giovedì 31 luglio 2025

Anni difficili – Luigi Zampa

non è facile essere antifascisti in Italia e in Sicilia, Piscitello è un'impiegato che si è sempre tenuto fuori dal fascismo, ma da un certo punto in poi è necessario prendere la tessera del partito.

in famiglia la moglie (Ave Ninchi) è un fascista dell'anima, Piscitello avrà le sue gatte da pelare anche in casa.

c'è anche una storia d'amore, si sorride abbastanza, ma spesso amaramente.

il film è una critica pungente al fascismo e al qualunquismo.

un film che merita, promesso.

buona (antifascista) visione - Ismaele

 

 

si può vedere QUI o QUI

 


scrive Goffredo Fofi:

...Quella di Anni difficili è una storia esemplare e molto comune, però contro il film si sollevarono non solo i “nostalgici” ma anche molti dirigenti del Partito comunista – alcuni dei quali erano ex membri dei Gruppi universitari fascisti – che accusarono Zampa e Brancati di denigrare il popolo italiano che, sostenevano, era sempre stato di sentimenti antifascisti. Se la presero anche col giovane Italo Calvino, grande estimatore del film, quando espresse il suo parere nell’edizione torinese dell’Unità. Ma “il miglior giudice è il re”, si diceva in Spagna, e le polemiche spinsero Togliatti a vedere il film e a difenderlo contro i suoi stessi amici, lodandone la qualità del giudizio storico-politico e la civile moralità…

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Calvino aveva evidenziato l'importanza di Anni difficili come “lodevole esempio di «cinema giornalismo», un saggio di costume pieno di notazioni acutissime sulla vita e la cultura di diverse classi e di diverse generazioni in un particolare periodo della nostra storia nazionale”. Calvino aveva letto nel film un forte valore antifascista e positivo, uno degli aspetti più interessanti che ci aveva ravvisato era “lo studio dei giovani cresciuti sotto il fascismo”: il figlio sempre in guerra che non è fascista, ma guarda al fascismo con “pensosa moderazione”, i piccoli gemelli allevati lontano dalla famiglia alla Farnesina, in seno all’Opera Nazionale Balilla, “la figlia lettrice di romanzi dannunziani, portata al fascismo da attrazioni di «cultura», o meglio di «gusto»”.

Lo scrittore esortava “lo spettatore di coscienza” a porsi una domanda dopo aver visto il film, domanda valida tutt’oggi: “Cosa avrebbe dovuto fare Piscitello, cosa avrebbe fatto oggi?". Questo interrogativo d’obbligo salvava agli occhi di Calvino Anni difficili dall’accusa dilagante di essere un film qualunquista, un film che gettava l’onta di antinazionalismo sul suo popolo. Quando invece, a ragion veduta, Calvino lo definiva come film anti-qualunquista per antonomasia, perchè urlava «Se non vogliamo uccidere i nostri figli non bisogna dire “Non m’impiccio di politica”, per poi subire la politica degli altri, ma bisogna essere tutti d’un pezzo, e lottare, e organizzarsi!». Se guardiamo Anni difficili sotto la lente d’ingrandimento calviniana sarà dunque facile restituirgli il valore di parabola morale e politica, primo atto di quella che sarà una trilogia scritta da Brancati per il regista Zampa, che qui porta al cinema il romanzo "Il vecchio con gli stivali”, e in seguito con Anni facili (1953) e L'arte di arrangiarsi (1955), ne osserverà la dolorosa continuità negli intrallazzi del dopoguerra…

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… Lodevole è la denuncia di uno dei grandi bastioni del conformismo pusillanime fascista: quello cattolico. «Tu sei cristiana e sei felice che la gente si sgozza e viene sgozzata», può dire il protagonista alla moglie che si eccita di fronte alle stragi che i finti volontari fascisti compivano contro i democratici nella guerra civile spagnola. Moglie (correttamente) definita «cretina», come la figlia, ugualmente fanatica del fascismo per interessi vari. Almeno in casa, l’imbelle protagonista Spadaro un qualche brandello di dignità la tirava fuori. Al matrimonio del figlio il prete può dire: «Avete avuto la fortuna di fondare una famiglia dentro una società prospera, felice, arbitra dei destini del mondo». Una tiritera che insulta ogni intelligenza e verità, ma che in Italia per tanti anni ha prevalso, col plauso delle moltitudini, in modi così scioccanti. Figlia, in generale, di una sconcezza etica ed educativa che però non ha ancora finito di fare i suoi danni. Anzi.

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Alla sua uscita il film di Zampa/Brancati causò le ire di tutti e, nonostante il buon successo, questo decretò la sua scomparsa (il suo ultimo passaggio in Rai dovrebbe risalire al '66) e la sua caduta nel dimenticatoio. Restaurato nel 2008 dalla Cineteca di Bologna, dalla Cineteca Italiana di Milano e dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, finalmente questo gioiellino di antiretorica e consapevolezza ha potuto tornare allo splendore originale. Anni Difficili è un film che non concede consolazione a nessuno, che mette l'Italia del '48 di fronte al suo passato (prossimo) fascista con ferocia e realismo, ma non solo: mette alla berlina ancora più rabbiosamente i cosiddetti antifascisti, che durante la manifestazioni in onore del duce se ne stanno in uno stanzino a lamentarsi e a raccontare barzellette. Anni Difficili fu per questo accusato di qualunquismo, senza che ci si rendesse conto che proprio il qualunquismo era l'oggetto della sua critica (la stessa ironia della sorte, lo stesso meccanismo folle e perverso, che poi non è che ingnoranza diffusa, che portò Kubrick ad essere accusato di istigazione alla violenza per Arancia Meccanica). Al valore ed al coraggio straordinari del film vanno poi aggiunte le interpretazioni toccanti di Umberto Spadaro e Massimo Girotti, al loro meglio. Da proiettare nelle scuole (e non solo di cinema).

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martedì 29 luglio 2025

“Cara Meloni, perché la tua assessora non finanzia il film sui poliziotti uccisi dalla mafia?”: la lettera del regista – Manuela Modica


Il ragazzo che amava i cavalli - il film su Zucchetto, Montana e Cassarà - non è stato ammesso al finanziamento dalla Film commission siciliana. L'autore Pasquale Scimeca scrive alla premier

“La lotta alla mafia non è (o non dovrebbe essere) né di destra, né di sinistra, ma un dovere morale di tutti: politici, intellettuali e semplici cittadini. Allora perché un assessore della Regione Sicilia, a Lei vicina, ha negato il finanziamento al film sui giovani poliziotti barbaramente assassinati dalla mafia?”. A porre la domanda è Pasquale Scimeca in una lettera in cui si rivolge direttamente alla presidente del consiglio, Giorgia Meloni. L’ultimo film del regista siciliano – Il ragazzo che amava i cavalli – non è infatti stato ammesso al finanziamento dalla Film commission siciliana, lo scorso 2 luglio.

Il regista sceglie il giorno in cui si ricorda l’uccisione, 40 anni fa, del commissario Beppe Montana, capo della sezione Catturandi della Squadra mobile di Palermo, per rivolgersi alla premier. L’assessora a “lei vicina”, a cui fa riferimento Scimeca è Elvira Amata, anche lei di Fdi e alla guida dell’assessorato al Turismo, che ha stanziato i finanziamenti per film e serie tv. Amata è indagata per corruzione in un’inchiesta della procura di Palermo. Secondo le ipotesi d’accusa l’assessora avrebbe ottenuto l’assunzione del nipote in cambio di finanziamenti per alcuni eventi.

Dopo il niet al film su Biagio Conte, anche questo bocciato dalla Film commission, ora fa discutere anche il rifiuto per il finanziamento al film sui poliziotti uccisi da Cosa Nostra negli anni ’80: Lillo Zucchetto, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e Natale Mondo: “Non erano dei pericolosi estremisti, ma fedeli servitori dello Stato, morti ammazzati mentre facevano il loro dovere”, ha scritto Scimeca, autore in passato di pellicole premiate come Rosso Malpelo e Placido Rizzotto. Il rifiuto è arrivato dalla Film commission siciliana che ha stilato una graduatoria in cui il film di Scimeca risulta non ammissibile a finanziamento per un punteggio sotto la soglia minima che riguarda la solidità finanziaria della produzione (il minimo era 15, il film ha totalizzato per questa voce soltanto un punteggio sotto la soglia minima, arrivando a 14,6).

Sono quasi 4 milioni di euro quelli stanziati dalla Film commission siciliana per le produzioni che hanno partecipato al bando lanciato nel 2024. Tra queste anche la Palomar che ottiene 729 mila euro per la seconda stagione di Vanina, un vicequestore a Catania. Nella prima stagione, però, alla serie aveva partecipato l’attrice Verdiana Barbagallo, poi nominata tra gli esperti scelti per redigere la lista delle produzioni da finanziare, come ha denunciato Scimeca. A presiedere questa sorta di commissione è Nicola Tarantino, dirigente della Regione Siciliana, anche lui intercettato dalla Guardia di Finanza di Palermo nell’indagine che ha coinvolto l’assessora.

Dopo il caso Cannes, l’ultima indagine per corruzione della procura di Palermo, guidata da Maurizio De Lucia, ha alzato un gran polverone su come siano stati distribuiti i finanziamenti dell’assessorato al Turismo e della presidenza dell’Assemblea regionale, entrambe guidate da due meloniani. “Perché (e a chi) fanno ancora così tanta paura questi giovani poliziotti dai ‘passi perduti’, questi figli di un dio minore che indagavano coi piedi nel fango, che cercavano i latitanti tra i vicoli e le borgate mafiose? Eppure, è grazie a loro se è rimasta viva la speranza dei ‘siciliani onesti‘ in quegli anni bui. È grazie a loro se Paolo Borsellino e Giovanni Falcone hanno potuto istruire quel Maxiprocesso che ha rappresentato la prima vittoria dello Stato contro la mafia”, ha ricordato il regista palermitano nella lettera rivolta a Meloni. “Per chi ha la memoria corta, o per chi di memoria non ne ha per niente, forse vale la pena di ricordare che il 28 luglio di 40 anni fa, veniva assassinato il giovane commissario di polizia Beppe Montana”, sottolinea Scimeca proprio nel giorno dell’anniversario della sua morte. “Signora Presidente del consiglio, perché non volete che la vita di questi giovani poliziotti, di Lillo Zuccheto, di Beppe Montana, di Ninni Cassarà, di Roberto Antiochia e di Natale Mondo, vengano fatte rivivere in un film? Perché non volete che i ragazzi di oggi possano conoscere e identificarsi nei loro valori di coraggio, giustizia e amore per le divise che indossavano con onore? Quanto valgono per le Istituzioni che Lei rappresenta le loro vite? Non faccia finta di niente, mi risponda per favore!”, conclude il regista.

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lunedì 28 luglio 2025

Aïcha (Una sconosciuta a Tunisi) - Mehdi Barsaoui

una ragazza vuole fuggire dalla sua vecchia vita e dalla famiglia opprimente.

l'occasione fa la ragazza fuggitiva, ma non va troppo bene, infine, trova due persone che l'aiutano.

cambiare identità va bene, Amira, Aya, e, alla fine, Aïcha, il nome scelto per vivere.

Fatma Sfar è l'attrice protagonista, ed è bravissima.

un film sociologico, critico della sudditanza lavorativa, e sopratutto poliziesco, un ottimo film per finire la stagione cinematografica.

il film è in una cinquantina di sale estive, i filmacci statiunitensi occupano le sale, come al solito, decolonizzatevi dall'impero, andate a vedere questo piccolo e meritevole film.

buona (misteriosa) visione - Ismaele


 

 

 

 

…Una sconosciuta a Tunisi è un film che pulsa, che provoca, che non accetta la comodità. È un racconto di identità rubate e ritrovate, di coraggio e paura, di controllo e insubordinazione. È anche una denuncia politica, ma senza slogan. Tutto è immerso nell’intimità del vissuto. Non ci sono eroi, non ci sono mostri. Solo esseri umani complessi, pieni di contraddizioni, come la società che li ha generati.

Barsaoui firma un’opera matura, visivamente potente, moralmente inquieta. Non giudica i suoi personaggi, non li risolve. Li osserva con empatia e rigore. E ci chiede di fare lo stesso. Perché, alla fine, siamo tutti un po’ Aya. Tutti in cerca di una vita che sia davvero nostra.

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Aïcha è la storia di una presa di coscienza, di un corpo che trova il coraggio di mostrarsi (la bellissima interprete Fatma Sfar nel corso della storia cambia vestiti e acconciature di continuo, liberandosi nel finale di un metaforico velo), di una società che trova la forza di ribellarsi. Lo stile è come da copione piano e classico, la narrazione ampia e meccanica nei suoi colpi di scena, con alcuni personaggi che meritano una punizione e la ottengono (i genitori di Aya), altri che si redimono nel corso del racconto (il poliziotto disilluso che un po' alla volta contribuisce a far emergere la verità) o altri ancora che mostrano da subito una solidarietà naturale (la proprietaria di una panetteria che accoglie Aya come una figlia)...
Tutto, insomma, è evidente, evidenziato, scandito, ma non per questo poco efficace. Semplicemente, senza strafare e senza troppo aspettative (non avrebbe senso tirare in ballo "Il fu Mattia Pascal"...), a volte le storie giuste possono essere raccontate in modi altrettanto giusti, e semplici.

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…Tratto da un fatto di cronaca avvenuto nel 2019, il film parte dal presupposto di mettere in discussione qualcosa che sembrerebbe impossibile ed inattaccabile: l’autorità genitoriale. Come si fa ad infliggere una tale sofferenza ai propri genitori facendosi credere morta? Si deve arrivare ad un punto di disperazione e sofferenza atroci.

Ed è proprio su questo punto che Una sconosciuta a Tunisi riesce a convincere, anche grazie all’interpretazione della protagonista. Anche la Tunisia, tra i paesi del mondo arabo più moderni e liberi, è piena di contraddizioni e paradossi, in cui bisogna fare i conti, quotidianamente con la ricostruzione di se stessa, tra frustrazioni, ingiustizie sociali, pressioni familiari, diktat religiosi e sociali, credenze ancestrali e desideri tarpati. L’altra interessante forza espressa dal regista e la stratificazione in cui si dipana la storia e l’intreccio raccontati: la corruzione e l’oppressione dei poteri forti onnipresenti nella vita del popolo, che condividono lo scenario con il rapporto di sottomissione, la misoginia, il sessismo. Da Aya ad Aïcha, passando per Amira, sono queste le tre identità dell’interprete principale, a dimostrare un passaggio graduale e necessario all’interno del film che ogni volta sembra assumere tinture di genere sempre diverse, ponendo in rilievo maggiormente il presente dei personaggi, al di là di ciò che diventeranno. E il finale effettivamente è l’emblema di questo slancio, di un primo passo verso una profonda e auspicata realizzazione.

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Fin troppe volte Aya è costretta a sparire, a cambiare, a divenire Amira, ad adeguarsi, a ribellarsi e, nel finale, prendere il nome che in originale dà il titolo al film: Aïcha, ossia “vivere”. Perché cambiare, tanto per l’uomo quanto per un intero paese, significa accettare e rassegnarsi al cambiamento, e questo è condivisibile, poetico e sacrosanto, funge da struttura ad un racconto che si lascia guardare e, se non altro, di tanto in tanto colpisce… Ma nulla di più. Una sconosciuta a Tunisi è un’opera di concetto, importante e sentita a tal punto da voler trovare ogni modo possibile per farla intendere a fondo, perché venga introiettato un principio fondamentale in cui il regista crede, su cui ha probabilmente ragione, ma ripetuto fin troppe volte…

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Il male però è insidioso, si nasconde per non farsi beccare, dietro una parola gentile può venire fuori quando meno te lo aspetti. Aya-Amira è sospettosa, sul chi va là eppure ogni volta sembra tutto andare ancora peggio, la situazione aggravarsi, la sua posizione sdrucciolevole: l’intelligenza, la forza di andare avanti, la pervicacia non sembrano portarla da nessuna parte. Sola, fuori legge, dopo ogni sventura rasa a zero come un foglio bianco su cui vergare la prima parola (o un nuovo nome), la protagonista di questa storia cruda e disperante non intende cedere: ha troppa dignità per piegarsi, anche senza armi è forte, una furia di dimensioni ridotte, dai capelli morbidi e sensuali, dal corpo sinuoso fatto per la danza (che attua solo in una scena allucinata in discoteca). Intenso.

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domenica 27 luglio 2025

A mosca cieca (Ricordati di Haron) - Romano Scavolini

in A mosca cieca, del 1966, (amato da Ungaretti ed Elsa Morante, ma censurato senza pietà) succede qualcosa che rimanda a Lo straniero di Albert Camus (e al film che ne trae Luchino Visconti, protagonista Marcello Mastroianni).

Carlo Cecchi è un giovane insoddisfatto, amante di una donna con cui fa l'amore clandestinamente, perennamente in movimento, con la sigaretta fra le dita, non trova una strada per il futuro, compie un gesto inspiegabile.

un film quasi impossibile da trovare, non lascia pacificati, merita certamente la visione.

buona (a mosca cieca) visione - Ismaele

 

 

 

Lungometraggio d’esordio di uno dei più inclassificabili registi italiani, Romano Scavolini (nato a Fiume nel 1940), autore, tra l’altro, del Nightmare (1981) che ha ispirato la celebre saga horror lanciata da Wes Craven qualche anno dopo. Ha un che di paradossale la sorte di questo oggetto non identificato del cinema italiano che la Commissione di censura bocciò per tre volte, tacciandolo di “pornografia”, e forzandolo a una clandestinità durata cinquant’anni, interrotta dal recente ritrovamento (e dal restauro digitale) del negativo 16mm della prima versione, quella voluta dal regista prima dei tagli e degli interventi chiesti da Moravia (che suggerì – da membro della Commissione – di aggiungere alcuni dialoghi che ‘spiegassero’ l’inspiegabile gesto omicida di Carlo Cecchi che sta alla base del film e che il titolo dichiara molto apertamente). È un film letteralmente mai visto: la copia circolata occasionalmente fino a oggi infatti è quella rifiutata definitivamente dal Consiglio di Stato in suprema istanza, piuttosto lontana da quella originale (rimaneggiata per tre volte per ovviare ai divieti censori) che dopo mezzo secolo torna a farsi viva con tutta la sua impudente radicalità. Non c’era spazio nell’Italia del 1966 per un cinema come questo, amorale, sfacciatamente sregolato, ‘rubato’ all’economia asfissiante dell’industria cinematografica, troppo oltre anche rispetto ai canoni nouvellevaguisti importati da noi dal giovane Bertolucci. Non mancarono tuttavia sostenitori illustri che lo difesero. Una primissima versione del film, di sei ore, spinse Ungaretti a convincere Enzo Nasso a distribuirlo (purché – su richiesta di quest’ultimo – fosse riportato a una durata ‘normale’). Per Elsa Morante A mosca cieca era il film che spazzava via definitivamente il neorealismo.

Alla fine l’invisibilità ha giocato a favore di questo grande film-fantasma, favorendone una fama postuma, in assenza, per così dire. Ora che ritorna dove non è mai stato possiamo toglierci la benda davanti agli occhi e vederlo avanzare guidato unicamente dalla propria accecante libertà.

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A mosca cieca è Ricordati di Haron, come recitano i titoli di testa della versione ancora oggi circolante ed edita in dvd dalla RaroVideo, ma è anche I giochi dei bambini e chissà cos’altro ancora. È il film “maledetto” per eccellenza dell’underground italiano, quel microcosmo che fu maledetto dalle istituzioni, da buona parte del pubblico, dallo stesso ambiente cinematografico. A mosca cieca è il film invisibile, che per i più stolidi “non doveva mai essere fatto”, e che invece (r)esiste ancora a distanza di cinquant’anni, in tutta la sua mortificante destrutturazione, in quel meccanismo che si auto-sabota per disinnescare la miccia di un sistema gonfio, tronfio, obeso. Romano Scavolini ha ventisei anni quando presenta A mosca cieca a Enzo Nasso, produttore di documentari, con il quale il regista aveva già collaborato per lavori sulla breve distanza: ovviamente in questo caso non si tratta di una ripresa dal vero, ma c’è più realtà in quelle immagini che nella stragrande maggioranza dei documentari prodotti all’epoca dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Nasso si trova davanti un fiume in piena di immagini, per oltre sei ore di durata, che diventano poi due ore e un quarto. Di questa versione si innamora a prima vista Giuseppe Ungaretti. Ma più della poesia può la burocrazia, e in censura mal vedono un seno scoperto di Laura Troschel, all’epoca ventiduenne: probabilmente i problemi non riguardano solo le nudità dell’attrice, ma questo dettaglio basta alla commissione apposita, che vieta il film (sullo scranno ministeriale del terzo governo Moro siede il socialista Achille Corona, già tra i fondatori di Unità Proletaria, ma il suo sottosegretario era il democristiano Adolfo Sarti, tre lustri più tardi coinvolto nell’inchiesta sulla loggia massonica Propaganda Due) nonostante le ripetute proteste di Scavolini e i ricorsi a tutti gli organismi dello Stato. A mosca cieca non s’ha da vedere, e viene rinchiuso nei sotterranei del Ministero, dove dovrebbe trovarsi tutt’ora, neanche si trattasse di un pericoloso nemico pubblico.
Ovviamente il film circolò comunque, in modo più o meno clandestino, sia in Italia che all’estero, ma nella versione poi edita anche in home video, che supera di poco l’ora di durata. Non che questo rappresenti un problema particolare, perché A mosca cieca può essere considerato quasi un film estendibile e riducibile, arto che sfrutta le potenzialità del cinema per opporvi un fiero diniego…

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A mosca cieca (1966), di Romano Scavolini

(Appunti sul film più censurato della storia del cinema italiano e mai dimenticato)

 

“Amo tutti gli uomini nella loro umanità e per quello che dovrebbero essere,

ma li disprezzo per quello che sono”.

Emile Henry

 

 A ricordo della rivoluzione della gioia nel ’68. Un anno formidabile, quando le giovani gene- razioni hanno dato l’assalto al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo. Il vecchio detto (détournato delle parole di un curato di campagna del ‘700, Jean Meslier, ateo, comunista e rivoluzionario) “L’umanità sarà felice soltanto il giorno in cui l’ultimo burocrate sarà impiccato con le budella dell’ultimo capitalista” non è stato mai dimenticato… prima o poi verrano i giorni in cui i desideri di rovesciamento di prospettiva di un mondo ro- vesciato saranno anche la realtà dei desideri di molti… e attraverso la grammatica del sampietro (e strumenti più adeguati), la gente scoprirà che sotto il pavé c’è la spiaggia dell’utopia realizzata.  La dolce anarchia del ’68 si riversò anche nel cinema… Augusto Tretti, Romano Scavolini, Tinto Brass, Carmelo Bene, Franco Brocani, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Roberto Faenza, Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini, Silvano Agosti, Salvatore Samperi (senza mai dimenticare la lezione etica di Rossellini, De Sica e del primo Fellini)… facevano film che rivendicavano non solo una differente costruzione estetica ma anche la circolazione di una più profonda riflessione politica… la contestazione si allargò a tutti i grandi eventi internazionali (Pesaro, Venezia, Cannes, Berlino, Locarno, San Sebastian)… la protesta di registi, sceneggiatori, attori, critici… passò dallo schermo alle strade e vennero messi in discussione il funzionamento mercatale e l’esistenza stessa della macchina /cinema… qualcuno disse che bisognava contrapporre «la realtà del cinema al cinema della realtà» (Philippe Garrel), altri invitano a distinguere tra «fare dei film politici» e «fare dei film politicamente» (Jean-Luc Godard)… altri ancora, «che il cinema vada incontro alla sua fine è il solo cinema, che il mondo vada incontro alla sua fine è la sola politica» (Marguerite Duras)… la coscienza dionisiaca del cinema diffondeva una nuova innocenza o una diversa costruzione della realtà che chiede- va di essere liberata… si trattava di non giudicare il nemico, ma di condurlo al suo annienta- mento.

Il film più emblematico del ’68 lo gira Romano Scavolini nel 1966, A mosca cieca. Un’opera maledetta, censurata dalle istituzioni, dal mercato e dall’ambiente del cinema. Contiene tutta l’eversione montante della gioventù del ’68 e mostra la disfatta clamorosa della società spettacolare in decomposizione. Sinossi: Un uomo trova una rivoltella in una macchina in sosta e decide di utilizzarla per colpire senza motivo apparente una vittima scelta fra la folla in uscita (o forse in entrata) dallo stadio. Come Jean-Luc Godard che filma l’avventura anarcoi-de di Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro (1960), e si chiude con l’uccisione di Belmondo sotto il fuoco della polizia, Scavolini racconta la deriva metropolitana di Carlo Cecchi, che finisce nel gesto surrealista di uno sparo su un volto qualsiasi che passa per la strada… il cinema — sembra dire Scavolini —, non è tollerabile se non per il grado di rivolta che vi si mette.

Occorre attendere il film di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Delitto sul Po (2002) per raggiungere la medesima visività surreale, cinica, anarcoide e rivedere una ricodificazione del linguaggio cinematografico… ed è quanto si “legge” nell’intera opera di Giovanni Andrea Semerano, film-maker ostico, abrasivo, libertario che volge il suo fare-cinema nel disincanto poetico di chi impugna la videocamera con la disinvoltura dei partigiani, quando passavano il ferro da una spalla all’altra per conquistare dignità e bellezza perdute nell’inventario delle contraddizioni e delle servitù prolungate.

A mosca cieca ha una genesi complessa… non fa parte del cinema underground, di quello sperimentale o che altro… il film di Scavolini è un cinema in rivolta, spudoratamente anarchico, che spacca gli assunti a dire poco, ridicoli, sui quali poggiava il successo della commedia all’italiana e molte variazioni sul medesimo tema, anche del cinema più “impegnato”… stessi attori, stessi sceneggiatori, stessi registi, perlopiù verniciati a sinistra, che dicevano di dissentire con l’ordine politico e quello del mercato… creavano solo grandi personaggi come Totò, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi o Nino Manfredi naturalmente fatte salve indimenticabili interpretazioni che qui non interessa evocare —, maschere stereotipate della mediocrità o mattatori del disagio indefinito che (fuori da registi come Ferreri, Pasolini, Rossellini, Lattuada, Monicelli o Scola) andavano a sostenere proprio l’oggetto del loro scherno… la seduzione della risata compiacente ha maestri illustri, uno su tutti, Charlie Chaplin… il sorriso al veleno è riservato a Buster Keaton, il silenzio dell’interrogazione è di Jacques Tati. Attraverso la costruzione della parola, del gesto e del corpo come imperativi economici, il cinema dell’italietta catto-comunista non poteva che essere parte di una civiltà agonizzante, modello di un umanismo futuro, rassegnato alle ghigliottine dei mercati… se il Neorealismo, a ragione, spaccava cumuli di convinzioni e volgarità indegne, la commedia all’italiana, come i western-spaghetti poi (Sergio Leone incluso), imperversavano sulle superfici della vita e negli entusiasmi del botteghino o nelle idiozie appassionate giustificavano e sostenevano l’edificazione di un sistema di corruttele (disfacimenti, decomposizione, corrompimento) estetiche/etiche che passavano dal malcostume alla santificazione del sogghigno politico… marionette di beati del cinematografo che mescolavano farsa, amarezza e saggezza popolare nel gioco delle idee… commedianti di rara abilità figuravano una massa di disadattati che riadattavano la speranza secondo i dettami del potere in carica: l’inautenticità della loro fioritura lessicale (poi tracimata nella scatola televisiva) li faceva sprofondare nei baratri di una mediocrità ripetitiva, quasi asfissiante, fino a raggiungere lo sbadiglio universale.

A mosca cieca anticipa o contiene molto del cinema di Augusto Tretti (La legge della tromba, 1962 e Il potere, 1972), Mario Schifano (Satellite, 1968 e Umano, non umano, 1969), Carmelo Bene (Nostra signora dei turchi, 1968), Franco Brocani (Necropolis, 1970), Alber- to Grifi e Massimo Sarchielli (Anna, 1975) e tutto il cinema indipendente italiano (Bargelli- ni, Bacigalupo, Brunatto, De Bernardi, Leonardi, Miscuglio, Turi, Capanna, Lajolo, Lom- bardi, Loffredo, Baruchello, Angeli, Patella, Nespolo, Gioli, Farri, Granchi Boero, Luginbü- hl, Martelli, Ontani, Colantoni, Mazzoleni, tanto per fare qualche nome)… in una flânerie del massacro o del senso estremo, l’interprete del film di Scavolini (Carlo Cecchi, a dire poco, meraviglioso!) figura una vita senza lacrime e senza genuflessioni… mostra che all’infuori della creazione e della distruzione del mondo, tutte le iniziative sono senza valore, diceva. Quando ogni fede, ogni ideologia, ogni illusione si riconoscono nell’evanescenza di un mon-

do piegato all’arroganza di pochi, tutte le profanazioni e le ribellioni sono autorizzate… toc- care gli estremi di una coscienza senza infatuazioni istituzionali, vuol dire afferrare al volo gli itinerari dell’odio contro l’intero sistema di tirannie spettacolari e decretare la fine di epoche dissolute.

Scavolini, autore (nel tempo) di film singolari come Un bianco vestito per Marialé (1972), Nightmare (1981) o del documentario Le ultime ore del Che (2004), lavori anomali, innovativi o fuori dalle rispondenze mercatali… dopo alcuni cortometraggi (I devastati, 1959; La quiete febbre, 1964), debutta (a ventisette anni) nel lungometraggio con A mosca cieca. Lo realizza con una cinecamera 16mm, pellicola bianco/nero e una piccola troupe di amici. Dicono che fuoriesca da oltre sei ore di girato, poi ridotte a poco più di due ore e infine alla visione attuale 65’. La commissione di censura blocca il film tre volte e infine lo vieta definitivamente per pornografia… si vede solo il seno nudo di Laura Troschel (nemmeno bene) e finisce nei sotterranei del Ministero del Turismo e dello Spettacolo (dove impera il socialista Achille Corona). La scrittura filmica del giovane Scavolini è aritmica, provocatoria, discrepante… Cecchi trova la pistola in un’automobile parcheggiata a piazza Venezia… vorrebbe ammazzare il padre? un amico? un carrozziere? Il film è quasi muto, i dialoghi (forbiti e metaforici) sono ridotti al minimo e travalicano oltre la sequenza… le musiche elettroniche (atona- li) di Vittorio Gelmetti avvolgono l’intero film e l’amore di Carlo e Laura…la pellicola è sovraesposta, sottoesposta, intercalata da bianchi, neri, buchi di code di montaggio, sfocature, ripetizioni, sguardi in macchina… cinecamera a mano… violazione del linguaggio schermi- co… ricorda abbastanza il manifesto cinematografico del Lettrismo, Traité de bave et d’éterni(1951) di Isidore Isou, e in qualche modo il cinema sovversivo di Guy Debord, special- mente Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps (1959) più in profondità si colgono certi riferimenti (sul concetto di vita-morte come scelta individuale o destino dal quale nessuno può fuggire) a La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Th. Dreyer, Questa è la mia vita (1962) di Jean-Luc Godard o I 400 Colpi (1958) di François Truffaut, certe inquadrature riportano all’austerità espressiva del maestro Robert Bresson in Au Hasard Balthazar (1966). Poco importa se Scavolini aveva visto questi film o ne aveva letto sui libri… quello che vale è che A mosca cieca, nella sua disperata vitalità, resta un’opera di forte impatto sociale e più ancora, il risultato (anche dimezzato dal produttore e dalla censura) di una scrittura filmica eversiva quanto intelligente… un canto d’amore in anarchia che rifiuta tutto e tutti lo rifiutano… né salvezza né redenzione è quello che Scavolini butta sullo schermo…ma un’estrema unzione della cattività della vita perseguitata dalla morale dominante.

Carlo insegue la vittima scelta a caso e attende il momento per ucciderla (a mosca cieca, appunto!). Il tempo è frammentato nell’attesa… lo sparo viene anticipato da un fumetto e quando il corpo della vittima cade a terra, il portiere di una squadra di calcio (siamo nei pressi del- lo stadio Olimpico) si getta sull’erba per afferrare il pallone. La fuga sul Lungotevere di Cecchi riporta a quel Boudu salvato dalle acque (1932) di Jean Renoir… figura deliziosa di un uomo libero che non accetta nessun “ideale” proselitismo ecumenico e al culmine dell’ineluttabile si chiama fuori da ciò che non merita di esistere. Il montaggio di Mauro Contini (e Scavolini) è metaforico, estraniante, rompe l’usale sintassi filmica e s’inventa abrasioni stilistiche coraggiose… s’accorpa alla magia delle inquadrature non proprio cattedratiche di Scavolini e incrocia primi piani a movimenti di macchina (spesso traballanti) che conferiscono al film una sorta di sinfonia visiva. La fotografia è un elogio all’imperfezione… la firmano in molti (Romano Scavolini, Roberto Nasso, Mario Masini, Cesare Ferzi), ma quello che resta negli occhi è l’eco della bellezza selvatica di una Roma insolita, quasi bruciata nell’apologia del vero, come si vede in Accattone (1961), Mamma Roma (1962) o Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Un’immagine di verità che rigetta l’estetismo degli eroi e dei santi… che mette le cose al loro posto e slabbra la visione di universi convenuti. Il film si chiude sul matrimonio di Pippo Franco e Laura Troschel, in super-8mm (ripresi all’interno e sul terrazzo della loro casa). La ricchezza interiore di A mosca cieca non lascia spazio a sofismi né a glorie postume… come dice Godard: «In un film tutto quel che serve sono una ragazza e una pistola», il resto è solo una prerogativa dei servi di ogni convenienza… la poesia (in ogni forma d’arte) esprime l’essenza di ciò che si riesce a distruggere o, più ancora, è tut- to quanto trasfigura l’infelicità in amore per un’esistenza liberata. Ci sono talenti di cui non abbiamo bisogno e geni dei quali non possiamo fare a meno… e sono quest’ultimi che fanno impallidire l’immoralità del momento e agiscono sulla distruzione dell’ordine del discorso… poiché le nature eccezionali hanno orrore di qualsiasi potere, s’addossano ai dubbi del dissi- dio e annunciano le prossime rivolte nel mondo.

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…Il lungometraggio d’esordio di Romano Scavolini, A mosca cieca, è un qualcosa di totalmente alieno dal panorama di quegli anni, nel senso che pur prendendo influenze dalle rivoluzioni filmiche di quegli anni (in particolare il montaggio di Resnais e la Nuberu Bagu, da Oshima fino soprattutto a, come affermato dallo stesso regista, Shindo), nel panorama italiano non ci fu niente del genere: si tratta di un caso davvero improponibile per unicità, con tra i pochi altri casi di tale libertà (quasi sconosciuta a noi oggi) film come L’urlo (1968) di Tinto Brass. Portato al Cinema Ritrovato dopo una storia di restauro complessissima, in cui, tra vari passaggi dal 16mm al 35mm consigliati da Moravia al regista ai tempi, molto è andato perso – e sostanzialmente il regista, per riportare l’opera in una nuova versione completa in un dignitosissimo 2K (che perde l’equilibrio solo sul finale preso da un negativo filtro seppia in super 8 di cui è snaturato il formato), ha dovuto compiere una vera e propria avventura. Il primissimo montaggio del film, con gli stessi ritmi, sarebbe durato 6 ore; il secondo montaggio quasi 3 ore, e quest’ultimo, definitivo, meno di un’ora e mezza, introvabile al di fuori di questo restauro per la cui distribuzione Donatello Fumarola con Zomia sta combattendo insieme a Scavolini. Quando Godard dice che «in un film tutto quel che serve sono una ragazza e una pistola», allora A mosca cieca rientra pienamente in questa regola, girando attorno a questi due poli con eleganza ma anche con un utilizzo del montaggio totalmente innovativo e complesso. La pistola è un simbolo a cui gira attorno buona parte dell’opera e della sua realtà, è un oggetto meccanico attraverso le cui pulsioni tecnologiche e disumane viene caratterizzato il protagonista Carlo: un uomo “Adamitico” nell’essenza e “pre-Adamitico” nella coscienza, seguendo le parole dell’autore stesso, alla ricerca, all’interno dei propri istinti, di uno spazio in un mondo alienante che lo abbandona nella propria condizione di derelitto, non curandosi delle sue necessità. La pistola parte dalle immagini fumettistiche, nasce come riflesso in potenza (in crescendo) destinato a diventare in atto grazie alla prepotenza della cultura pop, con le immagini comuni che ritornano nello spazio-tempo confuso del film in continuazione, ricordando un’ossessione, un ripetersi di certi simboli anche attraverso un mondo in evoluzione grazie alle finestre create dagli schermi e dalle ossessioni dei semplici cittadini, dell’uomo normale, che diventa Carlo o che forse si rivela come Carlo, somigliante a Carlo; o sociopatico e psicolabile come Carlo, che, giunto in possesso dell’arma,fantastica sull’omicidio del padre, di un amico, di un carrozziere. Ma non della propria amata ragazza, che abbraccia e ama con un affetto scomposto che è lo stesso che Diego prova verso Nadine nel succitato La guerra è finita.

Il film poi è praticamente muto per tutta la sua durata: si contempla Carlo attraverso inquadrature lunghe e corte, non per creare immedesimazione quanto per creare riflessione e specchio tra spettatore e personaggio, e non si sente il bisogno dell’ascoltare le parole che pronuncia. L’audio del film è composto quasi interamente dalle musiche elettroniche di Vittorio Gelmetti, già celebre per un brano da lui composto per Deserto Rosso (1964) di Antonioni, mentre il video è un prorompente e continuo montage che mischia primi piani di dettagli, cinéma vérité, viaggi in uno spazio inconscio (più che onirico) di possibilità e poi vera e propria narrazione, ma con ritmi che sempre sono pronti a riavvolgersi. E poi, «a proposito degli effetti speciali», come direbbe Grifi; effetti speciali che sono scritte sulle immagini, sulla pellicola, oppure tra un’inquadratura e l’altra con frame anche colmi con i buchi del rullo precedente. Scritte di formule matematiche, punte poetiche, frecce, spirali che convergono verso un misterioso centro (decentrato?), riferimenti alla filosofia del biologo socialista Jacques Monod; nonostante Scavolini abbia detto al sottoscritto di non aver visto Trattato di melma e d’eternità (1951), il manifesto del Lettrismo firmato da Isidore Isou, quando gliel’ho chiesto verso l’uscita dal cinema dopo il breve ma intenso Q&A dopo la proiezione in Sala Scorsese alla Cineteca Lumiére, si sente un po’ la stessa spinta alla rinascita attraverso la distruzione. “Graffiare la pellicola” per creare un nuovo linguaggio, una “discrepante Visione” anticonvenzionale che possa usare nuove parole, nuove sillabe, nuovi silenzi – con la voce che spiega senza spiegare, mentre cinema e realtà si inseguono per le strade, con gli stessi ritmi decostruiti. E si va verso un lapidario cartello che recita “LA MORTE”, riportando alla mente La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer ma anche volendo la citazione a esso in Questa è la mia vita (1962) di Godard, seguito da una corsa contro il tempo e contro il mondo, una specie di frenetica ricerca nell’immagine di una libertà che superi i limiti dell’uomo e del cinema, come cercando di sfogare attraverso il movimento il problema, come in un I 400 Colpi (1958) maturato e inconsciamente metamorfizzatosi in un qualcosa di più violento, in uno sparo “a mosca cieca” sulla folla. E il finale, quel ridente, sguaiato, ironico e nel contempo crudelissimo pseudo-mini-documentario in super 8 con protagonista l’attrice del film Laura Troschel durante la celebrazione del suo matrimonio con Pippo Franco, riporta sagacemente alla realtà e alla sua incoerenza, alla parte gioiosa dell’esistenza che sempre può sembrare voler incombere sulla scura compresenza caotica di queste inquadrature, di queste grida mute. Girato da Scavolini quando aveva solo 26 anni, questo film scomposto e più che mai lontano dalle categorizzazioni della critica cinematografica borghese ha creato un film-morte che è anche film-vita, un film-uomo che è anche un film-mondo, un film atemporale che è anche un film pecora nera figlio di una società che non lo poteva e/o non riusciva ad accettare la sua esistenza. Ad libitum attraverso gli schermi.

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