lunedì 20 ottobre 2025

L’immagine mancante - Giampiero Frasca


Sono stato un po’ in giro nel Sud Italia. Piacevolissima esperienza. Se me la tirassi lo chiamerei tour promozionale. In realtà, ho incontrato un sacco di studenti, ma proprio un sacco, tra Campania e Molise (di cui, a questo punto, posso testimoniare la reale esistenza), obbligati dai loro insegnanti a sentir parlare di Storia e cinema. C’è da dire che sono stati al gioco e hanno abbozzato benissimo, talmente bene che al termine di uno di questi incontri, in cui per tutto il tempo avevo insistito sulla necessità di “dimostrare” ciò che accade, altrimenti, vivendo in questa cultura della mostrazione, nessuno sarebbe disposto a credere a nulla, si sono timidamente avvicinati due studenti e mi hanno lasciato un foglio con alcune loro riflessioni da sottopormi. Stupendo. Ma fantastico davvero il fatto che qualcuno pensi di riflettere sulle tue parole. Lasciate perdere la questione che se qualcuno si avvicina timidamente e addirittura ragiona su ciò che hai detto ha una considerazione totalmente alterata di te che corrisponde poco alla paraculica realtà, ma è stato bello lo stesso illudersi, in quel momento.

La riflessione partiva dal film di Rithy Panh L’immagine mancante, ovvero dalla strenua e ossessiva ricerca di documenti filmati o perlomeno fotografati che potessero in qualche modo sostanziare il dramma del popolo cambogiano oppresso dal regime dei Khmer rossi di Pol Pot (dei quali, devo ammetterlo, ho sempre trovato irresistibile la sciarpetta, la krama). E in effetti, quella dei due studenti, un ragazzo e una ragazza, era una riflessione molto matura, che forse avrete capito se avete visto il film: la tragedia della Cambogia possiede infatti questo buco paradossale, a causa del quale, senza le immagini che si sedimentano in memoria (di un intero popolo) quella stessa memoria diventa lacunosa, perfino discutibile, quando non addirittura, nei casi più estremi, negabile. Pensate se non ci fossero state le immagini dai campi di sterminio, una volta aperti e liberati. Pensate se qualcuno non riuscisse a documentare Gaza, malgrado gli sforzi grotteschi, se il risvolto non fosse assolutamente tragico, da parte di influencer prezzolati dagli israeliani per dimostrare quanto si stessero ingozzando i palestinesi, altro che ridotti alla fame. Quasi un video promozionale dell’ente del turismo.

L’immagine mancante (il singolo film, ma anche il principio più ampio) è il lavoro sullo spazio negativo, su un fuoricampo totale che dev’essere recuperato per potersi ancorare a una liturgia del ricordo che eviti pericolose rimozioni. È il succo della Storia del Novecento. È quello che fa in pratica il cinema dalla fine dell’Ottocento (nel catalogo Lumiére, quando smettevano di riprendere treni e annaffiatori annaffiati, c’erano un sacco di film su visite di regnanti ed eventi storici, magari ricreati appositamente). È l’idea all’origine del testo presentato nel corso degli incontri di cui sopra. È quello che ho ripetuto come un disco rotto in questi giorni agli studenti così cortesi da ascoltarmi (ringrazio pubblicamente).

D’altronde, se un albero cade nel fitto di un bosco senza che nessuno lo veda, è caduto veramente?, si chiedeva George Berkeley fin dal ‘700, anche se io l’ho letto la prima volta in un libro di Joyce Maynard.

C’è una data precisa in cui ogni accadimento è diventato quasi esclusivamente un problema di percezione: 16 gennaio 1991. Inizio ufficiale della Guerra del Golfo. È stato il primo evento globale a entrare nelle case di ogni famiglia, consentendo di vivere in tempo pressoché reale le operazioni belliche. Chiedo ai più attempati: ve le ricordate le immagini delle esplosioni e dei raggi verdognoli che solcavano i cieli scuri proposti dagli schermi televisivi mentre Emilio Fede orgasmava? Quelle, esatto.

Quello è stato il momento in cui la Storia ha avuto un suo sviluppo totalmente complementare fatto di immagini in diretta e da lì in avanti non è stato più possibile pensare agli eventi, di qualsiasi natura, senza che ci fosse un’immagine a dimostrarne la veridicità. Poi ci siamo deformati completamente. Come umanità, intendo. Perché sono arrivati gli smartphone e tutti si sono sentiti Kubrick. Ma con un’etica differente, soprattutto quando si riprendono, immobili, un incidente stradale o una rissa come se si fosse un corpo estraneo e non si sentisse affatto l’esigenza di dover intervenire per tentare di salvare il salvabile (è la natura umana, bellezza. Ce lo aveva detto già 74 anni fa Billy Wilder in quel capolavoro che è L’asso nella manica).

Ma indignarsi sgrava solo le coscienze e invece lo smartphone ha anche dei risvolti positivi, perché l’altro grande evento, quello che segna il punto di reale non ritorno e dopo il quale nessuno — NESSUNO — è stato più lo stesso di prima è l’11 settembre, ossia, guardandolo in una certa prospettiva, il momento nel quale la Storia è stata catturata in diretta da chiunque avesse uno strumento per la registrazione a portata di mano: ossia tutti (ed è la grande differenza rispetto al video in 8 mm di Abraham Zapruder che nel ’63 a Dallas riprese l’assassinio di Kennedy). Non solo percezione in diretta, come nella Guerra del Golfo, ma partecipazione diretta a un trauma vissuto nell’istante in cui il secondo aereo si è schiantato sulla torre sud ed è stato ripreso da centinaia di telefoni che hanno contribuito a creare un immaginario collettivo del disastro. L’osservare che diventa l’esserci: l’esistenza trasformata in essenza compartecipe dell’evento.

Una proliferazione mai vista di immagini. Da tutte le distanze, da ogni angolazione, con qualunque grana, con le singola urla di raccapriccio a emergere nitide sullo sfondo sonoro (comunque gli «Oh, my God!» si attestarono almeno al 90%). Talmente proliferante che per il cinema americano divenne irrapresentabile: tutt’altro che una rimozione, quanto il riconoscimento che l’eventuale ricostruzione drammatica era già stata superata dalla Storia vissuta in prima persona attraverso le immagini di ognuno. La rappresentazione resa inutile dall’essenza. E il cinema si diede direttamente all’elaborazione del lutto, dando per scontato il trauma per manifesta inflazione oppure cancellandolo come immagine, riconoscendo di aver perso l’impari lotta. Come fecero due grandi nomi, non due sfigati qualunque, come Alejandro González Iñárritu Kathyrin Bigelow, i quali si limitarono a mostrare uno schermo completamente nero animato dai lanci telegiornalistici e da brevissimi flash drammatici sui corpi in caduta dalle torri (Iñárritu, nel suo episodio del film collettivo 11 settembre 2001) oppure dalle voci disperate delle vittime al telefono, con tutta l’angoscia consapevole di un destino segnato (la Bigelow, come preambolo della caccia a Bin Laden raccontata in Zero Dark Thirty, ben 11 anni dopo).

Ma queste sono scelte personali e artistiche meditate. Dovute alla chiara coscienza di un’evoluzione rappresentativa e percettiva. Altre decisioni invece sono imposte e la conseguente mancanza delle immagini mostra l’arroganza e, indirettamente, la stupidità del potere che si premura di censurare ciò che è avvertito come scomodo, imbarazzante. Quindi pericoloso, perché genera dissenso, discussione, messa in dubbio. Si tratta anche, ma fingono di non accorgersene, dell’ammissione involontaria di un’ottusità di fondo, perché nella contemporaneità in cui tutto diventa velocemente noto grazie al tambureggiamento ecoico dei social sortisce l’effetto contrario. Ossia un boomerang. Non sono più i tempi in cui un film (bellissimo) come Il leone del deserto, kolossal realizzato da Moustapha Akkad e prodotto dagli americani anche con i soldi di Gheddafi, con un cast fantastico (Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger nei consueti panni di Mussolini) e l’intento di denunciare la violenta repressione del generale Rodolfo Graziani, plenipotenziario militare del Duce in Libia, veniva vietato da Andreotti per vilipendio delle forze armate (fasciste, occorre ricordarlo). Un film cancellato perché sfatava l’ormai sfiatato mito degli “italiani brava gente”, impossibile da vedere almeno fino al 2009, quando Sky lo trasmise; 29 anni dopo la sua uscita, però. Non sono più i tempi perché, pur essendo ancora indisponibile in Italia in qualunque formato casalingo (DVD o Blu-Ray) e pur avendo ottenuto il visto della censura solo lo scorso anno, 44 anni dopo l’essere stato ultimato, l’invisibilità ormai si può aggirare in molti modi che ben conoscete (non ve li devo certo suggerire io). Con buona pace di una censura démodé.

Eppure il potere non demorde. Qua sopra abbiamo parlato più volte dell’essenzialità di un film come No Other Land, che non dovrebbe essere solo un film di nicchia, tanto più che è riuscito a vincere un Oscar all’interno di un’enclave americana, quella dei produttori di Hollywood, che proprio così distante dalle simpatie israeliane non è (mi sono tenuto larghissimo). Ebbene, No Other Land, inizialmente programmato per il 7 ottobre su Raitre in prima serata, è stato cancellato dal palinsesto da una misteriosa telefonata giunta in viale Mazzini da qualcuno molto vicino al Governo. Il problema è che ora come ora un tentativo di cancellazione rivelato da stampa e social (più social che stampa, a essere onesti) concentra l’attenzione sull’atto in sé, riuscendo nell’intento di attirare anche alcuni di coloro che non erano ancora informati circa la messa in onda. Un’immagine cancellata che lavora con gli stessi meccanismi psicoanalitici del feticcio: attirare l’attenzione sulla mancanza spostandola su qualcos’altro che ne rifletta l’effettiva esistenza. In questo caso, la possibilità di vederlo ugualmente con mezzi più o meno leciti. Perché questa possibilità c’è. Praticamente sempre (era nel palinsesto di Mubi, ma anche lì è durato poco). Consapevoli di questo, dopo un primo, iniziale, momento di smarrimento, il film è stato riprogrammato per la sera del 21 ottobre. Staremo a vedere: è pur sempre un film filopalestinese, d’altronde. E la Palestina sarà riconosciuta quando sarà il caso, dicono ogni paio di giorni dal Governo.

Tutto questo solo per dire che l’immagine non può più risultare mancante e il mondo non può diventare una nuova Cambogia. Perché se lo diventa, pur con tutti i vincoli sociali e politici, a qualunque latitudine, Cina e Iran compresi, la mancanza è solo la nostra e la colpa è quella di non essere stati i soggetti attivi e partecipativi che questo periodo storico permette che ognuno di noi sia.

da qui

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