sabato 12 luglio 2025

Quando il cinema guarda a destra è sempre un po’ astigmatico - Giampiero Frasca

 

Diciamoci la verità. Però diciamocela francamente. Non si può dire che il cinema in Italia sia di sinistra, malgrado le intemerate di Elio Germano all’indirizzo del ministro Giuli e nonostante dall’altra parte si lamentino sempre che le conventicole dei comunisti impediscono ai talentuosi giovani attori e registi che non siano di sinistra (non dicono mai “di destra”, perché alla fine «pare brutto», come diceva mia zia Silvia) di fare la loro giusta carriera (qua Morrone. Chi è Morrone? Non lo so, dev’essere un attore italiano che non lavora per colpa dei comunisti).

Il cinema italiano è sembrato di sinistra solo in qualche fase ben definita. Pareva di sinistra durante il Neorealismo, ma solo perché qualunque cosa fosse seguita al Ventennio, anche Papa Wojtyla, sarebbe sembrato comunista (e comunque Rossellini era un cattolico, De Sica un bon vivant, Visconti un comunista con il Rolex ante-litteram; solo De Santis si poteva ascrivere alla genìa). È stato davvero di sinistra solo durante gli anni settanteschi del cinema politico, perché la maggior parte dei registi protagonisti di quel fertile periodo lo era (Petri, Rosi, Maselli. E anche Lizzani, nonostante Goffredo Fofi lo considerasse lo stesso un regista di destra). E lo erano, spesso, anche quelli che il cinema politico lo facevano sotto mentite spoglie (Pasolini. Monicelli. Scola. E anche Sergio Leone). Ma non era il cinema italiano a essere comunista: lo era un terzo della società italiana. Per cui.

Poi, si sa, e non voglio certo generalizzare, solo rammentare: quello che non era governo, era cultura; se il governo spettava secondo risultato elettorale alla Democrazia Cristiana, la cultura fu appaltata alla sinistra, mentre quelli che ancora, pervicacemente, si rifacevano a fiamme mai del tutto spente, fez e manganelli, si incaricarono di generare quella sana tensione sociale rompendo il cazzo un po’ qua e un po’ là, mettendo qualche bombetta stragista con la complicità dei servizi segreti deviati, nostalgici anche loro. Mica avevano il tempo per fare cinema. Questo è il perché, in breve. Quindi, non è che il cinema italiano sia di sinistra, è solo che molti di quelli di sinistra, storicamente, fanno cinema.

 

Un giovane figurante missino, attuale Presidente del Senato, in Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio (1972)

Quelli di destra non sono abituati, è evidente. Le poche volte che ci hanno provato sono state sinceramente imbarazzanti. Il loro campo di competenza è palesemente altrove, anche se la giustizia poi ci mette almeno vent’anni per accertarne i meriti. Sempre che li accerti. Chi ha avuto la sventura di vedere Barbarossa di Renzo Martinelli — quello che più ostinatamente cerca di rileggere la Storia dall’altra prospettiva — ricorda lo stupendo cameo di Umberto Bossi, non il film, accozzaglia di luoghi comuni sull’indomito carattere dei Comuni del Nord già protoleghisti.

E così arriviamo ad Albatross, uscito in questi giorni. Scritto e diretto da Giulio Base, anche direttore del Torino Film Festival, che in questi giorni sta facendo parlare di sé più per l’incarico assegnato alla moglie, Tiziana Rocca (di cui ci interessa proprio il giusto), che per il suo film, spalleggiato fin dalla sera della prima da una serie di figuri di chiara appartenenza. Per raccontare la vicenda misconosciuta (perché cancellata, direbbero dall’altra parte) del triestino Almerigo Grilz, già picchiatore fascista del Fronte della Gioventù, poi fondatore di un’agenzia di reporter (l’Albatross del titolo) per documentare con sprezzo del pericolo le guerre dimenticate del mondo, fino a trovare la morte in Mozambico a soli 34 anni, Base si è autoinvestito della funzione di «partigiano della riconciliazione», come fanno tutti quelli che intendono ammannire un prodotto dichiaratamente di destra sperando di non farselo distruggere dalle critiche della parte avversa.

Albatross è un film revisionista caro all’establishment meloniano, ergo: una gran leccata di culo, inutile girarci attorno. Lo hanno scritto da ogni parte ma nessuno con la classe di Marco Giusti su Dagospia, per cui posso anche esimermi. Perché non è questo che m’interessa. M’interessa proprio il prodotto film, il modo in cui è stato raccontato, la sua eventuale qualità artistica, non perché sia ideologicamente discutibile (ancora con ‘sta ideologia?, direbbe il qualunquista ammantato di retropensieri fascistelli. Sì, ancora con ‘sta ideologia. Non esiste svolta di Fiuggi che mi farà dimenticare su quali ceneri maleodoranti è nata questa scentrata Repubblica).

 

Il problema di Albatross, ancora prima di essere un film fascista, è che è un film fiacco. Fiacco, girato con uno stile piacione, illusoriamente ggiovane, ma irrimediabilmente vecchio, come un settantenne nonostante il rinfoltimento. In pratica è una fiction RAI (che produce) su grande schermo, vivacizzata da un montaggio inutilmente convulso durante le scene di dialogo in interni, del quale non si capisce onestamente la motivazione, se non la ricerca di una vivacità posticcia. Tutto sembra artefatto, ricreato in una recita che intende più che altro situare la memoria invece di rappresentarla nella sua cruda realtà del tempo. All’inizio del film c’è una scena di conflitto fra frange comuniste e fasciste. Una scena anche fondamentale, perché spiega il legame che si instaura tra Grilz e Vito Ferrari, avversario politico salvato dalla generosità del primo e interpretato, da anziano, da uno sfibrato Giancarlo Giannini. Ma come dare credito allo scontro, se la messa in scena è così basica (l’aggettivo è indipendente dal nome del regista) da far affrontare i due sparuti gruppi vestiti di sapido cliché al grido di «Fascisti carogne tornate nelle fogne» e «Boia chi molla è il grido di battaglia» branditi come due alternati e ossessivi refrain? 😲

E il pestaggio susseguente? Non che per forza si debba sempre fare tutto come Guy Ritchie, però, che cazzo, un minimo: spintoni visti al ralenti, talmente esili e disarticolati che li avrei tanto sognati all’inizio degli anni Ottanta, quando nell’estrema periferia nord della città a vocazione industriale smarrita scendevano orde di tamarri in Vespa a riempirci di mazzate, una zuffa che manco tra bambini di prima elementare con le braccia slogate. Non è esigenza di realismo, è credibilità. Quella stessa credibilità che ambienta una parte della vicenda in una Trieste che pare avere solo due luoghi, il Molo Audace e il Monumento ai Caduti, ognuno con una sua valenza attributiva: il primo è il luogo dell’amicizia, della socialità, il secondo quello dei sentimenti e dei rimpianti.

Una scrittura un po’ rigida che certo non è aiutata dai dialoghi. Uno su tutti, il conflitto verbale tra Vito Ferrari e i camerati nella loro redazione del giornale, ai limiti dello sfottò da bar, ma magari fosse di Caracas: «È che voi neri siete brutti. Ma dico brutti brutti, eh, anche solo da vedere». «Ha parlato Alain Delon» è l’affilatissima risposta offerta a muso duro prima dell’eventualità di una rissa, doverosa almeno per la qualità delle battute, ma che, visti i risultati precedenti, non scatterà.

 

Ma il vero equivoco è l’autoattribuzione di genereAlbatross sceglie pericolosamente, molto pericolosamente, un antesignano illustre per dotarsi di una ben precisa struttura: L’uomo che uccise Liberty Valance. Non sono rincoglionito, ascoltate. Un sopravvissuto torna in età matura — in treno! — dove tutto si è originato. Il personaggio cui deve rendere omaggio non c’è più. C’è una narrazione ufficiale che punta a negare ciò che effettivamente s’è svolto (a Shinbone John Wayne se lo sono dimenticato; a Trieste negano a Grilz una targa commemorativa). Racconto à rebours per svelare ciò che è davvero accaduto. Il sopravvissuto, figura rispettabilissima grazie anche all’opera del personaggio che non c’è più, desta la memoria dello scomparso e lo riabilita pubblicamente, per poi tornare da dove è venuto. Dimenticavo: il sopravvissuto gli fotte anche la donna di cui il Nostro era innamorato. Buum. Manca la dicotomia progresso-anarchia, ma il resto c’è tutto. È una storia epica. L’epica di un eroico fotoreporter di guerra osteggiato nel riconoscimento dei giusti meriti solo per la sua ideologia. Il John Wayne di Trieste. L’equivalente missino dell’eroismo western. Diosantissimo.

Peccato che l’impianto si contraddica da solo. La frase simbolo di Liberty Valance era «When the legend becomes fact, print the legend», ossia, come tutti o quasi sanno, se la leggenda è più interessante di ciò che realmente è accaduto, fai riferimento alla leggenda. In modo tale che le narrazioni si basino su un florilegio immaginifico di fantastiche bugie. È ciò che fece John Ford, svelando l’inghippo, uccidendo l’epica western e introducendo la fase crepuscolare, critica e antieroica. Base non uccide l’epica fascista perché è una cosa che si rimpallano tra loro e «Il Secolo d’Italia» («ben girato, ben recitato, ben costruito, un piccolo miracolo di produzione» si leggeva il 30 giugno), ma quantomeno circoscrive storicamente la già isolata figura di Grilz, ammettendo implicitamente di averne raccontato la leggenda, la loro versione, parziale e agiografica, non la realtà.

Sublime autogol, anche se da quella parte parleranno di fantastica rovesciata. Ma si sa che di queste cose non ne capiscono davvero un cazzo.

https://www.dissequenze.it/quando-il-cinema-guarda-a-destra-e-sempre-un-po-astigmatico/

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