in Maremma scoppia una rivolta, siamo negli anni successivi all'unità d'Italia, i poveri si ribellano, e finiscono male, come quasi sempre.
Santino (un addestratore di cavalli) e Rosa (una moglie oppressa dal marito-padrone che uccide l'aguzzino) fuggono inseguiti dai cani e dai soldati, oltre che da Buffalo Bill.
i due protagonisti sono bravissimi, e i due registi pure, il film è pieno di citazioni di tanti film importanti (che non danneggiano la linearità della storia).
in fondo il film è un western, il solito vecchio western pieno di una morale d'altri tempi.
un film che non può dispiacere, promesso.
buona (romantica) visione - Ismaele
…Testa o croce difatti è un gioco truccato o, quantomeno calcolabile da un
algoritmo numerico, in cui non c’è quasi mai l’impressione spettatoriale di
potersi lasciar guidare dal capriccio fatale di un singolo lancio di moneta: il
film sa sempre dove andare e anche le deviazioni di Santino e Rosa sono state
previste prima di mettersi in cammino. Interessante, per contrasto, la caccia
di Buffalo Bill che si mostra meno gaglioffo di quello che appare all’inizio e
ha, lui sì, la straordinaria capacità di farsi guidare nella sua ricerca da un
corvo o dai segnali all’apparenza più fortuiti (un rametto spezzato) che il
territorio gli manda. In fondo è proprio lui a mantenere, nonostante e in virtù
delle proprie contraddizioni, lucidamente magica la sua visione: “Un vero
cowboy ha il cuore di un uomo e l'innocenza di un ragazzo”.
…Divertente?
Fino a un certo punto. Perché poi il film un po’ sdrirazza, diventa allucinato
e onirico, pure parecchio confuso nell’intrecciare cliché western e rivolte
anarcoidi, dettagli macabri ed empiti romantici.
«Se dovete sparare, non sbagliate il bersaglio» sentenzia Buffalo Bill,
esibendo la sua vecchia Colt Navy tutta istoriata; mentre il bieco capitalista
sogghigna: «Non ci hanno fermatogli scioperi, nessuno fermerà la costruzione
della ferrovia». Insomma, avete capito.
Naturalmente, in questa chiave cinefila, i riferimenti si sprecano. I
primi che mi vengono in testa? Voglio
la testa di Garcia di Sam
Peckinpah, Per qualche
dollaro in più e Giù
la testa di Sergio
Leone, Tepepa di Giulio Ferroni, Quien Sabe? di Damano Damiani, Vamos a matar compañeros di Sergio Corbucci, l’episodio Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini, forse Buffalo Bill e gli indiani di Robert Altman, certe atmosfere sospese
care al Monte Hellman di Le colline blu e chissà quanti
altri.
Diviso in quattro capitoli, il film è inconsueto nell’attuale panorama
italiano, l’ultimo che provò a fare qualcosa del genere fu Giovanni Veronesi con Il mio West; e certo i due
registi debbono essersi parecchio divertiti nel mischiare le carte, tra
suggestioni antagoniste, riflessioni sul mito e mosche attaccate alle facce…
…Tutto parte da una vicenda reale, la tournée di Buffalo
Bill in Italia e a Roma, nel 1890, culminata nella famosa sfida tra i cowboy
americani e i butteri maremmani. Una storia che, naturalmente, nella memoria
popolare e nel racconto “da osteria” (quello da cui è sempre partita
l’ispirazione di Zoppis e de Righi), si è caricata di invenzioni fantastiche,
innesti, superfetazioni. E che, perciò, qui si complica in una storia di fughe
d’amore, di soprusi di potere, di rapporti di classe, di rivoluzioni tentate. E
di donne che cercano di trovare la loro rotta in un mondo di uomini. Cioè un
intricato aggrovigliarsi di linee e di suggestioni, dentro cui, più di una
volta, il film rischia di smarrirsi. Ma che i due autori riescono a tenere
insieme, grazie alla trasversalità e la distanza del loro sguardo ironico. Che
non ha paura di mostrare l’assurdo di una testa (di Garcia) parlante. E che è
il riflesso della consapevolezza teorica dell’operazione
Certo. Non tutto si
integra alla perfezione in Testa o croce? Se
è esatta l’intuizione di trapiantare l’universo western nella Tuscia o, meglio,
di guardare quei luoghi come lo scenario naturale di un’avventura western, i
due mondi sembrano però mantenere una certa distanza. Come se l’immagine di Zoppis
e Rigo de Righi, sempre diretta, immediata nel restituire la verità dei volti e
l’essenza dei luoghi, non si trovasse poi perfettamente a proprio agio
nell’evocazione del genere e nella gestione dei momenti più genuinamente
spettacolari. Eppure la lucidità di individuare i nodi problematici rimane
innegabile. Così come la capacità di questo cinema di trasformare la sua radice
“realistica” in un viaggio di scoperta, un portale per un’altra dimensione.
Come nella splendida scena della caccia alle rane.
… Testa o croce? in verità è il perfetto paradigma di un cinema di
autori che più parlano del particolare, del locale, e più lavorano
sull’universale; e che più lavorano sull’eterogeneità visiva (quasi la metafora
in chiave formale del caos in cui viviamo, contraddistinto dalla crisi
climatica, dai grandi flussi migratori, dai rifugiati) e più la forma-film
(speculare, anzi osmotica, ai contenuti che veicola) si (tras)muta in un nuovo
ordine positivo. In un nuovo tessuto possibile, in un nuovo organismo
potenziale. Il tutto per creare un corpus visivo realmente rinnovato, da cui
partire per i prossimi anni e del quale il cinema sembra avere un gran bisogno.
Poiché è praticamente una questione
alchemica quella che si pone un’ampia parte del nuovo cinema italiano, di cui
Zoppis e Rigo de Righi fanno pienamente parte: fare della babele di immagini
come delle etnie, dell’eterogeneità visiva e culturale, un nuovo tessuto, fare
una nuova omogeneità con l’eterogeneità. Sono film leggeri come una nuvola o un
sogno, pur essendo stratificati nella memoria, anzi nelle memorie (degli
archetipi, della pittura, del cinema, dei materiali di repertorio, ecc.).
Così come un Pietro Marcello che
rievoca con Duse un
passato vicino e lontano, trasformando in pittura delle immagini che, a loro
volta, rimandano alla storia del cinema, insieme a delle immagini di repertorio
che si fondono con il tutto. Oppure quando realizza un (molto) libero
adattamento di Martin Eden (2019)
di Jack London in terra campana, o prima ancora un film alchemico per
definizione come Bella e perduta (2015),
girato per intero con pellicola scaduta. O un’Alice Rohrwacher, che con La chimera (2023)
– film peraltro basato su un’idea di Pietro Marcello – ci racconta di un mondo
sommerso, quello dell’antica etruria, facendo denuncia del presente attraverso
un inglese come attore protagonista (Josh O’Connor) e, ancora una volta, con
una forma-film che si nutre, con un’intensità di rara delicatezza, del passato,
e in particolare del mondo arcaico.
O ancora Maura Delpero che con Vermiglio (2024)
realizza una sorta di versione teutonica di L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, in
una forma quasi rovesciata ma senza scivolare mai nella vera freddezza, o
tantomeno in qualcosa di inumano, e in cui sono presenti i semi di un’altra
memoria stratificata, quella del cinema, così come quella socioantropologica.
Oppure come nel cinema documentario di Gianfranco Rosi, con l’ultimo magnifico film su Napoli,
si rovesciano tutti i punti di riferimento consolidati e stereotipati sulla
città e si rievoca, anche qui, una memoria stratificata andata perduta in un
film onirico e di denuncia sul tessuto sociale del presente. E così è per altri
registi che qui citiamo velocemente, come Michelangelo Frammartino o Giorgio
Diritti…
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