in un film doppio
il regista finge di essere suo padre mentre lui, figlio di suo padre, viene interpretato dal figlio del regista ,
ma anche il regista è se stesso e il figlio è suo figlio.
sembra difficile, ma seduti in sala si capisce bene.
il cinema salva la vita, nonostante tutto, sembra dire Bonifacio Angius, e noi ci crediamo.
il film è denso di citazioni, e l'ultima scena, con il bambino che si allontana, come Charlot, è un capolavoro.
difficile che un film come questo, senza supereroi e senza omicidi, arrivi in sala, ma cercatelo (e se non lo portano convincete, con le buone, i gestori delle sale che frequentate), è un film che merita davvero.
intanto, se ci riuscite, buona (sorprendente) visione - Ismaele
…Un film su un padre amato, odiato,
sofferto e perduto, e al contempo sull’essere padre di un figlio,
sulle dinamiche manipolatorie di un amore velenoso e sulla spirale
autodistruttiva e tossicodipendente di una conseguente depressione, e nel
frattempo inevitabilmente un film magnificamente teorico sul cinema e sul suo
senso, sulla sua centralità, sul suo possibile meta-intrecciarsi in un prisma
di istanti e di immagini che si inseguono modulari e inalienabili in ogni
battito di palpebre. Un cinema da amare da spettatori in sala, un cinema da
omaggiare da attore e regista nel teatro di posa, un cinema da scardinare nella
forma e soprattutto un cinema da portare a termine a ogni costo, se necessario
anche riprendendosi dalle crisi, anche affrontando di petto il dolore, anche
risvegliandosi dalla morte. Un cinema che imita e finge una realtà alternativa
per trovare la verità in un mondo di bugie, un cinema che parla direttamente
all’inconscio e che «può farti una sorpresa dopo anni», un cinema come universo
parallelo in cui entrare per «rimanere al riparo» dall’esterno. Un cinema come
terapia, come assoluta sincerità, come commozione, come catarsi. Come estremo e
definitivo atto d’amore, perché «ci vuole sempre amore per raccontare una
storia, e per raccontarla ancora meglio lo devi aver perduto»…
…Solo
attraverso il (meta)cinema è possibile uscirne, fra dialoghi, situazioni,
ironia sorniona e le voci fuori campo che legano insieme analessi e prolessi,
verità e finzioni, livelli apparentemente infiniti di passato e futuro che
continuano a rincorrersi, come a voler intrappolare nelle immagini i dolori e
le ossessioni per renderli visibili, affrontabili, battibili. Commossi. Con i
padri che ritornano figli e con i figli che incarnano e fanno rivivere i padri,
con le locandine dei precedenti lavori di Angius e con i baffi posticci con cui
(ri)cambiare identità e tornare se stesso, con le botte che dopo tanti anni
ancora fanno male e con quella porta chiusa in faccia proprio nel momento di
massima fragilità. Con il bianco e nero che si alterna al colore così come i
capitoli si intrecciano in una storia non lineare, e con un’involontaria
e chapliniana disobbedienza sul set che sembra quasi un
invito all’emancipazione, alla costruzione di un futuro proprio e unico, a un
nuovo e ulteriore orizzonte di speranza in cui non smettere mai di raccontare
con amore una storia d’amore, e sublimare così ogni sofferenza nella bellezza e
nella magia del cinema. Che magari non basterà per arrivare a fare proprio la
Rivoluzione, ma sul quale si possono ancora dire tante cose bellissime.
…O si sa scrivere con
le parole, come l'autore a cui vengono attribuite riflessioni non prive di
spessore, oppure lo si può fare con le stesse che trovano spazio in
inquadrature sempre alla ricerca di una composizione interna capace di offrire
a chi guarda una molteplicità di dimensioni. Si va dal realismo più immediato
ad immagini che rendono simbolici gli oggetti (vedi il barchino) alternando
colore e bianco e nero. Con al centro un bisogno viscerale di poter riuscire ad
essere un padre diverso da quello che è stato il suo anche se il rischio di
vedere il figlio allontanarsi non è mai totalmente eludibile…
…L’incipit è una
variante di Céline nell’oscurità che tutto fagocita, l’annuncio di un altro
viaggio al termine della notte: un dialogo con se stesso, “la storia di
un’eterna infanzia da cui tutto prende forma e significato”, una raffica di
domande senza risposta in attesa che tutto finisca al crocevia del nulla. “Perché
tutto è cambiato e noi non ce ne siamo accorti?” si chiede mentre il tempo
passa e affiora la consapevolezza che sarebbe bastato pochissimo per fare del
bene senza limitarsi a immaginarlo.
È l’impronta di un
cinema che si mette a nudo, consapevole che “vivere non è solo svegliarsi al
mattino” perché “vivere è difficile”, disposto a rivelare fragilità e scompensi
proprio per la sua natura feroce e fluttuante. Un regista (Angius stesso) è
allettato in ospedale, sta più di qua che di là, non riconosce la sorella,
vaneggia eppure deve fare assolutamente un film sulla sua vita e quindi assegna
al figlio (quello vero di Angius, Antonio) il ruolo di se stesso bambino...
…il film è infestato da una voce fuori campo (la sua) continua e
ossessiva, che si alterna con la voce fuori campo di suo figlio, facendo
assomigliare buona parte di quest'opera ambiziosa ad un audiolibro accompagnato
da belle immagini (non sempre) intervallato da rare scene di buon cinema.
La critica ha molto apprezzato questa confessione a schermo aperto,
che non ci risparmia dettagli anche crudeli o imbarazzanti della sua vita, in
una sorta di terapia pubblica.
Noi umili spettatori paganti siamo colti dal dubbio che
che forse, chissà, qualche anno sul divano di uno psicoterapeuta può
essere più utile per un regista sofferente e traumatizzato che passarne
altrettanti per fare un film "liberatorio"…
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