non è facile essere antifascisti in Italia e in Sicilia, Piscitello è un'impiegato che si è sempre tenuto fuori dal fascismo, ma da un certo punto in poi è necessario prendere la tessera del partito.
in famiglia la moglie (Ave Ninchi) è un fascista dell'anima, Piscitello avrà le sue gatte da pelare anche in casa.
c'è anche una storia d'amore, si sorride abbastanza, ma spesso amaramente.
il film è una critica pungente al fascismo e al qualunquismo.
...Quella di Anni difficili è
una storia esemplare e molto comune, però contro il film si sollevarono non
solo i “nostalgici” ma anche molti dirigenti del Partito comunista – alcuni dei
quali erano ex membri dei Gruppi universitari fascisti – che accusarono Zampa e
Brancati di denigrare il popolo italiano che, sostenevano, era sempre stato di
sentimenti antifascisti. Se la presero anche col giovane Italo Calvino, grande
estimatore del film, quando espresse il suo parere nell’edizione torinese
dell’Unità. Ma “il miglior giudice è il re”, si diceva in Spagna, e le
polemiche spinsero Togliatti a vedere il film e a difenderlo contro i suoi
stessi amici, lodandone la qualità del giudizio storico-politico e la civile
moralità…
…Calvino aveva evidenziato l'importanza
di Anni difficili come “lodevole esempio di «cinema
giornalismo», un saggio di costume pieno di notazioni acutissime sulla vita e
la cultura di diverse classi e di diverse generazioni in un particolare periodo
della nostra storia nazionale”. Calvino aveva letto nel film un forte valore
antifascista e positivo, uno degli aspetti più interessanti che ci aveva
ravvisato era “lo studio dei giovani cresciuti sotto il fascismo”: il figlio
sempre in guerra che non è fascista, ma guarda al fascismo con “pensosa
moderazione”, i piccoli gemelli allevati lontano dalla famiglia alla Farnesina,
in seno all’Opera Nazionale Balilla, “la figlia lettrice di romanzi
dannunziani, portata al fascismo da attrazioni di «cultura», o meglio di
«gusto»”.
Lo scrittore esortava “lo spettatore di
coscienza” a porsi una domanda dopo aver visto il film, domanda valida
tutt’oggi: “Cosa avrebbe dovuto fare Piscitello, cosa avrebbe fatto
oggi?". Questo interrogativo d’obbligo salvava agli occhi di Calvino Anni difficili dall’accusa dilagante di essere un
film qualunquista, un film che gettava l’onta di antinazionalismo sul suo
popolo. Quando invece, a ragion veduta, Calvino lo definiva come film
anti-qualunquista per antonomasia, perchè urlava «Se non vogliamo uccidere i
nostri figli non bisogna dire “Non m’impiccio di politica”, per poi subire la
politica degli altri, ma bisogna essere tutti d’un pezzo, e lottare, e
organizzarsi!». Se guardiamo Anni difficili sotto
la lente d’ingrandimento calviniana sarà dunque facile restituirgli il valore
di parabola morale e politica, primo atto di quella che sarà una trilogia scritta
da Brancati per il regista Zampa, che qui porta al cinema il romanzo "Il
vecchio con gli stivali”, e in seguito con Anni facili (1953)
e L'arte di arrangiarsi (1955), ne osserverà la
dolorosa continuità negli intrallazzi del dopoguerra…
… Lodevole
è la denuncia di uno dei grandi bastioni del conformismo pusillanime fascista:
quello cattolico. «Tu sei cristiana e sei felice che la gente si sgozza e viene
sgozzata», può dire il protagonista alla moglie che si eccita di fronte alle
stragi che i finti volontari fascisti compivano contro i democratici nella
guerra civile spagnola. Moglie (correttamente) definita «cretina», come la
figlia, ugualmente fanatica del fascismo per interessi vari. Almeno in casa,
l’imbelle protagonista Spadaro un qualche brandello di dignità la tirava fuori.
Al matrimonio del figlio il prete può dire: «Avete avuto la fortuna di fondare
una famiglia dentro una società prospera, felice, arbitra dei destini del
mondo». Una tiritera che insulta ogni intelligenza e verità, ma che in Italia
per tanti anni ha prevalso, col plauso delle moltitudini, in modi così
scioccanti. Figlia, in generale, di una sconcezza etica ed educativa che però
non ha ancora finito di fare i suoi danni. Anzi.
Alla sua uscita il film di Zampa/Brancati causò le ire di
tutti e, nonostante il buon successo, questo decretò la sua scomparsa (il suo
ultimo passaggio in Rai dovrebbe risalire al '66) e la sua caduta nel
dimenticatoio. Restaurato nel 2008 dalla Cineteca di Bologna, dalla Cineteca
Italiana di Milano e dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, finalmente
questo gioiellino di antiretorica e consapevolezza ha potuto tornare allo
splendore originale. Anni Difficili è
un film che non concede consolazione a nessuno, che mette l'Italia del '48 di
fronte al suo passato (prossimo) fascista con ferocia e realismo, ma non solo:
mette alla berlina ancora più rabbiosamente i cosiddetti antifascisti, che
durante la manifestazioni in onore del duce se ne stanno in uno stanzino a
lamentarsi e a raccontare barzellette. Anni Difficili fu
per questo accusato di qualunquismo, senza che ci si rendesse conto che proprio
il qualunquismo era l'oggetto della sua critica (la stessa ironia della sorte,
lo stesso meccanismo folle e perverso, che poi non è che ingnoranza diffusa,
che portò Kubrick ad essere accusato di istigazione alla violenza per Arancia Meccanica). Al valore ed al coraggio
straordinari del film vanno poi aggiunte le interpretazioni toccanti di Umberto
Spadaro e Massimo Girotti, al loro meglio. Da proiettare nelle scuole (e non
solo di cinema).
Il ragazzo che amava i cavalli - il film su Zucchetto,
Montana e Cassarà - non è stato ammesso al finanziamento dalla Film commission
siciliana. L'autore Pasquale Scimeca scrive alla premier
“La lotta
alla mafia non è (o non dovrebbe essere) né di destra, né di sinistra, ma un
dovere morale di tutti: politici, intellettuali e semplici cittadini. Allora
perché un assessore della Regione Sicilia, a Lei vicina, ha negato
il finanziamento al film sui giovani poliziotti barbaramente assassinati dalla
mafia?”. A porre la domanda è Pasquale Scimeca in una lettera
in cui si rivolge direttamente alla presidente del consiglio, Giorgia
Meloni. L’ultimo film del regista siciliano – Il ragazzo che
amava i cavalli – non è infatti stato ammesso al finanziamento
dalla Film commission siciliana, lo scorso 2 luglio.
Il regista
sceglie il giorno in cui si ricorda l’uccisione, 40 anni fa, del
commissario Beppe Montana, capo della sezione Catturandi della
Squadra mobile di Palermo, per rivolgersi alla premier. L’assessora a “lei
vicina”, a cui fa riferimento Scimeca è Elvira Amata, anche lei di
Fdi e alla guida dell’assessorato al Turismo, che ha stanziato i finanziamenti
per film e serie tv. Amata è indagata per corruzione in
un’inchiesta della procura di Palermo. Secondo le ipotesi d’accusa l’assessora
avrebbe ottenuto l’assunzione del nipote in cambio di finanziamenti per alcuni
eventi.
Dopo il niet
al film su Biagio Conte, anche questo bocciato dalla Film
commission, ora fa discutere anche il rifiuto per il finanziamento al film sui
poliziotti uccisi da Cosa Nostra negli anni ’80: Lillo Zucchetto,
Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e Natale
Mondo: “Non erano dei pericolosi estremisti, ma fedeli servitori dello Stato,
morti ammazzati mentre facevano il loro dovere”, ha scritto Scimeca, autore in
passato di pellicole premiate come Rosso Malpelo e Placido
Rizzotto. Il rifiuto è arrivato dalla Film commission siciliana che
ha stilato una graduatoria in cui il film di Scimeca risulta non
ammissibile a finanziamento per un punteggio sotto la soglia minima
che riguarda la solidità finanziaria della produzione (il
minimo era 15, il film ha totalizzato per questa voce soltanto un punteggio
sotto la soglia minima, arrivando a 14,6).
Sono quasi 4
milioni di euro quelli stanziati dalla Film commission siciliana per le
produzioni che hanno partecipato al bando lanciato nel 2024. Tra queste anche
la Palomar che ottiene 729 mila euro per la seconda stagione
di Vanina, un vicequestore a Catania. Nella prima stagione,
però, alla serie aveva partecipato l’attrice Verdiana Barbagallo,
poi nominata tra gli esperti scelti per redigere la lista delle produzioni da
finanziare, come ha denunciato Scimeca. A presiedere questa sorta di
commissione è Nicola Tarantino, dirigente della Regione Siciliana, anche lui
intercettato dalla Guardia di Finanza di Palermo nell’indagine
che ha coinvolto l’assessora.
Dopo il caso
Cannes, l’ultima indagine per corruzione della procura di Palermo, guidata
da Maurizio De Lucia, ha alzato un gran polverone su come siano
stati distribuiti i finanziamenti dell’assessorato al Turismo e della
presidenza dell’Assemblea regionale, entrambe guidate da due meloniani. “Perché
(e a chi) fanno ancora così tanta paura questi giovani poliziotti dai ‘passi
perduti’, questi figli di un dio minore che indagavano coi piedi nel fango, che
cercavano i latitanti tra i vicoli e le borgate mafiose?
Eppure, è grazie a loro se è rimasta viva la speranza dei ‘siciliani onesti‘
in quegli anni bui. È grazie a loro se Paolo Borsellino e Giovanni
Falcone hanno potuto istruire quel Maxiprocesso che
ha rappresentato la prima vittoria dello Stato contro la mafia”, ha ricordato
il regista palermitano nella lettera rivolta a Meloni. “Per chi ha la memoria
corta, o per chi di memoria non ne ha per niente, forse vale la pena di
ricordare che il 28 luglio di 40 anni fa, veniva assassinato il giovane
commissario di polizia Beppe Montana”, sottolinea Scimeca proprio
nel giorno dell’anniversario della sua morte. “Signora Presidente del
consiglio, perché non volete che la vita di questi giovani poliziotti, di Lillo
Zuccheto, di Beppe Montana, di Ninni Cassarà, di Roberto Antiochia e di Natale
Mondo, vengano fatte rivivere in un film? Perché non volete che i ragazzi di
oggi possano conoscere e identificarsi nei loro valori di coraggio, giustizia e
amore per le divise che indossavano con onore? Quanto valgono per le
Istituzioni che Lei rappresenta le loro vite? Non faccia finta di niente, mi
risponda per favore!”, conclude il regista.
una ragazza vuole fuggire dalla sua vecchia vita e dalla famiglia opprimente.
l'occasione fa la ragazza fuggitiva, ma non va troppo bene, infine, trova due persone che l'aiutano.
cambiare identità va bene, Amira, Aya, e, alla fine, Aïcha, il nome scelto per vivere.
Fatma Sfar è l'attrice protagonista, ed è bravissima.
un film sociologico, critico della sudditanza lavorativa, e sopratutto poliziesco, un ottimo film per finire la stagione cinematografica.
il film è in una cinquantina di sale estive, i filmacci statiunitensi occupano le sale, come al solito, decolonizzatevi dall'impero, andate a vedere questo piccolo e meritevole film.
buona (misteriosa) visione - Ismaele
…Una sconosciuta a
Tunisi è un film che pulsa, che
provoca, che non accetta la comodità. È un racconto di identità rubate e ritrovate,
di coraggio e paura, di controllo e insubordinazione. È anche una denuncia
politica, ma senza slogan. Tutto è immerso nell’intimità del vissuto. Non ci
sono eroi, non ci sono mostri. Solo esseri umani complessi, pieni di
contraddizioni, come la società che li ha generati.
Barsaoui firma un’opera matura, visivamente
potente, moralmente inquieta. Non giudica i suoi personaggi, non li risolve. Li
osserva con empatia e rigore. E ci chiede di fare lo stesso. Perché, alla fine,
siamo tutti un po’ Aya. Tutti in cerca di una vita che sia davvero nostra.
…Aïcha è
la storia di una presa di coscienza, di un corpo che trova il coraggio di
mostrarsi (la bellissima interprete Fatma Sfar nel corso della storia cambia
vestiti e acconciature di continuo, liberandosi nel finale di un metaforico
velo), di una società che trova la forza di ribellarsi. Lo stile è come da
copione piano e classico, la narrazione ampia e meccanica nei suoi colpi di
scena, con alcuni personaggi che meritano una punizione e la ottengono (i
genitori di Aya), altri che si redimono nel corso del racconto (il poliziotto
disilluso che un po' alla volta contribuisce a far emergere la verità) o altri
ancora che mostrano da subito una solidarietà naturale (la proprietaria di una
panetteria che accoglie Aya come una figlia)...
Tutto, insomma, è evidente, evidenziato, scandito, ma non per questo poco
efficace. Semplicemente, senza strafare e senza troppo aspettative (non avrebbe
senso tirare in ballo "Il fu Mattia Pascal"...), a volte le storie
giuste possono essere raccontate in modi altrettanto giusti, e semplici.
…Tratto da un fatto di cronaca avvenuto nel 2019, il
film parte dal presupposto di mettere in discussione qualcosa che sembrerebbe
impossibile ed inattaccabile: l’autorità genitoriale. Come si fa ad infliggere
una tale sofferenza ai propri genitori facendosi credere morta? Si deve
arrivare ad un punto di disperazione e sofferenza atroci.
Ed è proprio su questo punto che Una sconosciuta a Tunisi riesce a convincere,
anche grazie all’interpretazione della protagonista. Anche la Tunisia, tra i
paesi del mondo arabo più moderni e liberi, è piena di contraddizioni e
paradossi, in cui bisogna fare i conti, quotidianamente con la ricostruzione di
se stessa, tra frustrazioni, ingiustizie sociali, pressioni familiari, diktat
religiosi e sociali, credenze ancestrali e desideri tarpati. L’altra
interessante forza espressa dal regista e la stratificazione in cui si dipana la
storia e l’intreccio raccontati: la corruzione e l’oppressione dei poteri forti
onnipresenti nella vita del popolo, che condividono lo scenario con il rapporto
di sottomissione, la misoginia, il sessismo. Da Aya ad Aïcha, passando per
Amira, sono queste le tre identità dell’interprete principale, a dimostrare un
passaggio graduale e necessario all’interno del film che ogni volta sembra
assumere tinture di genere sempre diverse, ponendo in rilievo maggiormente il
presente dei personaggi, al di là di ciò che diventeranno. E il finale
effettivamente è l’emblema di questo slancio, di un primo passo verso una
profonda e auspicata realizzazione.
…Fin troppe volte Aya è costretta a sparire, a
cambiare, a divenire Amira, ad adeguarsi, a ribellarsi e, nel finale, prendere
il nome che in originale dà il titolo al film: Aïcha, ossia “vivere”. Perché
cambiare, tanto per l’uomo quanto per un intero paese, significa accettare e
rassegnarsi al cambiamento, e questo è condivisibile, poetico e sacrosanto,
funge da struttura ad un racconto che si lascia guardare e, se non altro, di
tanto in tanto colpisce… Ma nulla di più. Una
sconosciuta a Tunisi è un’opera di concetto, importante e
sentita a tal punto da voler trovare ogni modo possibile per farla intendere a
fondo, perché venga introiettato un principio fondamentale in cui il regista
crede, su cui ha probabilmente ragione, ma ripetuto fin troppe volte…
…Il male però è insidioso, si nasconde per non farsi
beccare, dietro una parola gentile può venire fuori quando meno te lo aspetti.
Aya-Amira è sospettosa, sul chi va là eppure ogni volta sembra tutto andare
ancora peggio, la situazione aggravarsi, la sua posizione sdrucciolevole:
l’intelligenza, la forza di andare avanti, la pervicacia non sembrano portarla
da nessuna parte. Sola, fuori legge, dopo ogni sventura rasa a zero come un
foglio bianco su cui vergare la prima parola (o un nuovo nome), la protagonista
di questa storia cruda e disperante non intende cedere: ha troppa dignità per
piegarsi, anche senza armi è forte, una furia di dimensioni ridotte, dai
capelli morbidi e sensuali, dal corpo sinuoso fatto per la danza (che attua
solo in una scena allucinata in discoteca). Intenso.
in A mosca cieca, del 1966, (amato da Ungaretti ed Elsa Morante, ma censurato senza pietà) succede qualcosa che rimanda a Lo straniero di Albert Camus (e al film che ne trae Luchino Visconti, protagonista Marcello Mastroianni).
Carlo Cecchi è un giovane insoddisfatto, amante di una donna con cui fa l'amore clandestinamente, perennamente in movimento, con la sigaretta fra le dita, non trova una strada per il futuro, compie un gesto inspiegabile.
un film quasi impossibile da trovare, non lascia pacificati, merita certamente la visione.
buona (a mosca cieca) visione - Ismaele
Lungometraggio d’esordio di uno dei più inclassificabili registi
italiani, Romano Scavolini (nato a Fiume nel 1940), autore, tra l’altro,
del Nightmare (1981) che ha ispirato la celebre saga
horror lanciata da Wes Craven qualche anno dopo. Ha un che di paradossale la
sorte di questo oggetto non identificato del cinema italiano che la Commissione
di censura bocciò per tre volte, tacciandolo di “pornografia”, e forzandolo a
una clandestinità durata cinquant’anni, interrotta dal recente ritrovamento (e
dal restauro digitale) del negativo 16mm della prima versione, quella voluta
dal regista prima dei tagli e degli interventi chiesti da Moravia (che suggerì –
da membro della Commissione – di aggiungere alcuni dialoghi che ‘spiegassero’
l’inspiegabile gesto omicida di Carlo Cecchi che sta alla base del film e che
il titolo dichiara molto apertamente). È un film letteralmente mai visto: la
copia circolata occasionalmente fino a oggi infatti è quella rifiutata
definitivamente dal Consiglio di Stato in suprema istanza, piuttosto lontana da
quella originale (rimaneggiata per tre volte per ovviare ai divieti censori)
che dopo mezzo secolo torna a farsi viva con tutta la sua impudente radicalità.
Non c’era spazio nell’Italia del 1966 per un cinema come questo, amorale,
sfacciatamente sregolato, ‘rubato’ all’economia asfissiante dell’industria
cinematografica, troppo oltre anche rispetto ai canoni nouvellevaguisti importati
da noi dal giovane Bertolucci. Non mancarono tuttavia sostenitori illustri che
lo difesero. Una primissima versione del film, di sei ore, spinse Ungaretti a
convincere Enzo Nasso a distribuirlo (purché – su richiesta di quest’ultimo –
fosse riportato a una durata ‘normale’). Per Elsa Morante A mosca cieca era il film che spazzava via
definitivamente il neorealismo.
Alla fine l’invisibilità ha giocato a favore di questo grande
film-fantasma, favorendone una fama postuma, in assenza, per così dire. Ora che
ritorna dove non è mai stato possiamo toglierci la benda davanti agli occhi e
vederlo avanzare guidato unicamente dalla propria accecante libertà.
A mosca cieca è Ricordati di Haron, come recitano i titoli di
testa della versione ancora oggi circolante ed edita in dvd dalla RaroVideo, ma
è anche I giochi dei bambini e
chissà cos’altro ancora. È il film “maledetto” per eccellenza dell’underground
italiano, quel microcosmo che fu maledetto dalle istituzioni, da buona parte
del pubblico, dallo stesso ambiente cinematografico. A mosca cieca è il film invisibile, che per i
più stolidi “non doveva mai essere fatto”, e che invece (r)esiste ancora a
distanza di cinquant’anni, in tutta la sua mortificante destrutturazione, in
quel meccanismo che si auto-sabota per disinnescare la miccia di un sistema
gonfio, tronfio, obeso. Romano Scavolini ha ventisei anni quando presenta A mosca cieca a Enzo Nasso, produttore di
documentari, con il quale il regista aveva già collaborato per lavori sulla
breve distanza: ovviamente in questo caso non si tratta di una ripresa dal
vero, ma c’è più realtà in quelle immagini che
nella stragrande maggioranza dei documentari prodotti all’epoca dal Ministero
del Turismo e dello Spettacolo. Nasso si trova davanti un fiume in piena di
immagini, per oltre sei ore di durata, che diventano poi due ore e un quarto. Di
questa versione si innamora a prima vista Giuseppe Ungaretti. Ma più della
poesia può la burocrazia, e in censura mal vedono un seno scoperto di Laura
Troschel, all’epoca ventiduenne: probabilmente i problemi non riguardano solo
le nudità dell’attrice, ma questo dettaglio basta alla commissione apposita,
che vieta il film (sullo scranno ministeriale del terzo governo Moro siede il
socialista Achille Corona, già tra i fondatori di Unità Proletaria, ma il suo
sottosegretario era il democristiano Adolfo Sarti, tre lustri più tardi
coinvolto nell’inchiesta sulla loggia massonica Propaganda Due) nonostante le
ripetute proteste di Scavolini e i ricorsi a tutti gli organismi dello
Stato. A mosca cieca non s’ha da
vedere, e viene rinchiuso nei sotterranei del Ministero, dove dovrebbe trovarsi
tutt’ora, neanche si trattasse di un pericoloso nemico pubblico. Ovviamente il film circolò comunque, in modo più
o meno clandestino, sia in Italia che all’estero, ma nella versione poi edita
anche in home video, che supera di poco l’ora di durata. Non che questo
rappresenti un problema particolare, perché A mosca cieca può essere considerato quasi un
film estendibile e riducibile, arto che sfrutta le potenzialità del cinema per
opporvi un fiero diniego…
Aricordodellarivoluzionedellagioianel’68.Unannoformidabile,quandolegiovanigene- razioni hanno dato l’assalto al potere, non per possederlo,
ma per meglio distruggerlo. Il vecchio detto (détournato
delle parole di un curato di campagna del ‘700, Jean Meslier, ateo,
comunistaerivoluzionario)—“L’umanitàsaràfelicesoltantoilgiornoincuil’ultimoburocratesaràimpiccatoconlebudelladell’ultimocapitalista”—nonèstatomaidimenticato…
prima
o poi verrano i giorni in cui i desideri di rovesciamento di prospettiva di un
mondo ro- vesciato saranno anche la realtà dei desideri di molti… e attraverso
la grammatica del sampietro (e strumenti più adeguati), la gente scoprirà che sotto
il pavé c’è la spiaggia dell’utopia realizzata.La dolce anarchia del ’68 si riversò
anche nel cinema… Augusto Tretti, Romano Scavolini, TintoBrass,CarmeloBene,FrancoBrocani,BernardoBertolucci,MarcoBellocchio,RobertoFaenza,MarcoFerreri,PierPaoloPasolini,SilvanoAgosti,SalvatoreSamperi(senzamai dimenticare la lezione etica di
Rossellini, De Sica e del primo Fellini)… facevano film che rivendicavanononsolounadifferentecostruzioneesteticamaanchelacircolazionediuna piùprofondariflessionepolitica…lacontestazionesiallargòatuttiigrandieventiinternazionali
(Pesaro, Venezia, Cannes, Berlino, Locarno, San Sebastian)… la protesta di
registi, sceneggiatori,attori,critici…passòdalloschermoallestradeevenneromessiindiscussioneil
funzionamento mercatale e l’esistenza stessa della macchina /cinema… qualcuno
disse che bisognavacontrapporre«larealtàdelcinemaalcinemadellarealtà»(PhilippeGarrel),altri invitano a
distinguere tra «fare dei film politici» e «fare dei film politicamente»
(Jean-Luc Godard)… altri ancora, «che
il cinema vada incontro alla sua fine è il solo cinema, che il mondo vada
incontro alla sua fine è la sola politica» (Marguerite Duras)… la coscienza
dionisiacadel cinema diffondeva una nuova innocenza o una
diversa costruzione della realtà che chiede- vadiessereliberata…sitrattavadinongiudicareilnemico,madicondurloalsuoannienta- mento.
Il film più
emblematico del ’68 lo gira Romano Scavolini nel 1966, A mosca cieca. Un’opera maledetta, censurata dalle istituzioni, dal mercato e
dall’ambiente del cinema. Contiene tutta l’eversione montante della gioventù
del ’68 e mostra la disfatta clamorosa della società spettacolare in decomposizione. Sinossi: Un uomo trova una
rivoltella in una macchina in sosta e decidediutilizzarlapercolpire–senzamotivoapparente–unavittimasceltafralafollain uscita (oforseinentrata)dallostadio.ComeJean-LucGodardchefilmal’avventuraanarcoi-de di
Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo
respiro (1960), e si chiude con l’uccisione di Belmondo sotto il fuoco
della polizia, Scavolini racconta la deriva metropolitana di Carlo Cecchi, che
finisce nel gesto surrealista di uno sparo su un volto qualsiasi che passa per
la strada… il cinema — sembra dire Scavolini
—, non è tollerabile se non per il grado di rivolta chevisimette.
OccorreattendereilfilmdiAntonioRezzaeFlaviaMastrella,DelittosulPo(2002)perraggiungerelamedesimavisivitàsurreale,cinica,anarcoideerivedereunaricodificazionedel linguaggio cinematografico… ed è
quanto si “legge” nell’intera opera di Giovanni Andrea Semerano,film-makerostico,abrasivo,libertariochevolgeilsuofare-cinemaneldisincanto poetico di chi
impugna la videocamera con la disinvoltura dei partigiani, quando passavano il ferrodaunaspallaall’altraperconquistaredignitàebellezzaperdutenell’inventariodelle contraddizioni e delle servitù
prolungate.
Amoscaciecahaunagenesicomplessa…nonfapartedelcinemaunderground,nédiquello
sperimentale
o che altro… il film di Scavolini è un cinema in rivolta, spudoratamente
anarchico,chespaccagliassuntiadirepoco,ridicoli,suiqualipoggiavailsuccessodellacommedia all’italiana e molte variazioni sul medesimo tema, anche
del cinema più “impegnato”… stessi attori, stessi sceneggiatori, stessi registi, perlopiù
verniciati a sinistra, che dicevano di dissentire con l’ordine politico e
quello del mercato… creavano solo grandi personaggi come Totò,AlbertoSordi,VittorioGassman,UgoTognazzioNinoManfredi—naturalmentefatte salve indimenticabili interpretazioni
che qui non interessa evocare —, maschere stereotipate della mediocrità o
mattatori del disagio indefinito che (fuori da registi come Ferreri, Pasolini, Rossellini,Lattuada,MonicellioScola)andavanoasostenerepropriol’oggettodelloro scherno… la
seduzione della risata compiacente ha maestri illustri, uno su tutti, Charlie
Chaplin…ilsorrisoalvelenoèriservatoaBusterKeaton,ilsilenziodell’interrogazioneèdiJacquesTati.Attraversolacostruzionedellaparola,delgestoedelcorpocomeimperativieconomici, il cinema dell’italietta
catto-comunista non poteva che essere parte di una civiltà agonizzante,
modello di un umanismo futuro, rassegnato alle ghigliottine dei mercati… se il
Neorealismo, a ragione, spaccava cumuli di convinzioni e volgarità indegne, la
commedia all’italiana, come i western-spaghetti poi (Sergio Leone incluso),
imperversavano sulle superfici
dellavitaeneglientusiasmidelbotteghinoonelleidiozieappassionategiustificavanoesostenevanol’edificazionediunsistemadicorruttele(disfacimenti,decomposizione,corrompimento) estetiche/etiche che passavano dal
malcostume alla santificazione del sogghigno politico… marionette di beati del
cinematografo che mescolavano farsa, amarezza e saggezza popolare nel gioco
delle idee… commedianti di rara abilità figuravano una massa di disadattaticheriadattavanolasperanzasecondoidettamidelpotereincarica:l’inautenticità della loro fioritura lessicale (poi tracimata nella scatola televisiva)
li faceva sprofondare nei baratri
di una mediocrità ripetitiva, quasi asfissiante, fino a raggiungere lo
sbadiglio universale.
A mosca cieca anticipa o contiene molto del cinema di Augusto Tretti (La legge della tromba, 1962 e Il potere, 1972), Mario Schifano (Satellite, 1968 e Umano, non umano, 1969), Carmelo Bene (Nostra
signora dei turchi, 1968), Franco Brocani (Necropolis, 1970), Alber- toGrifieMassimoSarchielli(Anna,1975)etuttoilcinemaindipendenteitaliano(Bargelli- ni,Bacigalupo,Brunatto,DeBernardi,Leonardi,Miscuglio,Turi,Capanna,Lajolo,Lom- bardi, Loffredo, Baruchello, Angeli, Patella, Nespolo,
Gioli, Farri, Granchi Boero, Luginbü- hl,Martelli,Ontani,Colantoni,Mazzoleni,tantoperfarequalchenome)…inunaflâneriedel massacro o del senso estremo, l’interprete del film di Scavolini(Carlo Cecchi,
a dire poco, meraviglioso!) figura una vita senza lacrime e senza
genuflessioni… mostra che all’infuori della creazione e della distruzione del
mondo, tutte le iniziative sono senza valore, diceva. Quandoognifede,ogniideologia,ogniillusionesiriconoscononell’evanescenzadiunmon-
dopiegatoall’arroganzadipochi,tutteleprofanazionieleribellionisonoautorizzate…toc- care gli estremi di una coscienza senza infatuazioni
istituzionali, vuol dire afferrare al volo gli itinerari dell’odio contro
l’intero sistema di tirannie spettacolari
e decretare la fine di epoche dissolute.
Scavolini, autore (nel tempo) di film singolari come Un bianco vestito per Marialé (1972), Nightmare(1981)odeldocumentarioLeultimeoredelChe(2004),lavorianomali,innovativiofuoridallerispondenzemercatali…dopoalcunicortometraggi(Idevastati,1959;La quiete febbre, 1964), debutta (a ventisette anni) nel lungometraggio con
A mosca cieca. Lo realizzaconunacinecamera16mm,pellicolabianco/neroeunapiccolatroupediamici.Diconochefuoriescadaoltreseioredigirato,poiridotteapocopiùdidueoreeinfineallavisioneattuale65’.Lacommissionedicensurabloccailfilmtrevolteeinfinelovietadefinitivamente per pornografia… si vede solo il seno nudo di Laura Troschel (nemmeno
bene) e finisce nei sotterranei del Ministero del Turismo e dello
Spettacolo (dove impera il socialista Achille Corona). La
scrittura filmica del giovane Scavolini è aritmica, provocatoria, discrepante…
Cecchi trova la pistola in un’automobile parcheggiata a piazza Venezia…
vorrebbe ammazzare il padre? un amico? un carrozziere? Il film è
quasi muto, i dialoghi (forbiti e metaforici) sono ridotti al minimo e
travalicano oltre la sequenza… le musiche elettroniche (atona- li) di Vittorio Gelmetti avvolgono l’intero film e l’amore di Carlo e
Laura…la pellicola è sovraesposta, sottoesposta,
intercalata da bianchi, neri, buchi di code di montaggio, sfocature, ripetizioni,
sguardi in macchina… cinecamera a mano… violazione del linguaggio schermi- co…ricordaabbastanzailmanifestocinematograficodelLettrismo,Traitédebaveetd’éternité (1951) di Isidore Isou, e in qualche modo il cinema sovversivo di Guy
Debord, special- mente Surlepassagedequelquespersonnesàtraversuneassezcourteunitédetemps(1959)piùinprofonditàsicolgonocertiriferimenti(sulconcettodivita-mortecomesceltaindividualeodestinodalqualenessunopuòfuggire)aLapassionediGiovannad’Arco(1928)di CarlTh.Dreyer,Questaèlamiavita(1962)diJean-LucGodardoI400Colpi(1958)di FrançoisTruffaut,certeinquadratureriportanoall’austeritàespressivadelmaestroRobert BressoninAuHasardBalthazar(1966).PocoimportaseScavoliniavevavistoquestifilmo
ne aveva letto sui libri… quello che vale è che A mosca cieca, nella sua disperata
vitalità, resta un’operadi forte impatto sociale e più ancora, il risultato (anche
dimezzato dal produttore e dalla censura) di una scrittura
filmica eversiva quanto intelligente… un canto d’amore in anarchia che rifiuta tutto e tutti lo rifiutano… né salvezza né redenzione
è quello che Scavolinibuttasulloschermo…maun’estremaunzionedellacattivitàdellavitaperseguitatadalla moraledominante.
Carloinseguelavittimasceltaacasoeattendeilmomentoperucciderla(amoscacieca,appunto!). Il tempo è frammentato nell’attesa… lo sparo viene anticipato da
un fumetto e quando il corpo della vittima cade a terra, il portiere di una
squadra di calcio (siamo nei pressi del-lostadioOlimpico)sigettasull’erbaperafferrareilpallone.LafugasulLungoteverediCecchi
riporta a quel Boudu salvato dalle acque (1932)
di Jean Renoir… figura deliziosa di un uomoliberochenonaccettanessun“ideale”néproselitismoecumenicoealculminedell’ineluttabile si
chiama fuori da ciò che non merita di esistere. Il montaggio di Mauro Contini
(e Scavolini) è metaforico, estraniante, rompe l’usale sintassi filmica e
s’inventa abrasioni stilistiche coraggiose… s’accorpa alla magia delle
inquadrature non proprio cattedratiche di Scavolini e incrocia primi piani a
movimenti di macchina (spesso traballanti) che conferiscono al film una sorta
di sinfonia visiva. La fotografia è un elogio all’imperfezione… la firmano in
molti (Romano Scavolini, Roberto Nasso, Mario Masini, Cesare Ferzi), ma quello
che resta negliocchièl’ecodellabellezzaselvaticadiunaRomainsolita,quasibruciatanell’apologia del vero, come si vede in Accattone (1961), Mamma Roma (1962) o Uccellacci
e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Un’immagine di verità che
rigetta l’estetismo degli eroi e dei santi… che mette le cose al loro posto e
slabbra la visione di universi convenuti. Il film si chiude sul
matrimonio di Pippo Franco e Laura Troschel, in super-8mm (ripresi all’interno
esulterrazzodellalorocasa).LaricchezzainteriorediAmoscaciecanonlasciaspazioasofismi né a glorie
postume… come dice Godard: «In un film tutto quel che serve sono una ragazzaeunapistola»,ilrestoèsolounaprerogativadeiservidiogniconvenienza…lapoesia (in
ogniformad’arte)esprimel’essenzadiciòchesiriesceadistruggereo,piùancora,ètut- toquantotrasfigural’infelicitàinamoreperun’esistenzaliberata.Cisonotalentidicuinon abbiamobisognoegenideiqualinonpossiamofareameno…esonoquest’ultimichefanno
impallidire l’immoralità del momento e
agiscono sulla distruzione dell’ordine del discorso… poiché le nature
eccezionali hanno orrore di qualsiasi potere, s’addossano ai dubbi del dissi-dio e
annunciano le prossime rivolte nel mondo.
…Il
lungometraggio d’esordio di Romano Scavolini, A mosca cieca, è un
qualcosa di totalmente alieno dal panorama di quegli anni, nel senso che pur
prendendo influenze dalle rivoluzioni filmiche di quegli anni (in particolare
il montaggio di Resnais e la Nuberu Bagu, da Oshima fino soprattutto a, come
affermato dallo stesso regista, Shindo), nel panorama italiano non ci fu niente
del genere: si tratta di un caso davvero improponibile per unicità, con tra i
pochi altri casi di tale libertà (quasi sconosciuta a noi oggi) film come L’urlo (1968)
di Tinto Brass. Portato al Cinema Ritrovato dopo una storia di restauro
complessissima, in cui, tra vari passaggi dal 16mm al 35mm consigliati da
Moravia al regista ai tempi, molto è andato perso – e sostanzialmente il
regista, per riportare l’opera in una nuova versione completa in un
dignitosissimo 2K (che perde l’equilibrio solo sul finale preso da un negativo
filtro seppia in super 8 di cui è snaturato il formato), ha dovuto compiere una
vera e propria avventura. Il primissimo montaggio del film, con gli stessi
ritmi, sarebbe durato 6 ore; il secondo montaggio quasi 3 ore, e quest’ultimo,
definitivo, meno di un’ora e mezza, introvabile al di fuori di questo restauro
per la cui distribuzione Donatello Fumarola con Zomia sta combattendo insieme a
Scavolini. Quando Godard dice che «in un film tutto quel che serve sono una
ragazza e una pistola», allora A mosca cieca rientra
pienamente in questa regola, girando attorno a questi due poli con eleganza ma
anche con un utilizzo del montaggio totalmente innovativo e complesso. La
pistola è un simbolo a cui gira attorno buona parte dell’opera e della sua
realtà, è un oggetto meccanico attraverso le cui pulsioni tecnologiche e
disumane viene caratterizzato il protagonista Carlo: un uomo “Adamitico”
nell’essenza e “pre-Adamitico” nella coscienza, seguendo le parole dell’autore
stesso, alla ricerca, all’interno dei propri istinti, di uno spazio in un mondo
alienante che lo abbandona nella propria condizione di derelitto, non curandosi
delle sue necessità. La pistola parte dalle immagini fumettistiche, nasce come
riflesso in potenza (in crescendo) destinato a diventare in atto grazie alla
prepotenza della cultura pop, con le immagini comuni che ritornano nello
spazio-tempo confuso del film in continuazione, ricordando un’ossessione, un
ripetersi di certi simboli anche attraverso un mondo in evoluzione grazie alle
finestre create dagli schermi e dalle ossessioni dei semplici cittadini,
dell’uomo normale, che diventa Carlo o che forse si rivela come Carlo,
somigliante a Carlo; o sociopatico e psicolabile come Carlo, che, giunto in
possesso dell’arma,fantastica sull’omicidio del padre, di un amico, di un
carrozziere. Ma non della propria amata ragazza, che abbraccia e ama con un
affetto scomposto che è lo stesso che Diego prova verso Nadine nel
succitato La guerra è finita.
Il film poi
è praticamente muto per tutta la sua durata: si contempla Carlo attraverso
inquadrature lunghe e corte, non per creare immedesimazione quanto per creare
riflessione e specchio tra spettatore e personaggio, e non si sente il bisogno
dell’ascoltare le parole che pronuncia. L’audio del film è composto quasi
interamente dalle musiche elettroniche di Vittorio Gelmetti, già celebre per un
brano da lui composto per Deserto Rosso (1964) di
Antonioni, mentre il video è un prorompente e continuo montage che mischia
primi piani di dettagli, cinéma vérité, viaggi in uno spazio inconscio (più che
onirico) di possibilità e poi vera e propria narrazione, ma con ritmi che
sempre sono pronti a riavvolgersi. E poi, «a proposito degli effetti speciali»,
come direbbe Grifi; effetti speciali che sono scritte sulle immagini, sulla
pellicola, oppure tra un’inquadratura e l’altra con frame anche colmi con
i buchi del rullo precedente. Scritte di formule matematiche, punte
poetiche, frecce, spirali che convergono verso un misterioso centro
(decentrato?), riferimenti alla filosofia del biologo socialista Jacques Monod;
nonostante Scavolini abbia detto al sottoscritto di non aver visto Trattato
di melma e d’eternità (1951), il manifesto del Lettrismo firmato da
Isidore Isou, quando gliel’ho chiesto verso l’uscita dal cinema dopo il breve
ma intenso Q&A dopo la proiezione in Sala Scorsese alla Cineteca Lumiére,
si sente un po’ la stessa spinta alla rinascita attraverso la distruzione.
“Graffiare la pellicola” per creare un nuovo linguaggio, una “discrepante
Visione” anticonvenzionale che possa usare nuove parole, nuove sillabe, nuovi
silenzi – con la voce che spiega senza spiegare, mentre cinema e realtà si
inseguono per le strade, con gli stessi ritmi decostruiti. E si va verso un
lapidario cartello che recita “LA MORTE”, riportando alla mente La
passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer ma anche volendo la
citazione a esso in Questa è la mia vita (1962) di Godard,
seguito da una corsa contro il tempo e contro il mondo, una specie di frenetica
ricerca nell’immagine di una libertà che superi i limiti dell’uomo e del
cinema, come cercando di sfogare attraverso il movimento il problema, come in
un I 400 Colpi (1958) maturato e inconsciamente
metamorfizzatosi in un qualcosa di più violento, in uno sparo “a mosca cieca”
sulla folla. E il finale, quel ridente, sguaiato, ironico e nel contempo
crudelissimo pseudo-mini-documentario in super 8 con protagonista l’attrice del
film Laura Troschel durante la celebrazione del suo matrimonio con Pippo
Franco, riporta sagacemente alla realtà e alla sua incoerenza, alla parte
gioiosa dell’esistenza che sempre può sembrare voler incombere sulla scura
compresenza caotica di queste inquadrature, di queste grida mute. Girato da
Scavolini quando aveva solo 26 anni, questo film scomposto e più che mai
lontano dalle categorizzazioni della critica cinematografica borghese ha creato
un film-morte che è anche film-vita, un film-uomo che è anche un film-mondo, un
film atemporale che è anche un film pecora nera figlio di una società che non
lo poteva e/o non riusciva ad accettare la sua esistenza. Ad libitum attraverso
gli schermi.