del dovuto la privacy di personaggi ineluttabilmente chiusi nei propri gusci, dai gesti apparentemente insignificanti, riluttanti a scoprire le loro carte segrete, intenti a recitare con premeditazione un ruolo tanto oscuro quanto velleitario. Rohmer riesce a creare un sottile gioco psicologico in cui le relazioni individuali restano sospese a mezz’aria tra parole non dette e comportamenti destinati a creare un fuorviante rapporto di complicità non ben definito. La scrittura filmica scruta lo sgambettamento interiore dei personaggi ponendo in evidenza gli equilibrismi esistenziali in un instancabile girotondo in cui ciascuno sembra recitare una parte precostituita onde disorientare lo spettatore, fortunatamente ragguagliato dai frequenti monologhi interiori di Adrien, che per tale motivo appare il più vulnerabile della compagnia ed il più riluttante a gustare l’amaro calice della sconfitta.

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mercoledì 4 giugno 2025

La abuela – Paco Plaza

una storia del terrore, con sceneggiatura di Carlos Vermut.

una nonna e una nipote, solo loro due, non esistono altri parenti, vivono insieme nella stessa casa, la vecchietta è ormai alla fine, ma alcune cose succedono, vedere per credere.

buona (nonnesca) visione - Ismaele 

 

 

 

Un racconto non certo originale, opera di Carlos Vermut, tradito nel fattore "sorpresa" da un incipit rivelatore, è adattato a lungometraggio con certa cura formale da Paco Plaza. Anche in questo caso, come ormai da tradizione del cinema horror iberico, viene riciclata la solita trama del pericolo inatteso, che si nasconde tra coloro che più dovrebbero rassicurare: i parenti, più precisamente familiari in linea diretta di sangue (Darkness o Nameless). Sicuramente migliore di alcuni precedenti, quasi inguardabili, film del regista (i terribili, anche in senso tecnico, seguiti di [Rec]), La abuela presenta una cinematografia suggestiva e merita d'essere visto per la notevole performance delle due antagoniste, Almudena Amor e Vera Valdez. Quest'ultima, resa ormai scheletro dall'avanzare dell'età e da un dimagrimento significativo, che preannuncia l'imminente sopraggiungere della morte, non può non ricordare l'Elena Markos di Suspiria, in particolar modo per affinità elettive e per probabile affiliazione della stessa alle logiche del Male e della stregoneria. È un peccato che un soggetto così interessante - che poteva dare spazio a più profonde e ardite estensioni, anche con contenuto a carattere sociale, sul tema del vampirismo psichico (ossia di quegli anziani malvagi, orientati a nutrirsi dell'energia vitale dei più giovani) - sia stato trattato al solo livello più superficiale del genere horror. Anche se, dopo il lunghissimo e straziante preambolo, Plaza dimostra di saper gestire con certo gusto le atmosfere e i classici contesti "de paura", tipici del filone. La abuela si è rivelato un mezzo flop commerciale - considerato il battage pubblicitario e la diffusione internazionale - avendo incassato, a partire dal gennaio 2022, "solo" 3.000.000 di dollari.

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Notevole, seppur non originale, la scena (fulciana) con le due protagoniste (brava anche la nonna interpretata da Vera Valdez) che si osservano in uno specchio circolare su cui si vede inizialmente riflessa la sola faccia di Almudena Amor e dove affiora, dall'altra parte e in conseguenza di una serie di esplosioni a frazione, il volto della Valdez. Una scena che rende visiva la metafora del film incentrata sulla frase proferita, in precedenza, dalla nonna alla nipote:“il tuo corpo è il mio corpo”. Forse non compreso pienamente e penalizzato da un taglio che determina uno scorrimento molto lento, La Abuela è un horror che conferma il talento del regista. Nettamente superiore alla media degli horror contemporanei incentrati su case maledette, fantasmi e rapporti familiari retti da subdoli motivi non rilevabili a una visione superficiale (ancora la metafora dello specchio). L'epilogo ricorda molto, nei contenuti (non nella forma), quello de Il Cervello dei Morti Viventi (1973). Delicato, ma assai incisivo.

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…Gran mestiere al servizio di una storia tutt'altro che originale, sin troppo appesa ad un assunto astratto e noto già dalle sadiche, maliziose premesse.

Certo un paio di scene almeno risultano notevoli, come il gioco di specchi che due riprese alternate offrono dei due personaggi sovrapposti uno sull'altro, in un piccolo colpo di genio registico inequivocabile.

E il risultato è un film del tutto degno di rappresentare il genere, territorio addentro al quale Plaza si muove da perfetto conoscitore dei trucchi più efficaci, pur dimostrando qui un certo qualunquismo nel dettaglio di una vicenda un po' troppo prevedibile e telefonata.

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…Pero si hay algo, o mejor dicho, alguien, a quien debemos destacar es a Almudena Amor: de ser una desconocida a aparecer en lo último de Paco Plaza y Fernando León de Aranoa —para más señas, en El buen patrón junto a Javier Bardem— es para pensar y mucho en su talento. La actriz se echa a la espalda el peso de la función, y sabe transmitir con total veracidad el muy amplio abanico de sensaciones y emociones que el guion de Vermut, complejo en lo interlineal por necesidad al depender casi por completo de sus lecturas para satisfacer la obra final, le pone por delante en forma de retos de gran complejidad: no solo se trata de reír, llorar o gritar, sino de traspasar miedos interiores, terrores inaceptables o realidades incuestionables, todo sin apenas pronunciar palabra. También hemos de dejar puesto un sello de calidad en el trabajo de Vera Valdez, la abuela de la función, una intérprete brasileña, exmodelo en sus años jóvenes, que sorprende con una fisicidad digna de elogio. La conjunción de ambos elementos, el binomio Amor/Valdez, recrea a la perfección el núcleo más profundo de La abuela, el que excede su parte de película de terror al uso, con sus sustos más o menos predecibles —que los tiene— y su ritmo no siempre regular: la integración de dos para formar solo uno, la escisión del interior para negarse a aceptar el paso del tiempo. Paco Plaza ha conseguido la que probablemente sea su película más introspectiva y reflexiva; una propuesta de género compleja que alcanza la trascendencia a través de lo íntimo y que deja en el espectador la necesidad de procesar y recalcular lo visto.

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martedì 3 giugno 2025

Bruno Reidel - Vincent Le Port

un omicidio tragico da parte di un minorenne, Bruno (interpretato da Dimitri Doré), ai danni di un ragazzino, al quale taglia la testa.

in galera e in manicomio Bruno viene studiato da una commissione di studiosi e medici per capire come Bruno è arrivato a tanto.

e Bruno, su richiesta della commissione, scrive e racconta la sua breve vita, fatta di violenze, soprusi, deprivazioni.

il film è un gioiellino, senza essere un film pulp è un film che non cede mai allo splatter, anzi, la macchina da presa resta attaccata  a Bruno, e noi vediamo con i suoi occhi.

un film da non perdere, duro e senza scorciatoie.

buona (Bruno) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in francese, con sottotitoli in spagnolo

 

 

Bruno Reidal est une gestation, celle d’un meurtrier, non pas né, mais le devenant au hasard d’une conscientisation de soi, d’un processus inexplicable de trouble psychologique. On évitera le « cliché » freudien, optant pour le traitement du cinéaste à partir du livre de François Bourgoin, Serial Killers.

Et les préparatifs du procès puisqu’il s’agit de cela. Non pas une accusation, mais d’un extraordinaire échange psychologique d’une rare maturité et d’une intelligence de rapports remarquables entre les docteurs attitrés et le coupable…

… mpossible d’ignorer les extraits de la musique d’Olivier Messiaen, assurant au film une énergie farouche. Elle prolifère par intermittences, ponctuant telle ou telle situation. Mais encore une fois, c’est encore le « plan » qui domine, parfois proche des tableaux romantiques, comme la rencontre, dans un rocher, de Bruno avec un de ses camarades du séminaire, où l’attirance de l’un envers l’autre est suggérée, mais pour différentes raisons.

Au son, Charlotte Butrak manifeste une rare altérité, sournoise même, confondant les bruits de la nature et des humains avec le parcours dissident du personnage. Travail exigeant. Et Dimitri Doré : le visage, nous pourrions même dire « les » visages, les diverses démarches, les silences et les paroles mesurées, tout participe de cette approche originale de l’interprétation. Un excellent acteur fait surface. Il participe également à la voix-off qui se manifeste de temps en temps; d’une part, le réalisateur tout à fait conscient d’une certaine tradition à la française, mais d’autre part, se faisant le témoin d’un fait divers à raconter. Le prix « Jean Carmet » (meilleure interprétation) décerné à Doré au Festival Premiers Plans d’Angers est hautement mérité.

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Nello sguardo di Bruno indirizzato ai compagni di classe, la nuca maschile diventa una costante sulla quale costruire una stratificata anatomia del desiderio.
La visione suscita sentimenti contrastanti e assegnati alle diverse fasi di Bruno, inclusa l’esperienza del seminario, luogo dove l’aggregazione di voci e pensieri distruttivi può essere cancellata dal silenzio e dal rigore di un tempo fuori dal tempo.

Mentre il desiderio di possesso si tramuta quasi sempre nel suo complementare distruttivo, esclusivamente rivelato dalla parola, il nitore dell’immagine mantiene intatto quel confine possibile tra violenza e dolcezza, abbraccio e pugnalata, come ritratto di una distanza incolmabile tra l’osservazione e il gesto. I momenti in cui l’immagine ci dice altro, rispetto ai pensieri di morte e dominio scaturiti da quello che Bruno vede, sono quelli in cui le potenziali vittime di Reidal vengono immerse nella luce della libertà, linea di demarcazione fragilissima tra l’amore e la violenza.

Su questa linea, l’opera prima di Vincent, riesce a far emergere l’esercizio delle stesse pulsioni nello spazio quotidiano della vita rurale e nel modo in cui le istituzioni, cancellando le ambiguità della natura, eliminano anche la compassione come riconoscimento di una sofferenza comune.
Reidal non palesa alcun rimorso e nell’elaborazione di un pensiero desunto dalla cultura religiosa, quello che concede perdono agli assassini, ma non ai suicidi, rivela la possibilità del pianto solo di fronte a quella compassione nei suoi confronti, che non arriverà mai.
Sarebbe come essere finalmente osservato e compreso entro un punto di vista che non separa più il bene dal male con i parametri del giudizio e della punizione.

La distanza Dumontiana praticata da Le Port ci consente di osservare il male nel volto di Bruno e riconoscerlo come famigliare. Respinti e attratti, insieme a lui teniamo stretta tra le mani la testa di un bambino decapitato, come fosse quella di un maiale sgozzato. Potremmo mai perdonare e perdonarci?

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Pour son tout premier film de fiction, Vincent Le Port s’inscrit dans une lignée prestigieuse d’auteurs exigeants. Effectivement, en suivant les pas de ce meurtrier en devenir, Le Port signe une œuvre volontairement austère, voire carrément glaciale et procédurale, comme autrefois les films de Robert Bresson ou encore de René Allio. On songe ainsi beaucoup à Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère… (Allio, 1976), au final tétanisant de L’argent (Bresson, 1983) ou encore aux premiers films de Bruno Dumont comme L’humanité (Dumont, 1999).

Autant dire que l’ambiance est ici très lourde, et ceci dès les premiers instants qui nous annoncent le terrible meurtre qui sera ensuite largement détaillé dans la séquence finale. Avec Bruno Reidal, confession d’un meurtrier, Vincent Le Port entend entrer dans la tête d’un jeune homme brillant sur le plan intellectuel, mais qui associe systématiquement Eros et Thanatos. Violé dès sa plus tendre enfance par un berger de passage – séquence assez hallucinante et brillamment montée afin de ne pas traumatiser le jeune acteur – Bruno Reidal est un masturbateur compulsif qui ne peut trouver la jouissance qu’en imaginant ses proies mourir sous ses coups. Cela occasionne un nombre conséquent de séquences qui mettent franchement mal à l’aise, d’autant que le jeune acteur Dimitri Doré parvient à imprimer une réelle humanité à son personnage détraqué…

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