sarà una scoperta per alcuni distratti vedere nel film che "c'era il deserto e gli israeliani ne hanno fatto un giardino" era una bugia grande come un grattacielo e che gli inglesi i maledetti inglesi, avrebbero protetto i palestinesi.
invece le cose andarono molto diversamente e oggi, nell'inazione del mondo, si complie il progetto originario.
il film racconta la storia di una famiglia dal 1948 a oggi, una famiglia buona, gentile, formata da persone meravigliose, tutti e tutte, alla mercè di uno stato che opprime, umilia, tiranneggia, incarcera, tortura, uccide i palestinesi, eccellente rappresentante dell'impero del MALE, i colonialisti, gli imperialisti, i razzisti, gli assassini.
il film non fa proclami, non urla, non mostra combattenti palestinesi assatanati, solo persone che cercano di resistere, pacificamente, in attesa di un aiuto che non verrà mai.
è un film politico, sì, con attori e attrici davvero bravi, compresi i bambini.
un film da non perdere, promesso, solo in una sessantina di sale, purtroppo, non ci sono supereroi,solo eroi normali.
buona (palestinese) visione - Ismaele
ps: fra qualche anno, se e quando passerà in tv, cercheranno di non farlo vedere, perchè è un film di parte (come lo era Schindler's List , d'altronde), magari con un dibattito fra un comandante del gentile esercito genocida israeliano e un palestinese morto, donna o bambino o medico, chissà.
…Vedendo
questo film vengono alla mente le parole pronunciate nel febbraio di quest'anno
ad una radio ultraortodossa dal vicepresidente della Knesset (il parlamento
israeliano): "Chi è innocente a Gaza? I civili sono usciti e hanno
massacrato la gente a sangue freddo. Sono feccia, subumani, nessuno al mondo li
vuole. I bambini e le donne vanno separati e gli adulti eliminati." Sono
parole che dovrebbero far rabbrividire chiunque si ritenga umano e, purtroppo,
non si tratta di una fake news.
Questo film ci porta dalla parte dei 'subumani' e ce ne
mostra la vita nel susseguirsi degli anni, mostrando come chi viene sottoposto
a soprusi non venga messo nella condizione di poter sviluppare sentimenti di
fratellanza ma possa conservare comunque un senso profondo di umanità…
…Numerosi sono gli elementi che rendono questo film emozionante:
l’amore familiare, la fede religiosa, il legame profondo con la terra e la sua
coltivazione, l’attaccamento alle origini e alle tradizioni, l’educazione
scolastica vissuta in un contesto ostile e proibitivo. E infine, come vertice
emotivo e morale della narrazione, il dibattito sulla donazione degli organi,
reso esplicito e comprensibile attraverso le parole di Salim: è giusto che gli organi di Noor
possano salvare vite che, un giorno, potrebbero tornare a puntare un’arma
contro un palestinese? Il finale, intriso di malinconia, trasforma
la grande Storia in un dilemma etico angosciante: da un lato, la generosità di
un corpo che dona; dall’altro, la possibilità che quel dono permetta la
sopravvivenza di un nemico. Cosa è giusto fare? Fino a che punto si può essere
misericordiosi verso chi potrebbe non ricambiare quella pietà? Ora Salime Hanan portano i
segni del tempo - capelli bianchi, rughe profonde, anche nell’anima - ma anche
la maturità necessaria per affrontare una scelta dolorosa e il coraggio di
incontrare il giovane che vive grazie al cuore di Noor. Un cuore che batte
proprio a Jaffa, città da cui Salim era fuggito decenni prima, e che ora visita
per la prima e unica volta. In quell’incontro difficile, la regista sottolinea,
suo malgrado, la distanza che ancora separa i due popoli. Oggi Salim e Hanan
vivono in Canada, emigrati come tanti, con il cuore colmo di tristezza e la
memoria ancora viva.
Parafrasando il titolo, tutto quello che resta di Noor è altrove, è in
altri, ma resta nel cuore dei genitori. Ma quello che resta non è solo memoria
o dolore, ma anche dignità, affetto, valori, e la volontà di trasmettere tutto
ciò alle generazioni future. È un modo poetico per dire che, nonostante tutto,
qualcosa sopravvive e quel qualcosa è ciò che ci definisce. Cosa resta davvero
di noi, quando tutto il resto ci è stato tolto?
Film che rapisce, che incanta, che commuove, che
colpisce soprattutto perché, dal 1948, non solo nulla è cambiato ma addirittura
il presente non indica alcun futuro per chi viveva in santa pace nella propria
terra. Il disastro è tra noi. Che brava Cherien Dabis!
Che dolcezza nella sua interpretazione: il più sensibile dei personaggi, la
rappresentazione più limpida di una donna moralmente elevata. Ed una grande
artista, capace di approfondire ogni personaggio, fino al punto di farceli
capire tutti, uno ad uno.
Un film che lascia il segno, imperdibile, una storia
che risuona con il presente. Una famiglia spezzata dall’esilio, un cuore che
batte oltre il confine, un’eredità che nessuna guerra può cancellare. Tutto quello che resta di te: quando la memoria diventa
resilienza.
…Quarant’anni non solo per muoversi attraverso tre
generazioni della stessa famiglia – Sharif, che nel 1948 abbandona la sua casa
a Giaffa, con lo splendido aranceto, solo quando i militari israeliani lo
stordiscono, imprigionano e costringono ai lavori forzati; suo figlio Salim,
che in esilio in Cisgiordania cerca di perseguire la poesia e l’insegnamento;
il figlio di Salim, Noor, che già da bimbo sperimenta la crudeltà israeliana
per poi trovarsi nel bel mezzo degli scontri della prima Intifada, che prese il
via nel campo profughi di Jabaliya nel 1987 per poi estendersi a Gaza, nella
succitata Cisgiordania e nella parte orientale di Gerusalemme – ma anche per
testimoniare a chi ritiene che ciò che sta accadendo oggi a Gaza, con lo
sterminio, l’affamamento e la deportazione, sia una risposta magari anche
“esagerata” ai fatti del 7 ottobre 2023 come questo sia un errore grave.
Narrativamente Dabis sa come gestire ingredienti già noti, tipici del mélo
famigliare, e lo fa con evidente solidità, senza concedersi deviazioni dal
percorso. Analizza il dolore, l’accettazione del lutto, il tentativo di trovare
una dimensione umana all’interno della barbarie, la necessità di
ribadire alcuni punti fermi, a partire dal fatto che quelle terre che oggi sono
abitate da israeliani, in alcuni casi a pochi minuti a piedi dal mare, non
erano “di nessuno”, ma avevano una storia famigliare decennale se non secolare.
Di queste memorie interrotte si interessa Tutto quello che resta di te, trovando la sua dimensione più felice quando si muove tra
il 1948 e il 1978 e faticando un po’ di più nella parte finale, soprattutto
quando la rappresentazione riguarda la contemporaneità – di salti temporali il
film ne presenta molti. È interessante soprattutto la messa in scena del mondo
israeliano, perché se da un lato la rappresentazione dei militari non prevede
deviazioni dal concetto di “villain”, dall’altro anche i singoli cittadini,
perfino quelli che non hanno servito nell’esercito, sono raccontati come
ignavi, o forse persino incapaci di comprendere fino in fondo le iniquità che
il loro Stato ha commesso nei confronti di un popolo a cui non è riconosciuto
nemmeno il diritto di esistere da un punto di vista istituzionale (si vedano i
siparietti in ospedale, o l’incontro della saggia e non compromissoria Hanan –
sposa di Salim e mamma di Noor, interpretata dalla stessa regista – con un uomo
che ha qualcosa in comune con la sua famiglia). Un popolo assopito, quello
israeliano, così abituato a esercitare il potere dopo l’immane tragedia della
Shoah da non porsi nemmeno il dubbio di quel che si sta mettendo in pratica.
Dabis non cerca comunque lo scontro, preferisce alimentare il magone di un
pubblico che non può non aderire alle paturnie della povera famiglia
protagonista, che tutto ha perso e nulla può pensare di recuperare, se non
farsi fotografare di fronte a un finto fondale marino o davanti alla casa che un
tempo fu sua, e da quasi ottant’anni più sua non è. Attraverso un racconto in
tutto e per tutto popolare Tutto quello che resta di te prova a ricordare, in un film a suo modo fluviale,
l’infinita ingiustizia patita dalla Palestina e dalla sua gente. Questo nulla
smuoverà, ovviamente, ma è un’operazione doverosa.
…La regia di Cherien Dabis è
caratterizzata da un profondo e crudo realismo, che si manifesta nella
scelta di uno sguardo diretto, privo di artifici, capace di restituire con
autenticità la vita quotidiana dei personaggi. La macchina da presa si muove
con discrezione, ma con precisione chirurgica, soffermandosi sui paesaggi, sui dettagli delle abitazioni,
sugli oggetti che raccontano storie silenziose. Ogni elemento visivo è carico
di significato: le crepe sui muri, le fotografie incorniciate, le tende mosse
dal vento. Nulla è decorativo, tutto è narrativo.
Le transizioni temporali, seppur improvvise, non spezzano
la coerenza del racconto. Al contrario, si inseriscono con naturalezza nella
struttura narrativa, contribuendo a costruire un flusso di memoria che attraversa le generazioni.
Il montaggio e la fotografia —
firmata da Christopher Aoun — lavorano in perfetta sintonia,
creando un linguaggio visivo coerente, sobrio, ma potentemente evocativo. La
luce, spesso naturale, scolpisce i volti e gli spazi con delicatezza, mentre il
ritmo del montaggio accompagna le emozioni senza forzarle.
La memoria, in questa storia, non è semplice nostalgia. È
un elemento salvifico,
una chiave per comprendere il presente e per costruire un’identità collettiva.
In un’opera che è al tempo stesso umana e politica, la memoria diventa strumento di resistenza,
di trasmissione, di riconoscimento. Non si tratta di ricordare per rimpiangere,
ma di ricordare per capire,
per dare senso alle ferite, per riconnettere le storie individuali alla storia
di un popolo…
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