mercoledì 20 agosto 2025

Come ti stronco un film - Flavio De Bernardinis


Dalle recensioni negative di Quarto potere agli aspri giudizi su 2001: Odissea nello spazio, nessun capolavoro (e nessun regista) è passato indenne sotto il severo giudizio dei critici: ripercorriamo la storia della stroncatura al cinema

Viaggiamo indietro nel tempo, a caccia di stroncature cinematografiche: anno 1946, quotidiano “La Stampa”, il critico Mario Gromo così scrive di Fantasia, il film di Walt Disney: «Gli episodi di Fantasia denunciano stanchezze, ripieghi e un assai discutibile gusto; ritmi astratti, freddi, voluti, ripetuti. Con la sesta di Beethoven questo mondo mitologico è di una mitologia da sovraccarte per cioccolata». L’intellettuale europeo si compiace, e parecchio, di bacchettare l’artigiano americano che non sa prefigurare i limiti del proprio lavoro. Ancora negli anni 40, spicca il giudizio negativo di Jean-Paul Sartre, niente meno, a proposito di Quarto potere di Orson Welles. Secondo il filosofo, il cinema è un’arte da declinare rigorosamente al presente, mentre Citizen Kane è un flusso di memoria tutto al passato. Acri e spinose questioni ermeneutiche, senza dubbio. Ancora in Italia, sulla rivista “Oggi”, 30 aprile 1950, Pietro Bianchi non risparmia nemmeno Hitchcock, il quale, nonostante abbia «il cinema nel sangue», ha realizzato con Il peccato di Lady Considine «un pazzesco pastrocchio nel quale sono mescolati elementi di basso romanzo con ricorsi al Grand Guignol. Non manca nulla di ciò che si suppone accetto al pubblico volgare: dall’esotismo di paccottiglia, alle “scene madri” di Ingrid Bergman». Fin qui, a spiccare è il critico quale rigoroso custode del bello. Dopo gli anni 50, arriva il critico paladino dell’ideologia. Sul n. 48-49 di “Quaderni piacentini”, Goffredo Fofi asfalta Pier Paolo Pasolini: «I racconti di Canterbury ci pare di una totale nullità: né riteniamo che valga la pena di architettare, su quest’informe ultima cosa senza nerbo, senza vita e senza morte, senza esigenza e senza prospettiva, senza senso e senza sesso, un qualsiasi discorso critico o interpretativo». Il compagno Pasolini ha tradito la propria militanza politica, tanto che Pasolini stesso in seguito si auto-stroncherà, facendo pubblica abiura della Trilogia della vita di cui il film fa parte. Anno 1974, sul n. 99 di “Cinema 60”, Gian Piero Dell’Acqua scrive di un film invece orribilmente di destra: «L’esorcista è anche un film nixoniano o kissingeriano, un film a favore della guerra nel Vietnam, del golpe nel Cile e dovunque, un film non intelligente come la maggior parte dei film reazionari ma imbecille come tutti i film fascisti. L’esorcista veste un’inconfondibile camicia nera, anche se lunga». Negi anni della Guerra fredda, il mondo è inequivocabilmente diviso in due. Sul borghesissimo “Corriere della Sera”, però, l’ideologia si mette completamente a nudo: di fronte a un altro esempio di film presunto ultra-cattolico, I diavoli di Ken Russell, Giovanni Grazzini quasi arretra sgomento davanti allo schermo, 29 agosto 1971: «Un impasto di sacrilegio e oscenità, di orrori e di perfidie, servito caldo dal regista Ken Russell con una bravura spettacolare pari soltanto alla speculazione commerciale cui si è prestato […]. Caso raro, persino il cronista si troverebbe in imbarazzo, se dovesse scendere in particolari». La parola chiave, qui, è “cronista”. Prima che esercitare il gusto, il critico è qualcuno che innanzitutto fa cronaca: il film deve essere trattato allo stesso modo di un fatto di cronaca, nera o rosa che sia. La stroncatura altro non è che il ribrezzo di fronte alle cattive azioni dello spirito umano, a cui si aggiunge l’altra espressione chiave presente nell’articolo, ossia “speculazione commerciale”. Non solo brividi e orrori sullo schermo, dunque, ma anche, e per giunta, a scopo di lucro. Il ragionamento del laicissimo, illuminato conservatore Giovanni Grazzini è che esistano un lucro ben speso e uno no. In fondo, visto dal mondo di oggi, perché dargli torto? La critica, nell’opinione generale, resta un fattore innanzitutto di gusto. Pauline Kael, la più celebre critica cinematografica statunitense, è stata forse la più brava ad attestare il proprio giudizio quale norma fondativa dell’arte del cinema. In tal caso, 2001: Odissea nello spazio diventa un bersaglio fin troppo facile, e sarà quindi impossibile tacere sulla «banalità delle tesi di Kubrick riguardo le modalità attraverso le quali tutti noi diventeremo infine simili agli dèi, grazie all’operato delle macchine: ecco la profondità del pensiero dei grandi servitori dello showbusiness!» (“Harper’s”, febbraio 1969). La megalomania del grande regista americano, che vuole fare spettacolo attraversando le massime questioni riguardanti il genere umano, non ha nulla a che spartire con il monolite del sapere estetico e culturale incistato nel recensore. Fatto curioso, sia in Europa sia in Usa, ciò che salta fuori è sempre il rapporto tra arte e spettacolo, ossia tra poesia e commercio. Che si tratti di qualcosa di genuinamente idealistico, difficile da estirpare al di là e al di qua dell’oceano? La stroncatura può riguardare non soltanto un singolo film, ma la figura stessa del regista. Così è accaduto a Giuseppe Tornatore, leggendo l’intervista di Michele Anselmi, su “l’Unità” del 25 novembre 1991. Incalzato dalle invidie e malignità per l’Oscar assegnato a Nuovo cinema Paradiso, Tornatore sbotta: «Appena muovi un passo, ti sparano addosso. Gian Maria Volonté, a Venezia, proclamò che la Sicilia di Sciascia non è quella folcloristica dei carretti di Tornatore, ma qualcosa di più profondo. Nanni Moretti, davanti al pubblico, pare abbia detto “chiedetemi se mi piacciono i film di Avati e Tornatore”, battute che potevano andare bene un tempo. I critici, alcuni, mi stroncano con acredine: io farei film sentimentali, poco aggressivi, lacrimevoli. Fofi ha detto che Nuovo cinema Paradiso è pura melassa. Fofi, che ha passato mezza vita a stroncare tutto il cinema italiano, e non solo quello, e l’altra metà a chiedere scusa!». Nella stessa pagina, di spalla, può replicare lo stesso Fofi: «Nuovo cinema Paradiso aveva spunti carini, ma trattati in modo puttanesco. Detesto quell’innocenza d’epoca, tipica di gente cresciuta negli anni 80, anni disgraziati dal punto di vista morale: definirei Tornatore un sotto-autore, che vive di citazioni». Gli anni 60/70 di Goffredo Fofi contro gli 80 di Giuseppe Tornatore: l’impegno duro e intransigente dei militanti del Sessantotto di fronte al miele sdolcinato dei figli del riflusso. Erano tempi, quelli, in cui il cinema era ancora capace di delimitare il campo d’azione, stabilire chi starebbe di qua, e chi di là. Marco Tullio Giordana, sempre di spalla, difendendo Tornatore, attacca infine la cultura italiana, forse stroncandola: «Non lo trovo presuntuoso, né mi pare che si senta prediletto dagli dèi. La verità è che l’Italia è un paese che non ama gli artisti, se uno ha successo, vuol dire che ha brigato». Tornatore non fu il solo. Qualche anno prima, 1973, era toccato anche a Elio Petri. Al Festival di Berlino, su “Il Mondo”, Francesco Savio aveva scritto: «A parlare di La proprietà non è più un furto con la dovuta completezza, gioverà attendere che l’opera veda la luce in Italia. Se questa piccola calamità non ci verrà risparmiata». Poiché il film fu stroncato anche da Mino Argentieri, su “Rinascita”, rivista vicina al Partito comunista italiano, Petri parlò di una punizione nei propri confronti, a causa del suo dissenso rispetto alle posizioni politiche del PCI. Intervistato da Lietta Tornabuoni, infine, Petri replicò che i critici cinematografici erano tutti dei baroni, concludendo: «Ai miei film, successivamente, fu sempre negata quella “segnalazione della critica” che semmai, rispetto al passato, costituiva un peggioramento, poiché i film “belli” portavano ormai un “marchio di qualità” paternalisticamente elargito da un organismo istituzionale della corporazione». In anni più recenti, Gabriele Muccino, stanco di un atteggiamento simile da parte della corporazione dei critici nei propri confronti, decise di andarsene dall’Italia, emigrare a Hollywood, tentando di fregarsene dei recensori. Oltre alla stroncatura di un film, o di un autore, può anche darsi la stroncatura di un intero genere cinematografico. Basti leggere Italo Calvino, anno 1974, a proposito della commedia all’italiana: «Nella più parte dei casi la trovo detestabile, perché quanto più la caricatura dei nostri comportamenti sociali vuol essere spietata, tanto più si rivela compiaciuta e indulgente. In altri casi la trovo simpatica e bonaria, con ottimismo miracolosamente genuino, ma allora sento che non mi fa fare passi in avanti nella conoscenza di noi stessi». Calvino ammette poi l’originalità stilistica del western all’italiana, ma solo «come rifiuto della dimensione in cui il cinema italiano si era affermato e fermato, e come costruzione d’uno spazio astratto, deformazione parodistica d’una convenzione puramente cinematografica». È la solita storia, quella dell’Italia che non ama gli artisti: se vuole l’originalità, l’artista italiano deve infatti affidarsi alle convenzioni, ai trucchi e gli artifici, nutrendo quel gusto che è storicamente, intrinsecamente e sciaguratamente nostro, lo spirito barocco. E adesso, in questo nuovo millennio? Nel suo libro Cinema Speculation, a pagina 165 della bella traduzione di Alberto Pezzotta (per La nave di Teseo), in riferimento alla critica cinematografica, Quentin Tarantino scrive: «A quanto pareva, la maggior parte di coloro che scrivevano per giornali e periodici si ritenevano superiori al film che recensivano. Cosa che non riuscii mai a capire: guardavano dall’alto in basso film che davano delle emozioni e registi che, al contrario di loro, capivano cosa voleva il pubblico». Tarantino coglie il punto: i critici cinematografici, ebbene, sarebbero proprio loro quelli da stroncare, macchiati da una indelebile infamia, essere tutto tranne che degli spettatori. Che dire? Il critico tradizionale ha sempre cercato di modellare a propria immagine la figura dello spettatore critico. Adesso, la nuova figura del critico, ossia il critico spettatore, invece, accomuna pubblico e specialisti in un’unica dimensione dominante. Quale? Semplice: quella dei fan. E ai fan, come è noto, non si comanda.

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