giovedì 4 dicembre 2025

Adolescence - Philip Barantini

il regista, Philip Barantini, è lo stesso di Boiling point, e si vede.

la storia di Adolescence si svolge in quattro atti, quattro visioni, coinvolgimenti, approcci allo stesso fatto, un omicidio terribile commesso da un ragazzino, Jamie, di 13 anni.

nessuno capisce perchè è successo, né la scuola, né la polizia, nè la psicologa, neanche i genitori, solo Jamie potrebbe spiegarlo, ma gli mancano le parole, quello che è successo è troppo reale rispetto a quello che immaginava.

i ragazzini e le ragazzine sono un mondo a parte, sconosciuto agli adulti, le incomprensioni e ignoranze fra adulti e ragazzini/e fanno sembrare i loro mondi antropologicamente diversi, inconciliabili.

un film da non perdere, vedrete.

buona (sofferta) visione - Ismaele

 

 

 

Seppur il piano sequenza sia il segno autoriale del regista - ne è un esempio il film Boiling Point (2021), girato interamente in un’unica ripresa - in Adolescence, il piano sequenza raggiunge la sua acme espressiva. Il suo uso si allontana dall’essere semplice manifesto di virtuosismo tecnico, di maestria registica, è un legame viscerale che si intreccia alle pieghe emotive dei personaggi, alla tensione della storia, e si annoda – stretto – alla percezione di chi guarda. 

La polizia a cui è assegnata l’indagine, l’ispettore capo e il sergente capo, gli insegnati, gli studenti, la famiglia, la psicologa, le guardie carcerarie, Jamie Miller e noi, con loro, siamo incatenati da un filo che non guida, ma trattiene, e affonda nel subconscio collettivo, trascinati in una storia senza stacchi, senza montaggio: una storia vera.

E il “vero” riporta agli anni '20, in Russia. Da un lato Dziga Vertov che, con il suo “cine-occhio”, voleva catturare la vita colta sul fatto, ma non si accontentava di registrarla. La smontava, la scomponeva, la rimontava: la riscriveva al montaggio per rivelarne il senso più profondo, quello invisibile agli occhi. Il montaggio era il suo modo per gridare la verità attraverso l’illusione. Eppure, quella verità era pur sempre una costruzione. Una selezione. Una presa di posizione. 

Dall’altro lato, Alexander Dovzhenko, più vicino a Barantini, che nella sua ricerca della verità rifiuta il montaggio come strumento che frammenta e manipola la realtà. Cattura la verità nella sua interezza, senza distorsioni, per immergere lo spettatore nelle emozioni pure e incontaminate che essa suscita…

…E mentre Jamie si muove nel silenzio della sua rabbia, immerso nell’abisso del mondo digitale, gli adulti – l’ispettore Luke Bascombe (Ashley Walters), il sergente Misha Frank (Faye Marsay), la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty), i docenti, la sua stessa famiglia – restano fermi, aggrappati a un tempo che non esiste più. Proiettati nel passato, in coordinate culturali che hanno perso ogni validità, vengono travolti da una realtà che non riescono più a decifrare.

 

Tutti noi adulti restiamo indietro, colpevoli non solo di ignorare, ma di non saper leggere. Incapaci di cogliere i segnali del disagio, il nuovo linguaggio del dolore, l’urgenza muta che cresce tra i banchi di scuola e dietro gli schermi, dove i bambini vedono violenza, respirano solitudine e si raccontano solo attraverso simboli, like, status. Crescere in questo tempo significa smettere troppo presto di essere piccoli, perché il mondo non aspetta, non protegge, non ascolta.

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Prendete il terzo episodio, il più struggente, il più chiarificatore, il più insostenibile. Quello in cui si fronteggiano Jamie, il ragazzo accusato dell’omicidio (Owen Cooper, scelto tra 400 partecipanti al provino, esordiente, impressionante, bravissimo, clap clap clap) e la psicologa che tenta di capire il perché di tutte le cose. Un lungo dialogo intorno a un tavolino (lei per quasi tutta la durata seduta, lui che si alza seguendo il flusso sinusoidale del suo sconnesso discorso), con le videocamere che si muovono senza sosta, andando spesso ben oltre il bisogno di sottolineatura. Come se fosse una marcatura continua e non una messa in evidenza. E allora, viene da sé, non è una sottolineatura, è un’intenzione ben definita: prendere lo spettatore televisivo e immergerlo nella materia trattata, fare in modo che ne sia pervaso dovunque, senza possibilità di distrazione, sballottandolo avanti e indietro, intorno e in tondo, giocando sul ritmo e sul flusso, più che evidenziando i singoli aspetti drammatici. Che pur ci sono, ma che entrano in una relazione più ampia all’interno di una tensione data dall’ipertrofia dell’azione, non dall’accentuazione dei particolari…

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In molti hanno criticato la scelta degli autori di non rappresentare il cosiddetto lato della vittima (che si chiama Katie e non viene mai mostrata, così come la sua famiglia), ma la mancanza di Adolescence è più ampia: è l’incapacità di chi scrive di svestirsi di uno sguardo giudicante nei confronti di tutti i personaggi che il titolo nomina direttamente.

Che siano vittime, carnefici o comparse. 

La foga nella ricerca di una verità (chi è stato? perché?) si risolve nella rappresentazione approssimativa di una categoria umana di impossible kids troppo compatta, priva di ambiguità, di contraddizioni e di tutti quei retroscena personali che dovrebbero infondere nei personaggi il soffio vitale. 

Tutto quello che gli adolescenti (maschi) sembrano saper fare nella serie è trasgredire su vari livelli: uccidendo, scappando dalla polizia, mentendo con grande cognizione di causa, taggando le fiancate dei furgoni, sfottendo i professori, ridendo in faccia ai poliziotti che, di fronte alla classe, annunciano l’omicidio di Katie.

Tutto quello che le adolescenti (femmine) sembrano saper fare nella serie è prima subire la mascolinità aggressiva dei compagni e poi reagire con rabbia, cattiveria o rassegnazione. 

Il risultato è una messinscena di brutture presentate come normalità, smorzate da fugaci momenti di apertura, di fragilità e di tenerezza che risultano essere fin troppo suggeriti e didascalici per essere credibili.

Emblematica in tal senso è la scena in cui il figlio adolescente di Bascombe spiega al padre - per spiegare allo spettatore - il significato segreto delle emoji nei commenti di Instagram, comportandosi di fatto come il boomer che non è. 

Intendiamoci: Adolescence è una serie che si fa guardare. 

Barantini sceglie di girare le quattro puntate interamente in piano sequenza, con la macchina da presa che segue i personaggi fra i corridoi della centrale di polizia, della scuola e di casa, concedendosi anche di prendere il volo in dronate pirotecniche che servono assist facili ai video di making of.  

Gli attori, grandi e piccini, regalano splendide performance: Stephen Graham si conferma un mostro di bravura, al pari di un giovanissimo Owen Cooper, di cui credo si sentirà molto parlare.

Resta però il fatto che la sceneggiatura e la regia di Adolescence ingabbiano i personaggi con una messinscena che si distingue più per quel che ignora, che per quel che mostra.

Nasce così un’opera che tratta lo spettatore con i guanti, che sceglie troppe angolazioni per potersi permettere di entrare davvero nel vivo, che suona forte l’allarme senza prendersi la responsabilità di dar voce ai veri protagonisti della tragedia. E di ascoltarli…

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La natura inevitabilmente true crime della serie, da questo punto di vista, non rinuncia nel lasciare un grande spazio a un’indagine che a modo suo possiede anche un’anima sentimentale, come nell’esplorazione del rapporto tra il detective Bascombe e suo figlio, o nel soffermarsi esplicitamente sui disagi, sui sensi di colpa e sul futuro della famiglia Miller. In tal senso, Adolescence gioca con la messa in scena evitando le trappole tipiche del genere di riferimento. Lo fa perseguendo strade inaspettate, come il vagare errante delle forze dell’ordine nel secondo episodio, incapaci di comprendere fino in fondo i drammi giovanili, e anche nel suo proiettarsi verso una conclusione che non ambisce ad alcun climax edificante, se non la speranza di una ricomposizione famigliare che comprenda il dolore e la sofferenza…

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Adolescence è un capolavoro di scrittura, regia e recitazione, capace di restituire dignità alla narrazione seriale sfruttando una costruzione in quattro episodi autonomi, tutti diversi ma estremamente coerenti, per porre domande aperte sull’inconoscibilità dell’essere umano. I teenagaer, sospesi tra la vulnerabilità dei bambini e il bisogno di conferme degli adulti, rappresentano una cartina da tornasole efficacissima per raccontare il senso di confusione dell’umanità in un mondo privo riferimenti etici, nel quale i social network offrono solo conferme apparenti o rifugi estremamente soffocanti. La serie di Jack Thorne e Stephen Graham evita tuttavia soluzioni sbrigative e tesi preconfezionate, scegliendo una cifra autorale in cui il ricorso al piano sequenza evoca magnificamente la solitudine dei personaggi, l’assenza di un controcampo nelle relazioni, il filo sottile che lega l’esperienza individuale col resto della comunità, l’incapacità d’imboccare la strada giusta dentro un labirinto di scelte. Una visione straziante, indimenticabile e doverosa, per comprendere meglio dove ci troviamo. 

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