lunedì 10 novembre 2025

CONFITEOR - come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione - Bonifacio Angius

in un film doppio 

il regista finge di essere suo padre mentre lui, figlio di suo padre, viene interpretato dal figlio del regista ,

ma anche il regista è se stesso e il figlio è suo figlio.

sembra difficile, ma seduti in sala si capisce bene.

il cinema salva la vita, nonostante tutto, sembra dire Bonifacio Angius, e noi ci crediamo.

il film è denso di citazioni, e l'ultima scena, con il bambino che si allontana, come Charlot, è un capolavoro.

difficile che un film come questo, senza supereroi e senza omicidi, arrivi in sala, ma cercatelo (e se non lo portano convincete, con le buone, i gestori delle sale che frequentate), è un film che merita davvero.

intanto, se ci riuscite, buona (sorprendente) visione - Ismaele


  

 

Un film su un padre amato, odiato, sofferto e perduto, e al contempo sull’essere padre di un figlio, sulle dinamiche manipolatorie di un amore velenoso e sulla spirale autodistruttiva e tossicodipendente di una conseguente depressione, e nel frattempo inevitabilmente un film magnificamente teorico sul cinema e sul suo senso, sulla sua centralità, sul suo possibile meta-intrecciarsi in un prisma di istanti e di immagini che si inseguono modulari e inalienabili in ogni battito di palpebre. Un cinema da amare da spettatori in sala, un cinema da omaggiare da attore e regista nel teatro di posa, un cinema da scardinare nella forma e soprattutto un cinema da portare a termine a ogni costo, se necessario anche riprendendosi dalle crisi, anche affrontando di petto il dolore, anche risvegliandosi dalla morte. Un cinema che imita e finge una realtà alternativa per trovare la verità in un mondo di bugie, un cinema che parla direttamente all’inconscio e che «può farti una sorpresa dopo anni», un cinema come universo parallelo in cui entrare per «rimanere al riparo» dall’esterno. Un cinema come terapia, come assoluta sincerità, come commozione, come catarsi. Come estremo e definitivo atto d’amore, perché «ci vuole sempre amore per raccontare una storia, e per raccontarla ancora meglio lo devi aver perduto»…

…Solo attraverso il (meta)cinema è possibile uscirne, fra dialoghi, situazioni, ironia sorniona e le voci fuori campo che legano insieme analessi e prolessi, verità e finzioni, livelli apparentemente infiniti di passato e futuro che continuano a rincorrersi, come a voler intrappolare nelle immagini i dolori e le ossessioni per renderli visibili, affrontabili, battibili. Commossi. Con i padri che ritornano figli e con i figli che incarnano e fanno rivivere i padri, con le locandine dei precedenti lavori di Angius e con i baffi posticci con cui (ri)cambiare identità e tornare se stesso, con le botte che dopo tanti anni ancora fanno male e con quella porta chiusa in faccia proprio nel momento di massima fragilità. Con il bianco e nero che si alterna al colore così come i capitoli si intrecciano in una storia non lineare, e con un’involontaria e chapliniana disobbedienza sul set che sembra quasi un invito all’emancipazione, alla costruzione di un futuro proprio e unico, a un nuovo e ulteriore orizzonte di speranza in cui non smettere mai di raccontare con amore una storia d’amore, e sublimare così ogni sofferenza nella bellezza e nella magia del cinema. Che magari non basterà per arrivare a fare proprio la Rivoluzione, ma sul quale si possono ancora dire tante cose bellissime.

da qui

 

O si sa scrivere con le parole, come l'autore a cui vengono attribuite riflessioni non prive di spessore, oppure lo si può fare con le stesse che trovano spazio in inquadrature sempre alla ricerca di una composizione interna capace di offrire a chi guarda una molteplicità di dimensioni. Si va dal realismo più immediato ad immagini che rendono simbolici gli oggetti (vedi il barchino) alternando colore e bianco e nero. Con al centro un bisogno viscerale di poter riuscire ad essere un padre diverso da quello che è stato il suo anche se il rischio di vedere il figlio allontanarsi non è mai totalmente eludibile…

da qui

 

…L’incipit è una variante di Céline nell’oscurità che tutto fagocita, l’annuncio di un altro viaggio al termine della notte: un dialogo con se stesso, “la storia di un’eterna infanzia da cui tutto prende forma e significato”, una raffica di domande senza risposta in attesa che tutto finisca al crocevia del nulla. “Perché tutto è cambiato e noi non ce ne siamo accorti?” si chiede mentre il tempo passa e affiora la consapevolezza che sarebbe bastato pochissimo per fare del bene senza limitarsi a immaginarlo.

È l’impronta di un cinema che si mette a nudo, consapevole che “vivere non è solo svegliarsi al mattino” perché “vivere è difficile”, disposto a rivelare fragilità e scompensi proprio per la sua natura feroce e fluttuante. Un regista (Angius stesso) è allettato in ospedale, sta più di qua che di là, non riconosce la sorella, vaneggia eppure deve fare assolutamente un film sulla sua vita e quindi assegna al figlio (quello vero di Angius, Antonio) il ruolo di se stesso bambino...

da qui

 

…il film è infestato da una voce fuori campo (la sua) continua e ossessiva, che si alterna con la voce fuori campo di suo figlio, facendo assomigliare buona parte di quest'opera ambiziosa ad un audiolibro accompagnato da belle immagini (non sempre) intervallato da rare scene di buon cinema. 

La critica ha molto apprezzato questa confessione a schermo aperto, che non ci risparmia dettagli anche crudeli o imbarazzanti della sua vita, in una sorta di terapia pubblica.

Noi umili spettatori paganti siamo colti dal dubbio che che forse, chissà,  qualche anno sul divano di uno psicoterapeuta può essere più utile per un regista sofferente e traumatizzato che passarne altrettanti per fare un film "liberatorio"…

da qui

 

 











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