in A mosca cieca, del 1966, (amato da Ungaretti ed Elsa Morante, ma censurato senza pietà) succede qualcosa che rimanda a Lo straniero di Albert Camus (e al film che ne trae Luchino Visconti, protagonista Marcello Mastroianni).
Carlo Cecchi è un giovane insoddisfatto, amante di una donna con cui fa l'amore clandestinamente, perennamente in movimento, con la sigaretta fra le dita, non trova una strada per il futuro, compie un gesto inspiegabile.
un film quasi impossibile da trovare, non lascia pacificati, merita certamente la visione.
buona (a mosca cieca) visione - Ismaele
Lungometraggio d’esordio di uno dei più inclassificabili registi
italiani, Romano Scavolini (nato a Fiume nel 1940), autore, tra l’altro,
del Nightmare (1981) che ha ispirato la celebre saga
horror lanciata da Wes Craven qualche anno dopo. Ha un che di paradossale la
sorte di questo oggetto non identificato del cinema italiano che la Commissione
di censura bocciò per tre volte, tacciandolo di “pornografia”, e forzandolo a
una clandestinità durata cinquant’anni, interrotta dal recente ritrovamento (e
dal restauro digitale) del negativo 16mm della prima versione, quella voluta
dal regista prima dei tagli e degli interventi chiesti da Moravia (che suggerì –
da membro della Commissione – di aggiungere alcuni dialoghi che ‘spiegassero’
l’inspiegabile gesto omicida di Carlo Cecchi che sta alla base del film e che
il titolo dichiara molto apertamente). È un film letteralmente mai visto: la
copia circolata occasionalmente fino a oggi infatti è quella rifiutata
definitivamente dal Consiglio di Stato in suprema istanza, piuttosto lontana da
quella originale (rimaneggiata per tre volte per ovviare ai divieti censori)
che dopo mezzo secolo torna a farsi viva con tutta la sua impudente radicalità.
Non c’era spazio nell’Italia del 1966 per un cinema come questo, amorale,
sfacciatamente sregolato, ‘rubato’ all’economia asfissiante dell’industria
cinematografica, troppo oltre anche rispetto ai canoni nouvellevaguisti importati
da noi dal giovane Bertolucci. Non mancarono tuttavia sostenitori illustri che
lo difesero. Una primissima versione del film, di sei ore, spinse Ungaretti a
convincere Enzo Nasso a distribuirlo (purché – su richiesta di quest’ultimo –
fosse riportato a una durata ‘normale’). Per Elsa Morante A mosca cieca era il film che spazzava via
definitivamente il neorealismo.
Alla fine l’invisibilità ha giocato a favore di questo grande
film-fantasma, favorendone una fama postuma, in assenza, per così dire. Ora che
ritorna dove non è mai stato possiamo toglierci la benda davanti agli occhi e
vederlo avanzare guidato unicamente dalla propria accecante libertà.
A mosca cieca è Ricordati di Haron, come recitano i titoli di
testa della versione ancora oggi circolante ed edita in dvd dalla RaroVideo, ma
è anche I giochi dei bambini e
chissà cos’altro ancora. È il film “maledetto” per eccellenza dell’underground
italiano, quel microcosmo che fu maledetto dalle istituzioni, da buona parte
del pubblico, dallo stesso ambiente cinematografico. A mosca cieca è il film invisibile, che per i
più stolidi “non doveva mai essere fatto”, e che invece (r)esiste ancora a
distanza di cinquant’anni, in tutta la sua mortificante destrutturazione, in
quel meccanismo che si auto-sabota per disinnescare la miccia di un sistema
gonfio, tronfio, obeso. Romano Scavolini ha ventisei anni quando presenta A mosca cieca a Enzo Nasso, produttore di
documentari, con il quale il regista aveva già collaborato per lavori sulla
breve distanza: ovviamente in questo caso non si tratta di una ripresa dal
vero, ma c’è più realtà in quelle immagini che
nella stragrande maggioranza dei documentari prodotti all’epoca dal Ministero
del Turismo e dello Spettacolo. Nasso si trova davanti un fiume in piena di
immagini, per oltre sei ore di durata, che diventano poi due ore e un quarto. Di
questa versione si innamora a prima vista Giuseppe Ungaretti. Ma più della
poesia può la burocrazia, e in censura mal vedono un seno scoperto di Laura
Troschel, all’epoca ventiduenne: probabilmente i problemi non riguardano solo
le nudità dell’attrice, ma questo dettaglio basta alla commissione apposita,
che vieta il film (sullo scranno ministeriale del terzo governo Moro siede il
socialista Achille Corona, già tra i fondatori di Unità Proletaria, ma il suo
sottosegretario era il democristiano Adolfo Sarti, tre lustri più tardi
coinvolto nell’inchiesta sulla loggia massonica Propaganda Due) nonostante le
ripetute proteste di Scavolini e i ricorsi a tutti gli organismi dello
Stato. A mosca cieca non s’ha da
vedere, e viene rinchiuso nei sotterranei del Ministero, dove dovrebbe trovarsi
tutt’ora, neanche si trattasse di un pericoloso nemico pubblico.
Ovviamente il film circolò comunque, in modo più
o meno clandestino, sia in Italia che all’estero, ma nella versione poi edita
anche in home video, che supera di poco l’ora di durata. Non che questo
rappresenti un problema particolare, perché A mosca cieca può essere considerato quasi un
film estendibile e riducibile, arto che sfrutta le potenzialità del cinema per
opporvi un fiero diniego…
A mosca cieca (1966), di Romano Scavolini
(Appunti sul film più censurato della storia del cinema italiano e mai dimenticato)
“Amo tutti gli uomini nella loro umanità e per quello che dovrebbero essere,
ma li disprezzo per quello che sono”.
Emile Henry
Il film più
emblematico del ’68 lo gira Romano Scavolini nel 1966, A mosca cieca. Un’opera maledetta, censurata dalle istituzioni, dal mercato e
dall’ambiente del cinema. Contiene tutta l’eversione montante della gioventù
del ’68 e mostra la disfatta clamorosa della società spettacolare in decomposizione. Sinossi: Un uomo trova una
rivoltella in una macchina in sosta e decide di utilizzarla per colpire – senza motivo
apparente – una vittima scelta
fra la folla in uscita (o forse in entrata)
dallo stadio.
Come Jean-Luc
Godard che filma l’avventura anarcoi-de di
Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo
respiro (1960), e si chiude con l’uccisione di Belmondo sotto il fuoco
della polizia, Scavolini racconta la deriva metropolitana di Carlo Cecchi, che
finisce nel gesto surrealista di uno sparo su un volto qualsiasi che passa per
la strada… il cinema — sembra dire Scavolini
—, non è tollerabile se non per il grado di rivolta che vi si mette.
Occorre attendere il film di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Delitto sul Po (2002) per raggiungere la medesima visività surreale, cinica, anarcoide e rivedere una ricodificazione del linguaggio cinematografico… ed è quanto si “legge” nell’intera opera di Giovanni Andrea Semerano, film-maker ostico, abrasivo, libertario che volge il suo fare-cinema nel disincanto poetico di chi impugna la videocamera con la disinvoltura dei partigiani, quando passavano il ferro da una spalla all’altra per conquistare dignità e bellezza perdute nell’inventario delle contraddizioni e delle servitù prolungate.
A mosca cieca ha una genesi complessa… non fa parte del cinema
underground, né di quello
sperimentale
o che altro… il film di Scavolini è un cinema in rivolta, spudoratamente
anarchico, che spacca gli assunti
a dire poco, ridicoli, sui quali poggiava
il successo della
commedia all’italiana e molte variazioni sul medesimo tema, anche
del cinema più “impegnato”… stessi attori, stessi sceneggiatori, stessi registi, perlopiù
verniciati a sinistra, che dicevano di dissentire con l’ordine politico e
quello del mercato… creavano solo grandi personaggi come Totò, Alberto
Sordi, Vittorio Gassman,
Ugo Tognazzi o Nino Manfredi
— naturalmente fatte salve indimenticabili interpretazioni
che qui non interessa evocare —, maschere stereotipate della mediocrità o
mattatori del disagio indefinito che (fuori da registi come Ferreri, Pasolini, Rossellini, Lattuada, Monicelli o Scola) andavano a sostenere proprio l’oggetto del loro scherno… la
seduzione della risata compiacente ha maestri illustri, uno su tutti, Charlie
Chaplin… il sorriso al veleno è riservato
a Buster Keaton,
il silenzio dell’interrogazione è di Jacques Tati. Attraverso la costruzione della parola, del gesto e del corpo come imperativi economici, il cinema dell’italietta
catto-comunista non poteva che essere parte di una civiltà agonizzante,
modello di un umanismo futuro, rassegnato alle ghigliottine dei mercati… se il
Neorealismo, a ragione, spaccava cumuli di convinzioni e volgarità indegne, la
commedia all’italiana, come i western-spaghetti poi (Sergio Leone incluso),
imperversavano sulle superfici
della vita
e negli
entusiasmi del botteghino o nelle
idiozie appassionate giustificavano e sostenevano l’edificazione di un sistema di corruttele (disfacimenti, decomposizione, corrompimento) estetiche/etiche che passavano dal
malcostume alla santificazione del sogghigno politico… marionette di beati del
cinematografo che mescolavano farsa, amarezza e saggezza popolare nel gioco
delle idee… commedianti di rara abilità figuravano una massa di disadattati che riadattavano la speranza secondo
i dettami del potere in carica: l’inautenticità della loro fioritura lessicale (poi tracimata nella scatola televisiva)
li faceva sprofondare nei baratri
di una mediocrità ripetitiva, quasi asfissiante, fino a raggiungere lo
sbadiglio universale.
A mosca cieca anticipa o contiene molto del cinema di Augusto Tretti (La legge della tromba, 1962 e Il potere, 1972), Mario Schifano (Satellite, 1968 e Umano, non umano, 1969), Carmelo Bene (Nostra
signora dei turchi, 1968), Franco Brocani (Necropolis, 1970), Alber- to Grifi e Massimo Sarchielli (Anna, 1975)
e tutto il cinema indipendente italiano (Bargelli- ni, Bacigalupo, Brunatto, De Bernardi, Leonardi, Miscuglio, Turi, Capanna, Lajolo,
Lom- bardi, Loffredo, Baruchello, Angeli, Patella, Nespolo,
Gioli, Farri, Granchi Boero, Luginbü- hl, Martelli, Ontani,
Colantoni, Mazzoleni, tanto
per fare qualche
nome)… in una flânerie
del massacro o del senso estremo, l’interprete del film di Scavolini (Carlo Cecchi,
a dire poco, meraviglioso!) figura una vita senza lacrime e senza
genuflessioni… mostra che all’infuori della creazione e della distruzione del
mondo, tutte le iniziative sono senza valore, diceva. Quando ogni fede, ogni ideologia, ogni illusione si riconoscono nell’evanescenza di un mon-
do piegato
all’arroganza di pochi, tutte le profanazioni e le ribellioni sono autorizzate… toc- care gli estremi di una coscienza senza infatuazioni
istituzionali, vuol dire afferrare al volo gli itinerari dell’odio contro
l’intero sistema di tirannie spettacolari
e decretare la fine di epoche dissolute.
Scavolini, autore (nel tempo) di film singolari come Un bianco vestito per Marialé (1972), Nightmare
(1981) o del documentario Le ultime ore del Che (2004), lavori anomali,
innovativi o fuori dalle rispondenze mercatali… dopo alcuni cortometraggi (I devastati, 1959; La quiete febbre, 1964), debutta (a ventisette anni) nel lungometraggio con
A mosca cieca. Lo realizza con una cinecamera 16mm, pellicola bianco/nero e una piccola
troupe di amici.
Dicono che fuoriesca da oltre sei ore di girato, poi ridotte a poco più di due ore e infine alla visione attuale
65’. La commissione di censura blocca
il film tre volte e infine lo vieta definitivamente per pornografia… si vede solo il seno nudo di Laura Troschel (nemmeno
bene) e finisce nei sotterranei del Ministero del Turismo e dello
Spettacolo (dove impera il socialista Achille Corona). La
scrittura filmica del giovane Scavolini è aritmica, provocatoria, discrepante…
Cecchi trova la pistola in un’automobile parcheggiata a piazza Venezia…
vorrebbe ammazzare il padre? un amico? un carrozziere? Il film è
quasi muto, i dialoghi (forbiti e metaforici) sono ridotti al minimo e
travalicano oltre la sequenza… le musiche elettroniche (atona- li) di Vittorio Gelmetti avvolgono l’intero film e l’amore di Carlo e
Laura…la pellicola è sovraesposta, sottoesposta,
intercalata da bianchi, neri, buchi di code di montaggio, sfocature, ripetizioni,
sguardi in macchina… cinecamera a mano… violazione del linguaggio schermi- co… ricorda abbastanza il manifesto cinematografico del Lettrismo, Traité de bave et d’éternité (1951) di Isidore Isou, e in qualche modo il cinema sovversivo di Guy
Debord, special- mente Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps (1959) più in profondità si colgono certi riferimenti (sul concetto di vita-morte come scelta individuale o destino dal quale nessuno
può fuggire) a La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Th. Dreyer, Questa è la mia vita (1962) di Jean-Luc Godard o I 400 Colpi (1958) di François Truffaut, certe inquadrature riportano
all’austerità espressiva del maestro Robert Bresson in Au Hasard Balthazar (1966). Poco importa
se Scavolini aveva
visto questi film o
ne aveva letto sui libri… quello che vale è che A mosca cieca, nella sua disperata
vitalità, resta un’opera di forte impatto sociale e più ancora, il risultato (anche
dimezzato dal produttore e dalla censura) di una scrittura
filmica eversiva quanto intelligente… un canto d’amore in anarchia che rifiuta tutto e tutti lo rifiutano… né salvezza né redenzione
è quello che Scavolini butta sullo schermo…ma un’estrema unzione
della cattività della vita perseguitata dalla morale dominante.
Carlo insegue la vittima scelta a caso e attende il momento per ucciderla (a mosca cieca, appunto!). Il tempo è frammentato nell’attesa… lo sparo viene anticipato da
un fumetto e quando il corpo della vittima cade a terra, il portiere di una
squadra di calcio (siamo nei pressi del- lo stadio Olimpico)
si getta sull’erba
per afferrare il pallone. La fuga sul Lungotevere di Cecchi
riporta a quel Boudu salvato dalle acque (1932)
di Jean Renoir… figura deliziosa di un uomo libero che non accetta
nessun “ideale” né proselitismo ecumenico
e al culmine dell’ineluttabile si
chiama fuori da ciò che non merita di esistere. Il montaggio di Mauro Contini
(e Scavolini) è metaforico, estraniante, rompe l’usale sintassi filmica e
s’inventa abrasioni stilistiche coraggiose… s’accorpa alla magia delle
inquadrature non proprio cattedratiche di Scavolini e incrocia primi piani a
movimenti di macchina (spesso traballanti) che conferiscono al film una sorta
di sinfonia visiva. La fotografia è un elogio all’imperfezione… la firmano in
molti (Romano Scavolini, Roberto Nasso, Mario Masini, Cesare Ferzi), ma quello
che resta negli occhi è l’eco della bellezza selvatica
di una Roma insolita, quasi bruciata nell’apologia del vero, come si vede in Accattone (1961), Mamma Roma (1962) o Uccellacci
e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Un’immagine di verità che
rigetta l’estetismo degli eroi e dei santi… che mette le cose al loro posto e
slabbra la visione di universi convenuti. Il film si chiude sul
matrimonio di Pippo Franco e Laura Troschel, in super-8mm (ripresi all’interno
e
sul terrazzo
della loro casa).
La ricchezza interiore di A mosca cieca
non lascia spazio
a sofismi né a glorie
postume… come dice Godard: «In un film tutto quel che serve sono una ragazza e una pistola», il resto è solo una prerogativa dei servi di ogni convenienza… la poesia (in
ogni forma
d’arte) esprime l’essenza di ciò
che si
riesce a distruggere o, più
ancora, è tut- to quanto trasfigura l’infelicità in amore per un’esistenza liberata. Ci sono talenti di cui non abbiamo bisogno e geni dei quali non possiamo
fare a meno… e sono quest’ultimi che fanno
impallidire l’immoralità del momento e
agiscono sulla distruzione dell’ordine del discorso… poiché le nature
eccezionali hanno orrore di qualsiasi potere, s’addossano ai dubbi del dissi- dio e
annunciano le prossime rivolte nel mondo.
…Il
lungometraggio d’esordio di Romano Scavolini, A mosca cieca, è un
qualcosa di totalmente alieno dal panorama di quegli anni, nel senso che pur
prendendo influenze dalle rivoluzioni filmiche di quegli anni (in particolare
il montaggio di Resnais e la Nuberu Bagu, da Oshima fino soprattutto a, come
affermato dallo stesso regista, Shindo), nel panorama italiano non ci fu niente
del genere: si tratta di un caso davvero improponibile per unicità, con tra i
pochi altri casi di tale libertà (quasi sconosciuta a noi oggi) film come L’urlo (1968)
di Tinto Brass. Portato al Cinema Ritrovato dopo una storia di restauro
complessissima, in cui, tra vari passaggi dal 16mm al 35mm consigliati da
Moravia al regista ai tempi, molto è andato perso – e sostanzialmente il
regista, per riportare l’opera in una nuova versione completa in un
dignitosissimo 2K (che perde l’equilibrio solo sul finale preso da un negativo
filtro seppia in super 8 di cui è snaturato il formato), ha dovuto compiere una
vera e propria avventura. Il primissimo montaggio del film, con gli stessi
ritmi, sarebbe durato 6 ore; il secondo montaggio quasi 3 ore, e quest’ultimo,
definitivo, meno di un’ora e mezza, introvabile al di fuori di questo restauro
per la cui distribuzione Donatello Fumarola con Zomia sta combattendo insieme a
Scavolini. Quando Godard dice che «in un film tutto quel che serve sono una
ragazza e una pistola», allora A mosca cieca rientra
pienamente in questa regola, girando attorno a questi due poli con eleganza ma
anche con un utilizzo del montaggio totalmente innovativo e complesso. La
pistola è un simbolo a cui gira attorno buona parte dell’opera e della sua
realtà, è un oggetto meccanico attraverso le cui pulsioni tecnologiche e
disumane viene caratterizzato il protagonista Carlo: un uomo “Adamitico”
nell’essenza e “pre-Adamitico” nella coscienza, seguendo le parole dell’autore
stesso, alla ricerca, all’interno dei propri istinti, di uno spazio in un mondo
alienante che lo abbandona nella propria condizione di derelitto, non curandosi
delle sue necessità. La pistola parte dalle immagini fumettistiche, nasce come
riflesso in potenza (in crescendo) destinato a diventare in atto grazie alla
prepotenza della cultura pop, con le immagini comuni che ritornano nello
spazio-tempo confuso del film in continuazione, ricordando un’ossessione, un
ripetersi di certi simboli anche attraverso un mondo in evoluzione grazie alle
finestre create dagli schermi e dalle ossessioni dei semplici cittadini,
dell’uomo normale, che diventa Carlo o che forse si rivela come Carlo,
somigliante a Carlo; o sociopatico e psicolabile come Carlo, che, giunto in
possesso dell’arma,fantastica sull’omicidio del padre, di un amico, di un
carrozziere. Ma non della propria amata ragazza, che abbraccia e ama con un
affetto scomposto che è lo stesso che Diego prova verso Nadine nel
succitato La guerra è finita.
Il film poi
è praticamente muto per tutta la sua durata: si contempla Carlo attraverso
inquadrature lunghe e corte, non per creare immedesimazione quanto per creare
riflessione e specchio tra spettatore e personaggio, e non si sente il bisogno
dell’ascoltare le parole che pronuncia. L’audio del film è composto quasi
interamente dalle musiche elettroniche di Vittorio Gelmetti, già celebre per un
brano da lui composto per Deserto Rosso (1964) di
Antonioni, mentre il video è un prorompente e continuo montage che mischia
primi piani di dettagli, cinéma vérité, viaggi in uno spazio inconscio (più che
onirico) di possibilità e poi vera e propria narrazione, ma con ritmi che
sempre sono pronti a riavvolgersi. E poi, «a proposito degli effetti speciali»,
come direbbe Grifi; effetti speciali che sono scritte sulle immagini, sulla
pellicola, oppure tra un’inquadratura e l’altra con frame anche colmi con
i buchi del rullo precedente. Scritte di formule matematiche, punte
poetiche, frecce, spirali che convergono verso un misterioso centro
(decentrato?), riferimenti alla filosofia del biologo socialista Jacques Monod;
nonostante Scavolini abbia detto al sottoscritto di non aver visto Trattato
di melma e d’eternità (1951), il manifesto del Lettrismo firmato da
Isidore Isou, quando gliel’ho chiesto verso l’uscita dal cinema dopo il breve
ma intenso Q&A dopo la proiezione in Sala Scorsese alla Cineteca Lumiére,
si sente un po’ la stessa spinta alla rinascita attraverso la distruzione.
“Graffiare la pellicola” per creare un nuovo linguaggio, una “discrepante
Visione” anticonvenzionale che possa usare nuove parole, nuove sillabe, nuovi
silenzi – con la voce che spiega senza spiegare, mentre cinema e realtà si
inseguono per le strade, con gli stessi ritmi decostruiti. E si va verso un
lapidario cartello che recita “LA MORTE”, riportando alla mente La
passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer ma anche volendo la
citazione a esso in Questa è la mia vita (1962) di Godard,
seguito da una corsa contro il tempo e contro il mondo, una specie di frenetica
ricerca nell’immagine di una libertà che superi i limiti dell’uomo e del
cinema, come cercando di sfogare attraverso il movimento il problema, come in
un I 400 Colpi (1958) maturato e inconsciamente
metamorfizzatosi in un qualcosa di più violento, in uno sparo “a mosca cieca”
sulla folla. E il finale, quel ridente, sguaiato, ironico e nel contempo
crudelissimo pseudo-mini-documentario in super 8 con protagonista l’attrice del
film Laura Troschel durante la celebrazione del suo matrimonio con Pippo
Franco, riporta sagacemente alla realtà e alla sua incoerenza, alla parte
gioiosa dell’esistenza che sempre può sembrare voler incombere sulla scura
compresenza caotica di queste inquadrature, di queste grida mute. Girato da
Scavolini quando aveva solo 26 anni, questo film scomposto e più che mai
lontano dalle categorizzazioni della critica cinematografica borghese ha creato
un film-morte che è anche film-vita, un film-uomo che è anche un film-mondo, un
film atemporale che è anche un film pecora nera figlio di una società che non
lo poteva e/o non riusciva ad accettare la sua esistenza. Ad libitum attraverso
gli schermi.
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