Sono stato
un po’ in giro nel Sud Italia. Piacevolissima esperienza. Se me la tirassi lo
chiamerei tour promozionale. In realtà, ho incontrato un sacco di studenti, ma
proprio un sacco, tra Campania e Molise (di cui,
a questo punto, posso testimoniare la reale esistenza), obbligati dai loro
insegnanti a sentir parlare di Storia e cinema. C’è da dire che sono stati al
gioco e hanno abbozzato benissimo, talmente bene che al termine di uno di
questi incontri, in cui per tutto il tempo avevo insistito sulla necessità di
“dimostrare” ciò che accade, altrimenti, vivendo in questa cultura della mostrazione,
nessuno sarebbe disposto a credere a nulla, si sono timidamente
avvicinati due studenti e mi hanno lasciato un foglio con alcune loro
riflessioni da sottopormi. Stupendo. Ma fantastico davvero il fatto
che qualcuno pensi di riflettere sulle tue parole. Lasciate perdere la
questione che se qualcuno si avvicina timidamente e addirittura ragiona su ciò
che hai detto ha una considerazione totalmente alterata di te che corrisponde
poco alla paraculica realtà, ma è stato bello lo stesso illudersi, in quel
momento.
La
riflessione partiva dal film di Rithy Panh L’immagine mancante,
ovvero dalla strenua e ossessiva ricerca di documenti filmati o perlomeno
fotografati che potessero in qualche modo sostanziare il dramma del popolo
cambogiano oppresso dal regime dei Khmer rossi di Pol Pot (dei quali, devo
ammetterlo, ho sempre trovato irresistibile la sciarpetta, la krama). E in
effetti, quella dei due studenti, un ragazzo e una ragazza,
era una riflessione molto matura, che forse avrete capito se avete visto il
film: la tragedia della Cambogia possiede infatti questo buco paradossale, a
causa del quale, senza le immagini che si sedimentano in memoria (di un intero
popolo) quella stessa memoria diventa lacunosa, perfino discutibile,
quando non addirittura, nei casi più estremi, negabile. Pensate se non ci
fossero state le immagini dai campi di sterminio, una volta aperti e liberati.
Pensate se qualcuno non riuscisse a documentare Gaza, malgrado gli sforzi
grotteschi, se il risvolto non fosse assolutamente tragico, da parte di
influencer prezzolati dagli israeliani per dimostrare quanto si stessero ingozzando i palestinesi,
altro che ridotti alla fame. Quasi un video promozionale dell’ente del turismo.
L’immagine
mancante (il
singolo film, ma anche il principio più ampio) è il lavoro sullo spazio
negativo, su un fuoricampo totale che dev’essere recuperato per potersi
ancorare a una liturgia del ricordo che eviti pericolose rimozioni. È
il succo della Storia del Novecento. È quello che fa in pratica
il cinema dalla fine dell’Ottocento (nel catalogo Lumiére, quando smettevano di
riprendere treni e annaffiatori annaffiati, c’erano un sacco di film su visite
di regnanti ed eventi storici, magari ricreati appositamente). È l’idea
all’origine del testo presentato
nel corso degli incontri di cui sopra. È quello che ho ripetuto come un disco
rotto in questi giorni agli studenti così cortesi da ascoltarmi (ringrazio
pubblicamente).
D’altronde,
se un albero cade nel fitto di un bosco senza che nessuno lo veda, è caduto
veramente?, si chiedeva George Berkeley fin dal ‘700, anche se io l’ho letto la
prima volta in un libro di Joyce Maynard.
C’è una data
precisa in cui ogni accadimento è diventato quasi esclusivamente un problema di
percezione: 16 gennaio 1991. Inizio ufficiale della Guerra del Golfo. È stato il primo evento
globale a entrare nelle case di ogni famiglia, consentendo di vivere in tempo
pressoché reale le operazioni belliche. Chiedo ai più attempati: ve le
ricordate le immagini delle esplosioni e dei raggi verdognoli che solcavano i
cieli scuri proposti dagli schermi televisivi mentre Emilio Fede orgasmava?
Quelle, esatto.
Quello è
stato il momento in cui la Storia ha avuto un suo sviluppo totalmente
complementare fatto di immagini in diretta e da lì in avanti non è
stato più possibile pensare agli eventi, di qualsiasi natura, senza che ci fosse
un’immagine a dimostrarne la veridicità. Poi ci siamo deformati
completamente. Come umanità, intendo. Perché sono arrivati gli smartphone e
tutti si sono sentiti Kubrick. Ma con un’etica differente, soprattutto quando
si riprendono, immobili, un incidente stradale o una rissa come se si fosse un
corpo estraneo e non si sentisse affatto l’esigenza di dover intervenire per
tentare di salvare il salvabile (è la natura umana, bellezza. Ce lo aveva detto
già 74 anni fa Billy Wilder in quel capolavoro che è L’asso nella
manica).
Ma
indignarsi sgrava solo le coscienze e invece lo smartphone ha anche dei
risvolti positivi, perché l’altro grande evento, quello che segna il
punto di reale non ritorno e dopo il quale nessuno — NESSUNO — è stato più lo
stesso di prima è l’11 settembre, ossia, guardandolo in una certa
prospettiva, il momento nel quale la Storia è stata catturata in
diretta da chiunque avesse uno strumento per la registrazione a portata di mano:
ossia tutti (ed è la grande differenza rispetto al video in 8 mm di Abraham Zapruder che
nel ’63 a Dallas riprese l’assassinio di Kennedy). Non solo percezione
in diretta, come nella Guerra del Golfo, ma partecipazione diretta a
un trauma vissuto nell’istante in cui il secondo aereo si è schiantato sulla
torre sud ed è stato ripreso da centinaia di telefoni che hanno contribuito a
creare un immaginario collettivo del disastro. L’osservare che diventa
l’esserci: l’esistenza trasformata in essenza compartecipe dell’evento.
Una
proliferazione mai vista di immagini. Da tutte le distanze, da ogni
angolazione, con qualunque grana, con le singola urla di raccapriccio a
emergere nitide sullo sfondo sonoro (comunque gli «Oh, my God!» si attestarono
almeno al 90%). Talmente proliferante che per il cinema americano divenne irrapresentabile:
tutt’altro che una rimozione, quanto il riconoscimento che
l’eventuale ricostruzione drammatica era già stata superata dalla Storia
vissuta in prima persona attraverso le immagini di ognuno. La
rappresentazione resa inutile dall’essenza. E il cinema si diede direttamente
all’elaborazione del lutto, dando per scontato il trauma per manifesta
inflazione oppure cancellandolo come immagine, riconoscendo di aver perso
l’impari lotta. Come fecero due grandi nomi, non due sfigati qualunque,
come Alejandro González Iñárritu e Kathyrin Bigelow,
i quali si limitarono a mostrare uno schermo completamente nero animato dai
lanci telegiornalistici e da brevissimi flash drammatici sui corpi in caduta
dalle torri (Iñárritu, nel suo episodio del film collettivo 11
settembre 2001) oppure dalle voci disperate delle vittime al telefono,
con tutta l’angoscia consapevole di un destino segnato (la Bigelow, come
preambolo della caccia a Bin Laden raccontata in Zero Dark Thirty,
ben 11 anni dopo).
Ma queste
sono scelte personali e artistiche meditate. Dovute alla chiara coscienza di
un’evoluzione rappresentativa e percettiva. Altre decisioni invece sono
imposte e la conseguente mancanza delle immagini mostra l’arroganza e,
indirettamente, la stupidità del potere che si premura di censurare
ciò che è avvertito come scomodo, imbarazzante. Quindi pericoloso, perché
genera dissenso, discussione, messa in dubbio. Si tratta anche, ma fingono di
non accorgersene, dell’ammissione involontaria di un’ottusità di fondo, perché
nella contemporaneità in cui tutto diventa velocemente noto grazie al
tambureggiamento ecoico dei social sortisce l’effetto contrario. Ossia un
boomerang. Non sono più i tempi in cui un film (bellissimo) come Il
leone del deserto, kolossal realizzato da Moustapha Akkad e
prodotto dagli americani anche con i soldi di Gheddafi, con un cast fantastico
(Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger nei consueti panni di Mussolini) e
l’intento di denunciare la violenta repressione del generale Rodolfo
Graziani, plenipotenziario militare del Duce in Libia, veniva vietato da
Andreotti per vilipendio delle forze armate (fasciste, occorre ricordarlo). Un
film cancellato perché sfatava l’ormai sfiatato mito degli “italiani brava
gente”, impossibile da vedere almeno fino al 2009, quando Sky lo trasmise; 29
anni dopo la sua uscita, però. Non sono più i tempi perché,
pur essendo ancora indisponibile in Italia in qualunque formato casalingo (DVD
o Blu-Ray) e pur avendo ottenuto il visto della censura solo lo scorso anno, 44
anni dopo l’essere stato ultimato, l’invisibilità ormai si può aggirare in
molti modi che ben conoscete (non ve li devo certo suggerire io). Con buona
pace di una censura démodé.
Eppure il
potere non demorde. Qua sopra abbiamo parlato più volte dell’essenzialità di un
film come No Other Land, che non dovrebbe essere solo un
film di nicchia, tanto più che è riuscito a vincere un Oscar all’interno di
un’enclave americana, quella dei produttori di Hollywood, che proprio così
distante dalle simpatie israeliane non è (mi sono tenuto larghissimo).
Ebbene, No Other Land, inizialmente programmato per il 7 ottobre su
Raitre in prima serata, è stato cancellato dal palinsesto da una misteriosa
telefonata giunta in viale Mazzini da qualcuno molto vicino al Governo. Il
problema è che ora come ora un tentativo di cancellazione rivelato da
stampa e social (più social che stampa, a essere onesti) concentra
l’attenzione sull’atto in sé, riuscendo nell’intento di attirare anche
alcuni di coloro che non erano ancora informati circa la messa in onda. Un’immagine
cancellata che lavora con gli stessi meccanismi psicoanalitici del feticcio:
attirare l’attenzione sulla mancanza spostandola su qualcos’altro che ne
rifletta l’effettiva esistenza. In questo caso, la possibilità di vederlo
ugualmente con mezzi più o meno leciti. Perché questa possibilità c’è.
Praticamente sempre (era nel palinsesto di Mubi, ma anche lì è durato poco).
Consapevoli di questo, dopo un primo, iniziale, momento di smarrimento, il film
è stato riprogrammato per la sera del 21 ottobre. Staremo a vedere: è pur
sempre un film filopalestinese, d’altronde. E la Palestina sarà riconosciuta
quando sarà il caso, dicono ogni paio di giorni dal Governo.
Tutto questo
solo per dire che l’immagine non può più risultare mancante e
il mondo non può diventare una nuova Cambogia. Perché se lo diventa, pur con
tutti i vincoli sociali e politici, a qualunque latitudine, Cina e Iran
compresi, la mancanza è solo la nostra e la colpa è quella di non essere stati
i soggetti attivi e partecipativi che questo periodo storico permette che
ognuno di noi sia.
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