venerdì 3 ottobre 2025

Testa o croce? - Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis

in Maremma scoppia una rivolta, siamo negli anni successivi all'unità d'Italia, i poveri si ribellano, e finiscono male, come quasi sempre.

Santino (un addestratore di cavalli) e Rosa (una moglie oppressa dal marito-padrone che uccide l'aguzzino) fuggono inseguiti dai cani e dai soldati, oltre che da Buffalo Bill.

i due protagonisti sono bravissimi, e i due registi pure, il film è pieno di citazioni di tanti film importanti (che non danneggiano la linearità della storia).

in fondo il film è un western, il solito vecchio western pieno di una morale d'altri tempi.

un film che non può dispiacere, promesso.

buona (romantica) visione - Ismaele


 


Testa o croce difatti è un gioco truccato o, quantomeno calcolabile da un algoritmo numerico, in cui non c’è quasi mai l’impressione spettatoriale di potersi lasciar guidare dal capriccio fatale di un singolo lancio di moneta: il film sa sempre dove andare e anche le deviazioni di Santino e Rosa sono state previste prima di mettersi in cammino. Interessante, per contrasto, la caccia di Buffalo Bill che si mostra meno gaglioffo di quello che appare all’inizio e ha, lui sì, la straordinaria capacità di farsi guidare nella sua ricerca da un corvo o dai segnali all’apparenza più fortuiti (un rametto spezzato) che il territorio gli manda. In fondo è proprio lui a mantenere, nonostante e in virtù delle proprie contraddizioni, lucidamente magica la sua visione: “Un vero cowboy ha il cuore di un uomo e l'innocenza di un ragazzo”.

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Divertente? Fino a un certo punto. Perché poi il film un po’ sdrirazza, diventa allucinato e onirico, pure parecchio confuso nell’intrecciare cliché western e rivolte anarcoidi, dettagli macabri ed empiti romantici.

«Se dovete sparare, non sbagliate il bersaglio» sentenzia Buffalo Bill, esibendo la sua vecchia Colt Navy tutta istoriata; mentre il bieco capitalista sogghigna: «Non ci hanno fermatogli scioperi, nessuno fermerà la costruzione della ferrovia». Insomma, avete capito.

Naturalmente, in questa chiave cinefila, i riferimenti si sprecano. I primi che mi vengono in testa? Voglio la testa di Garcia di Sam PeckinpahPer qualche dollaro in più e Giù la testa di Sergio LeoneTepepa di Giulio FerroniQuien Sabe?  di Damano DamianiVamos a matar compañeros  di Sergio Corbucci, l’episodio Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini, forse Buffalo Bill e gli indiani di Robert Altman, certe atmosfere sospese care al Monte Hellman di Le colline blu e chissà quanti altri.

Diviso in quattro capitoli, il film è inconsueto nell’attuale panorama italiano, l’ultimo che provò a fare qualcosa del genere fu Giovanni Veronesi con Il mio West; e certo i due registi debbono essersi parecchio divertiti nel mischiare le carte, tra suggestioni antagoniste, riflessioni sul mito e mosche attaccate alle facce…

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Tutto parte da una vicenda reale, la tournée di Buffalo Bill in Italia e a Roma, nel 1890, culminata nella famosa sfida tra i cowboy americani e i butteri maremmani. Una storia che, naturalmente, nella memoria popolare e nel racconto “da osteria” (quello da cui è sempre partita l’ispirazione di Zoppis e de Righi), si è caricata di invenzioni fantastiche, innesti, superfetazioni. E che, perciò, qui si complica in una storia di fughe d’amore, di soprusi di potere, di rapporti di classe, di rivoluzioni tentate. E di donne che cercano di trovare la loro rotta in un mondo di uomini. Cioè un intricato aggrovigliarsi di linee e di suggestioni, dentro cui, più di una volta, il film rischia di smarrirsi. Ma che i due autori riescono a tenere insieme, grazie alla trasversalità e la distanza del loro sguardo ironico. Che non ha paura di mostrare l’assurdo di una testa (di Garcia) parlante. E che è il riflesso della consapevolezza teorica dell’operazione

Certo. Non tutto si integra alla perfezione in Testa o croce? Se è esatta l’intuizione di trapiantare l’universo western nella Tuscia o, meglio, di guardare quei luoghi come lo scenario naturale di un’avventura western, i due mondi sembrano però mantenere una certa distanza. Come se l’immagine di Zoppis e Rigo de Righi, sempre diretta, immediata nel restituire la verità dei volti e l’essenza dei luoghi, non si trovasse poi perfettamente a proprio agio nell’evocazione del genere e nella gestione dei momenti più genuinamente spettacolari. Eppure la lucidità di individuare i nodi problematici rimane innegabile. Così come la capacità di questo cinema di trasformare la sua radice “realistica” in un viaggio di scoperta, un portale per un’altra dimensione. Come nella splendida scena della caccia alle rane.

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Testa o croce? in verità è il perfetto paradigma di un cinema di autori che più parlano del particolare, del locale, e più lavorano sull’universale; e che più lavorano sull’eterogeneità visiva (quasi la metafora in chiave formale del caos in cui viviamo, contraddistinto dalla crisi climatica, dai grandi flussi migratori, dai rifugiati) e più la forma-film (speculare, anzi osmotica, ai contenuti che veicola) si (tras)muta in un nuovo ordine positivo. In un nuovo tessuto possibile, in un nuovo organismo potenziale. Il tutto per creare un corpus visivo realmente rinnovato, da cui partire per i prossimi anni e del quale il cinema sembra avere un gran bisogno.

Poiché è praticamente una questione alchemica quella che si pone un’ampia parte del nuovo cinema italiano, di cui Zoppis e Rigo de Righi fanno pienamente parte: fare della babele di immagini come delle etnie, dell’eterogeneità visiva e culturale, un nuovo tessuto, fare una nuova omogeneità con l’eterogeneità. Sono film leggeri come una nuvola o un sogno, pur essendo stratificati nella memoria, anzi nelle memorie (degli archetipi, della pittura, del cinema, dei materiali di repertorio, ecc.).

Così come un Pietro Marcello che rievoca con Duse un passato vicino e lontano, trasformando in pittura delle immagini che, a loro volta, rimandano alla storia del cinema, insieme a delle immagini di repertorio che si fondono con il tutto. Oppure quando realizza un (molto) libero adattamento di Martin Eden (2019) di Jack London in terra campana, o prima ancora un film alchemico per definizione come Bella e perduta (2015), girato per intero con pellicola scaduta. O un’Alice Rohrwacher, che con La chimera (2023) – film peraltro basato su un’idea di Pietro Marcello – ci racconta di un mondo sommerso, quello dell’antica etruria, facendo denuncia del presente attraverso un inglese come attore protagonista (Josh O’Connor) e, ancora una volta, con una forma-film che si nutre, con un’intensità di rara delicatezza, del passato, e in particolare del mondo arcaico.

O ancora Maura Delpero che con Vermiglio (2024) realizza una sorta di versione teutonica di L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, in una forma quasi rovesciata ma senza scivolare mai nella vera freddezza, o tantomeno in qualcosa di inumano, e in cui sono presenti i semi di un’altra memoria stratificata, quella del cinema, così come quella socioantropologica. Oppure come nel cinema documentario di Gianfranco Rosi, con l’ultimo magnifico film su Napoli, si rovesciano tutti i punti di riferimento consolidati e stereotipati sulla città e si rievoca, anche qui, una memoria stratificata andata perduta in un film onirico e di denuncia sul tessuto sociale del presente. E così è per altri registi che qui citiamo velocemente, come Michelangelo Frammartino o Giorgio Diritti…

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