lunedì 27 febbraio 2017

La festa perduta – Pier Giuseppe Murgia

quattro anni fa avevo scritto qui

un film praticamente introvabile, finché non lo ristampano o un'anima pia lo mette in rete.
io ho avuto la fortuna di vederlo, in una copia di una registrazione di non so quando, dalla Rai, trovato in una cineteca.
è uno dei primi film sul terrorismo, e ce n'è per tutti, per terroristi e polizia, scomodo per tutti, terroristi e polizia, forse per questo è "sparito" (neanche un trailer si trova in rete).
siamo nel 1977, nel passaggio dalla contestazione alla lotta armata, ed il film è di una chiarezza e di una sincerità uniche.
ci sono molte cose interessanti dentro, delle piccole storie laterali.
peccato che il regista sia famoso per dei film inguardabili e non per questo.
è un film che merita molto, a me è piaciuto moltissimo, auguro a tutti di riuscire a vederlo, poi giudicherete.

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l'anima pia è arrivata, ed ecco il film completo:

domenica 26 febbraio 2017

Train to Busan - Yeon Sang-ho

una storia di zombie come tante, diranno i miei venticinque lettori.
e invece no.
protagonista è una bambina, Soo-an, che deve capire tutto in poche ore, su un treno lanciato a bomba sulla Corea, da Seoul a Busan.
l'invasione esponenziale degli zombie è fuori controllo, e su un treno è difficile restare a distanza di morso.
ma qualcuno ci riuscirà, e la vita per loro avrà un nuovo inizio, all'uscita del tunnel.
di sicuro un film miglior di quello che ti aspetti, non trascurarlo - Ismaele

qui il film completo con sottotitoli italiani




Per il protagonista Seok-wu, detestabile workaholic del mondo della finanza, l'apocalisse zombi diviene un processo di apprendimento, che lo porta dalla massima espressione di una logica "cane-mangia-cane" al suo opposto. Ma Romero non è l'unica influenza che porta a Train to Busan: se il treno della disparità sociale richiama infatti quello del più celebrato regista sudcoreano attuale, ossia Snowpiercer di Bong Joon-ho, alla base dell'incidente e del comportamento dei personaggi più negativi del film di Yeon c'è il naufragio del traghetto Sewol, un disastro in cui hanno perso la vita trecento persone e in cui i media hanno recitato un ruolo di tragica complicità con le multinazionali responsabili.
Per Yeon la transizione dal cinema di animazione a quello live action si rivela quindi un passaggio indolore, che gli permette di sostituire ciò che non può più filmare per ragioni di budget con la capacità di sfruttare le intense performance dei suoi attori. Su tutti spicca il personaggio del caratterista Ma Dong-seok, quasi uno stereotipo del rozzo (ma di "buon cuore") uomo del popolo, che diviene il protagonista morale della storia. Nonostante un finale incolore e che avrebbe giovato di una maggiore sintesi, Train to Busan resta un momento di divertimento e insieme di riflessione da consigliare e non sottovalutare.

 Métaphore grossière mais délectable de nos sociétés, le microsome appréhendé et mis à mal par Yeon Sang-Ho se dessine comme un bestiaire du genre humain, entre lâcheté et égocentrisme des uns, et l’héroïsme sacrificiel des autres. Si la finalité de l’action n’a que peu d’importance – après tout les personnages cherchent bêtement à sauver leur peau pour ne pas finir en pâtée à zombies – l’écho que confère la réalisateur à la narration est quant à lui éclairant jusque dans la caractérisation des mort-vivants dont l’aveuglement et l’agitation (digne de poules fraichement égorgées) est une critique limpide d’un aveuglement généralisé de la population sud-coréenne (et pas que).
Fort de son expérience du cinéma d’animation, Yeon Sang-Ho pense habilement son découpage tout en travaillant avec soin l’hypothèse sonore afin d’exacerber notre tension tout en ne cessant de nous surprendre. Il dirige avec brio une brochette de comédiens dont le ponctuel surjeu est impayable. Et bien que le film se morde quelque peu la queue dans sa résolution, nous en demendons encore !

…Train To Busan es vibrante, una película donde la acción te persigue sin tregua consiguiendo una primera hora que te deja sin aliento. Si es verdad que en su segunda parte baja el listón-quizás demasiado- en lo que acción se refiere y se centra mas en el drama social de esa gente que quiere sobrevivir cueste lo que cueste. El fallo posiblemente del film es que es un cambio de ritmo brutal entre una parte y otra, creo que tendría que estar dosificado esos ritmos durante toda la película.
Train To Busan es un titulo para el entretenimiento que hará disfrutar a -casi-todo los amantes de la acción pero a la que no le falta su crítica a una sociedad cada vez mas egoísta.

 Il risultato è una specie di Snowpiercer più casinista e con meno pretese, ma soprattutto è quel che sarebbe stato bello trovare in World War Z: un horror d'azione teso, divertente, sanguinario, appassionante, pieno di piccole idee azzeccate nella messa in scena, senza alcun riguardo nell'insozzare di sangue i sedili del treno, privo di pudore nell'uccidere i suoi personaggi e comunque sempre attento a non perdere di vista quel che vuole raccontare. Al centro di tutto c'è il dramma familiare di un padre in viaggio con la figlioletta (e chiaramente, da neo padre di figlioletta, ci sono cascato con tutti i piedi), ma si aggiungono diversi personaggi azzeccati e c'è un giocare semplice, ma efficacissimo, sulla discriminazione sociale e su quanto, nelle situazioni peggiori, la logica del gruppo possa spingere a tirare fuori il fango nascosto nel cuore di chiunque. È un filmetto semplice, riuscito, divertente, messo in scena come si deve, che per una buona metà della sua durata non sbaglia un colpo e anche quando si lascia un po' andare intrattiene con gusto fino alla fine, senza mai diventare cretino. Avercene.

una fábula de supervivencia, del nacimiento de un padre, de crecimiento personal tanto para él como para su hija, de cómo un hombre comprende que su rol en la sociedad es mucho más que el resultado de su trabajo, de reconocer en la sonrisa de su hija que su vida nunca estuvo tan completa.
De fondo, la manada de zombies que atiborran la pantalla durante todo el metraje no son más que el medio, la frontera que nos sumerge en la ficción, pero que de manera críptica esconden todos los miedos y fantasmas de Seok Woo, toda la infancia perdida lejos de su padre de Soo-an. Además, la concepción y evolución de los infectados están muy lejos de las risas del espectador, siendo estos capaces de generar un terror real que traspasa la pantalla. El hecho de no profundizar en el origen del virus también es un gran acierto y reafirma la intención del director a la hora de darle prioridad al verdadero hilo narrativo. Pero ningún mensaje sería suficiente sin el trabajo experto de efectos especiales, el gran tratamiento de la historia, la conmovedora música incidental y el sobresaliente trabajo actoral, tanto de protagónicos como de secundarios, en donde cada uno permite identificarnos con su comportamiento y evaluar nuestra postura ante cada uno de los sucesos, donde sin duda la pequeña Kim Soo-an se roba la pantalla.
‘Train to Busan’ demuestra que, aunque parezca una paradoja, el sub género zombie no está muerto, sólo hacen falta buenas ideas y espectadores que nunca dejen de creer.

…Le quasi due ore della pellicola passano come un ruscello impetuoso ed in piena: tensione sempre alta, scene di grandissima spettacolarità, il giusto pizzico di ironia, una morale ben riscontrabile, buoni e cattivi scolpiti nella pietra grazie ad una caratterizzazione che non lascia spazio all'ambiguità, qualche sfumatura da melodramma, convergono nei canoni del più classico degli zombie movies, facendo di Train to Busan un lavoro di genere solido, tecnicamente inappuntabile con un cast di primo ordine…



sabato 25 febbraio 2017

Moonlight - Barry Jenkins

Chiron è un ragazzino timido e fifone e il branco non gli dà tregua.
Juan (uno straordinario Mahershala Ali, candidato all'Oscar) lo trova e lo protegge, lo tratta come il figlio che non ha avuto e come il bambino che avrebbe potuto essere.
Chiron non lo dimenticherà mai, e diventerà come lui, e non dimenticherà Kevin, l'amico di quando era bambino, e quindi per sempre, e si ricorda della madre, pessima madre, Chiron non dimentica.
Moonlight non è film di sesso, è solo su quella forma d'amore che riesce ad essere l'amicizia, e su come un bambino diventa uomo, in un ambiente difficile.
un gran bel film - Ismaele 








Buffo che Moonlight venga presentato come la storia di un afroamericano gay cresciuto nei sobborghi di Miami, perché se c'è una cosa che il regista Barry Jenkins evita accuratamente è proprio la categorizzazione. Il protagonista Chiron fin da bambino si fa delle domande riguardo al suo orientamento sessuale, domandandosi perché i suoi amici lo chiamino "frocio", ma il suo amico e padre acquisito Juan lo tranquillizza: non devi darti una risposta adesso, lo capirai quando sarà il momento. Un insegnamento che Chiron interiorizza e si porta appresso fin nell'età adulta.
Ma anche Chiron, come tutti, ha un disperato bisogno di appartenenza, ed è qui che entra in gioco la sua identità "black", dato incontrovertibile, immutabile e, a differenza dell'orientamento sessuale, impossibile da occultare. Si trasforma così nel prototipo del suo persecutore: un thug dal fisico immenso, dentatura d'oro posticcia e mascolinità granitica, fiero della sua auto sportiva nella quale rimbombano i bassi micidiali della musica rap. Soltanto chi lo ha conosciuto nell'età in cui era più fragile può rendersi conto dell'assurdità di quel travestimento, e metterlo di fronte al fatto che, nonostante i denti d'oro e quell'aria da re della malavita, in fondo è rimasto quello di un tempo…

 gli obiettivi di Jenkins avrebbero avuto più forza se il suo film fosse alleggerito dall’ingenua attenzione all’elemento poetico, al simbolo manifesto, al quadro statico di rarefatta bellezza. La saturazione cromatica, la colonna sonora ridondante (anche se l’attimo con la voce di Caetano Veloso è di una forza disarmante) e l’onirismo ricercato sono elementi che tirano in ballo la lezione di Schnabel, (Prima che sia notte, per troppe ragioni, è un riferimento cinematografico fin troppo evidente) figura che, in diversi punti, arriva a essere anche ingombrante. Nonostante ciò, il tentativo di Jenkins ha dalla sua il coraggio di non frenarsi, lasciando, alla fine, totalmente libera la forza emotiva di un piccolo, semplice, racconto sentimentale.

La parte finale della riconciliazione con sé stessi e con il mondo attraverso il primo amore – ma sarà stato amore? – sfuma il poetico in una scrittura orchestrata – ricattatoria – ad arte di retorica per farne parlare bene a tutti i costi. Un film straordinario quando si serve dell’ordinarietà per far leggere tra le righe l’universalità dei temi. Arrogante quando vuole essere straordinario a tutti i costi.

 Emotionally and thematically, Moonlight addresses universal subjects: bullying, coming to grips with one’s sexual identity, and navigating the treacherous waters of adolescence to emerge into adulthood. The specifics of Chiron’s environment and culture may be foreign but Jenkins identifies touchstones that are common across races, genders, and socio-economic strata. The use of three episodes develops Chiron in ways that a more traditional screenplay might not be able to do. If the story’s trajectory seems familiar, that’s because Moonlight is grounded in real, common occurrences. Its power comes not through surprising and unexpected narrative developments but as a result of our identification with the characters. That’s a rare and welcome thing for a movie to achieve.

…Dove però Moonlight frana senza possibilità di appello è nel terzo capitolo, che ci mostra l’inopinata metamorfosi di Chiron da esile bambino e ragazzino introverso, almeno sino ad una sacrosanta reazione in ambito scolastico, in palestrato spacciatore adulto che ritrova il primo amore omosex della propria adolescenza. Sorvolando sulla superficialità da soap opera con cui viene trattata la delicata tematica in un microcosmo da strada dove mai lo status di omosessuale può e potrà essere accettato, resta la spiacevole sensazione di un’opera capace solamente di piangersi addosso a proposito dei cosiddetti percorsi di vita “obbligati”, invece che fornire agli spettatori un solare esempio di resistenza umana alla sofferenza della discriminazione.

 Lo primero que me atrajo de la obra de Barry Jenkins fue su sutileza a la hora de tratar sus temas. No estamos ante una obra reivindicativa al uso, no pretende serlo en absoluto. En comparación con los demás nominados a los Oscars como Figuras ocultas, la temática afroamericana de la que aparentemente hace gala (al menos por el boca a boca) queda relegada a mero contexto. Moonlight es la historia de Sharonne, la cual nos es contada desde su infancia hasta su madurez. La película abandera sus temas sociales sin pretensión alguna; realmente, no se llegan a percibir como tales, sino que simplemente enmarcan los límites de la obra. En cierto sentido, va más allá de cualquier película del estilo, pues no proclama cual pancarta por los derechos de los afroamericanos, sino que universaliza de tal manera su historia que poner a un hombre blanco o uno de color no afectaría en absoluto a la historia, de ahí su magia. No obvia en absoluto la precaria situación de los ghettos norteamericanos y el peligro de las drogas, pero no busca clamar al cielo por una mayor justicia, sino que refleja la situación y enmarca sus acciones en ellas, lo cual convierte esta película en una obra de una honestidad encomiable.
Lo mismo ocurre con el asunto homosexual. Moonlight asume la validez de esta inclinación y prefiere contar una preciosa historia de amor a través del tiempo antes que una guerra social. En ese sentido, se acerca obras como La vida de Adèle y se aleja de Hollywood, más propenso a obras como Philadelphia Mi nombre es Harvey Milk. Esto le aporta a la película un carácter íntimo que, unido a su sinceridad, hacen de Moonlight una obra refrescante. De nuevo, no termina de desligarse del tema social. Jenkins liga la homofobia al acoso escolar que sufre Sharonne durante su infancia y adolescencia, pero no son tanto un fin como un medio para retratar los baches en la vida del protagonista, pues, como mencioné al principio, esta película trata en última instancia sobre el proceso de crecer y de alcanzar la madurez, conformar tu identidad, ya sea creandote  falsos escudos o sobreponiendote a la adversidad. No es rompedor ni mucho menos novedoso, pero si que le otorga a la cinta ese toque especial que la hace destacable: sinceridad, amor, intimidad… corazón…

…La tripartizione narrativa che Jenkins sceglie per raccontarci la storia di Chiron convince ben poco: anzitutto i tre segmenti appaiono troppo slegati tra loro  e solo la bravura dei tre attori sembra essere l'unico collante; inoltre il regista di affida troppo a stereotipi fin troppo abusati come se raccontare la storia di un ragazzo di colore, probabilmente gay, emarginato e con una madre drogata non fosse già sufficiente per cadere nelle facili trappole narrative.
In certi momenti poi il film si ammanta di una poeticità forzata, veicolata sempre da un formalismo stilistico che poco si compenetra con una storia che vorrebbe essere una battaglia eterna tra il marciume e la redenzione personale. 
Dei tre segmenti di cui è composto il film, quello finale incentrato sull'incontro tra il protagonista e Kevin, l'amico di un tempo che girò lo sguardo di fronte al pestaggio subito da Chiron, è certamente, come detto, il migliore: il riaffiorare di una amicizia che condusse i due adolescenti ad esplorare la loro identità sessuale è per il protagonista l'innesco per comprendere la sua inadeguatezza presente e , stavolta in modo forte e spontaneo, la vena poetica sembra affiorare senza formalismi stilistici…



giovedì 23 febbraio 2017

Alps - Yorgos Lanthimos

c'è una società di gente già con problemi per conto loro (e chi non ce ne ha, direbbe qualcuno), offrono servizi personali, fingono di essere un morto, fino a che il committente non elabora il lutto, pagando s'intende.
l'aspetto inquietante è un altro, i lavoratori dell'impresa non solo si sostituiscono, rappresentano, fingono di essere qualcun'altro, ma si immedesimano, diventano quelle persone, carne, sangue e testa, al punto di non sapere più chi sono, se l'attore/attrice o il personaggio, come degli eteronimi che prendono possesso dell'attore/attrice, combattendosi per prevalere, e soffrendo.
manca il sole della Grecia, e manca qualsiasi sorriso, siete avvisati.
premetto che l'ho visto due volte, una volta sola non mi è bastata, confermo che è un film che merita - Ismaele




QUI il film completo in greco, con sottotitoli in francese


…le persone non hanno nomi propri, il gruppo Alpeis (un po’ come i figli che si ritrovavano nei personaggi dei film americani ) decide di identificarsi con i nomi dei rilievi che costituiscono la catena montuosa, questo è il primo segnale di un’allarmante disidentificazione che ovviamente si mostra spettrale e funerea con l’attività della “società” laddove la sostituzione fisica con i deceduti porta i componenti della squadra, e in particolare l’infermiera, ad forse (e chi una frantumazione irreparabile del sé, una disgregazione identitaria generata da una multi-proiezione personale che li rende tutti e al contempo nessuno, perdizione in un dedalo a-cosciente dove il fine ultimo non è il denaro ma una sorta di feticismo mosso da quella che altro non è che un’ostinata ricerca di essere qualcuno.

Un pò ho capito cosa mi affascina di Lanthimos. E' il suo tratto saramaghiano, quello di costruire vicende al limite dell'assurdo (o che lo oltrepassano) vendendocele per dati di fatto, verosimili, accettabili.
Ma quello che è davvero portentoso in questo cinema (tutto questo greco) è la capacità di emozionarti senza toccarti il cuore. C'è uno stranissimo sentimento puramente intellettivo, un disturbo che ti colpisce alla testa molto prima che allo stomaco. La freddezza con la quale i fatti vengono narrati, questa incredibile glacialità sono qualcosa di portentoso. E Lanthimnos in più riesce a creare dei soggetti del tutto nuovi, geniali.
Qua si parla di una "società" di sole 4 persone che dietro compenso "interpreta" il ruolo di persone morte, per far vivere alla famiglia più gradualmente e senza stacchi netti l'elaborazione del lutto. Il ruolo dell'"attore" è predominante…

el autor conforma un film que puede recordar un teatro, en el que los actores ensayan y reproducen una y otra vez diálogos muchas veces bizarros, por lo absurdo del momento en el que se están produciendo, pero totalmente eficaces dentro del contexto. Alps es un compendio de escenas en las que los actores (reales y ficticios) deben disfrazarse para parecer otras personas (no se nos escapa que la ropa de la enfermera es siempre la misma… su vida se ha convertido en un papel tal que incluso nos hace pensar si su padre es, realmente, su padre). Primero, observamos ese teatro desde la distancia, como los espectadores que somos de una realidad inusual, que no estamos comprendiendo. Más tarde, inconscientemente, nos vemos envueltos en esa repetición, que nos atrapa. Finalmente, sufrimos junto a la enfermera su propio y desesperado destino, en contraposición al de la gimnasta….

Lanthimos, che lo si ami o no (è tra i registi che suscitano più rigetti e repulsioni), è autore dal segno forte, riconoscibile, con il suo andare ossessivamente in cerca di distorsioni e pervertimenti dell’apparente normalità, del suo sfaldarsi nell’ignominia e nello squallore, del suo nascondere istericamente malesseri, patologie della mente, derive nella follia. Un Buñuel riadattato ai disgraziati tempi nostri, alle nostre mediocrità e medietà, del quale condivide un certo senso del grottesco e del paradosso, ma non la grazia, non la levità, non il surrealismo beffardo, e nemmeno l’anarchica distruttività. Tutto è pesante, lercio, caliginoso, irrimediabilmente condannato alla caduta in Lanthimos, in un guardare al mondo di nichilistica disperazione. Con il  sovrappiù del racconto di una normalità che scivola nel suo esatto opposto senza che quasi ce ne rendiamo conto, perché Lanthimos (con il suo fedele sceneggiatore Efthymis Filippou) mette in scena minuziosamente e ossessivamente microcosmi altri ma assolutamente coerenti e compatti, mondi a parte in cui lo scostamento rispetto alla medietà fonda a sua volta un’altra e altrettanto compatta medietà. Impassibile, il signore delle tenebre del cinema greco, altera appena le coordinate in cui tutti ci troviamo a vivere creando distopie però qui e ora, nostre contemporanee, come dietro la porta chiusa del nostro tinello, piccoli universi paralleli dominati da (il)logiche ferree e regole a loro modo coerenti benché spostate e sconnesse rispetto alle nostre. A ricordarci come ci voglia poco, anzi niente, a far deragliare i comportamenti e le relazioni tra singoli in una palude melmosa e letale…
…Il sospetto è che ci sia un compiacimento di troppo, una pulsione che in altri tempi si sarebbe detta morbosa da parte del regista-narratore-osservatore-testimone a affiondare lui stesso e pure noi spettatori nella melma, ed è questo a prenderci alla gola, non diversamente da quanto succede con la scuola viennese degli Haneke e Seidl, parenti solo più nordici di questa nuova (ex nuova ormai) onda ellenica plumbea e nera da esposizione a troppo sole. Eppure Lanthimos ci ipnotizza, tascinandoci nel gorgo dei suoi disgraziati e sgradevoli personaggi. Chi mai potrà provare un minimo di partecipazione per lo sciagurato quartetto di Alps? Due uomini e due donne, in rigorosa simmetria di genere…

Lanthimos takes another abstract aspect of society to absurd extremes after he explored separationism in Dogtooth. In this case, he is exploring the roles that people play for others, and whether people, when they die, can be replaced by actors. A group of people naming themselves after mountains in the Alps, provide such a service, replacing dead people by acting out a collection of quirks and mannerisms combined with specific phrases by which they are remembered. A nurse replaces a dead teenage girl and acts out a scene where her parents catch her with her boyfriend, or she replaces a wife and has to say something very cheesy during cunnilingus. A gymnast submits to a cruel coach and praises him even though he does nothing but threaten her, and they all pretend to be celebrities in their spare time. Except it is all delivered cold, deadpan and without emotion, making the whole thing even more absurd. Eventually though, a woman starts falling apart and matters break down when she fails to deliver her lines or does something 'wrong', whatever wong is in this context. Until the goals of the movie click you may wonder if you got the right subtitles seeing as they all talk in non-sequiturs. Then it is interesting for a while, but fails to develop or deliver anything beyond the initial idea, making it a rather cold and unrewarding, stretched-out, intellectual experiment (like a minor Haneke movie)

lunedì 20 febbraio 2017

Watermelon Man (L'uomo caffellatte) - Melvin Van Peebles

nel 1970 Melvin Van Peebles gira questo piccolo grande capolavoro.
un bianco, razzista come tutti i bianchi, stanco di tutti quei neri che portano problemi, capofamiglia di una perfetta famiglia bianca, una moglie e due bambini, si sveglia una mattina, è diventato nero.
e da qui il film, già buono, diventa straordinario.
l'attore protagonista, Godfrey Cambridge, è di una bravura enorme, gli altri attori sono solo bravissimi.
il film è comico, si ride fino alle lacrime, e anche serissimo,
l'inversione delle parti è geniale.
insomma un film da non perdere, se ti vuoi bene - Ismaele





qui e qui il film completo in italiano


… "L'Uomo Caffelatte" non fa solo la morale, in modo simpatico senza calcare la mano, all'uomo razzista, ma in alcune sequenze punta il dito anche sulla società e sull'ipocrisia di essa. Quando il Jeff "negro" corre per la prima volta con l'autobus, viene subito braccato dalla folla perchè tutti sono convinti che abbia rubato qualcosa ("L'hai visto rubare?" chiede un passante, "No, ma un negro che corre ha rubato qualcosa per forza" risponde un altro); quando, invece, il capo si accorge del cambiamento di Gerber, in lui vede solo l'opportunità di avere un agente per un nuovo sbocco sul mercato nero.
Il film è davvero divertente e, anche se comincia a sentire un po' il peso degli anni (ma mai troppo), è spassoso nelle trovate comiche e riesce a non scivolare in quella facile e banale retorica antirazzista, in cui Hollywood spesso eccede, che (per quanto giusta possa essere) ad un pubblico mediamente intelligente risulterebbe stucchevole. Significativa è la scelta dell'interprete protagonista Godfrey Cambridge, attore nero, truccato da bianco nella prima parte (ribaltando la consuetudine del vecchio cinema muto).

Poco conosciuta ma di notevole livello questa commedia che tratta con arguzia un tema, quello del razzismo, che non cala mai di attualità. L'energia del film sta tutta nella prova e nella mimica di Godfrey Cambridge ma anche chi gli sta attorno lavora al meglio. Esilaranti ad esempio le disperate prove di "sbiancamento" e le trattative con il comitato dei vicini per la vendita della casa. Un ottimo esempio di sintesi tra immediatezza del racconto e riflessione profonda (anche molto amara).

domenica 19 febbraio 2017

Manchester by the Sea - Kenneth Lonergan

mentre in La La Land sembra che ci sia il sole anche quando è notte, in Manchester by the Sea il sole non c'è mai.
Lee, il protagonista, è uno che parla poco, chiuso in un guscio oscuro.
vive solo, è un factotum, aggiusta di tutto, alle dipendenze del proprietario di alcuni palazzi, a Boston.
ritorna a Manchester, paesino della sua vita precedente, ritrova i fantasmi di prima.
la sceneggiatura svela piano piano cosa era successo in quel paese, dove tutti si conoscono e si guardano in faccia, gente di un altro tempo, nel bene e nel male, prima di facebook.
Lee riprende i contatti col nipote Patrick, devono stare molto insieme, e pensare al futuro.
il loro è un rapporto spigoloso, e però si vogliono bene, provano a capirsi.
insomma, è un film operaio, senza stelle ed effetti speciali.
non si viene incontro ai gusti dello spettatore, tocca a chi guarda provare a entrare in contatto con la storia di Lee.
un film che merita molto, buona visione - Ismaele








È una maturità stilistica vera, quella del nuovo Lonergan, tangibile in ogni scelta di dialogo, stacco di montaggio, attacco musicale, e responsabile del respiro autentico e contemporaneamente quasi letterario del film. D'altronde, la parola - la sua insufficienza e la sua estrema, umanissima necessità- sono parte fondamentale dell'impasto di Manchester by the sea. È il silenzio di Lee, nella prima parte, a costruire il suo personaggio: un'assenza di espressione verbale che lascia il posto solo episodicamente alla fuoriuscita di un turpiloquio che è furia repressa, disperazione compressa sotto vuoto. La vicinanza col ragazzo, alla quale Lee non può e non si vuole sottrarre, lo costringe a ritrovare lentamente la pratica del dialogo, ad uscire dal proprio sepolcro ambulante per mettersi nuovamente in relazione con qualcuno…

La vertigine del dolore, l’abisso della perdita e l’estenuante fatica di vivere nonostante tutto sono i grandi temi di un film dalla scrittura chirurgica, di straordinarie performance e di emozioni vere, non necessariamente tutte tristi. Si ride invece non poco in Manchester by the Sea e non ci si sorprende di meno per le traiettorie di una delle migliori sceneggiature prodotte dal cinema indie da un decennio a questa parte.
Dire quello che si può dire, che del resto è meglio tacere: sembra facile ma Lonergan riesce là dove tanti inciampano, aprire uno squarcio dentro il dolore e immediatamente dopo richiuderlo. Per capire senza farsi inghiottire.
E poi andare avanti.

Con l'intento di non perdersi nulla dei propri personaggi ma, anzi, preoccupandosi di valorizzarne il potenziale umano e drammaturgo, Lonergan colloca Lee e chi gli sta attorno all'interno di un contesto ambientale e scenografico minimale, che non offre altre informazioni (come il dettaglio del mare improvvisamente increspato o un cambio improvviso di luce) che non siano riferibili allo stato d'animo del momento; e poi ne potenzia la presenza scenica regalandogli un palcoscenico che gli consente di essere assoluti protagonisti grazie a una tecnica di ripresa che, limitando ampiezza e profondità di campo, e mantenendo la mdp all'altezza del soggetto scenico, impedisce allo spettatore di trovare altri motivi di interesse che non siano quelli indicati dalla volontà del regista. Un processo di sottrazione che, da un canto, metteva l'opera al riparo dalla retorica insita nella delicatezza dei temi trattati - il dolore, la perdita, il senso di colpa - e che, dall'altro, rischiava di farla risultare bloccata e priva di slanci. A evitare questo pericolo ci pensa soprattutto il montaggio di Jennifer Lame, che altera la successione degli avvenimenti considerati non più nella loro scansione cronologica ma secondo un tempo interiore e quindi emotivo, corrispondente a quello di Lee/Affleck che di "Manchester by the Sea", sono i veri e propri factotum del copione imbastito da Lonergan. Il quale, memore della lezione dei vari Risi, Germi e Monicelli realizza un melodramma struggente e appassionante che pur mantenendosi costantemente sulle note della tragedia vissuta da Chandler trova modo di alleggerire la tensione con momenti di ilarità che paradossalmente - ma non troppo - rendono ancora più credibile il calvario del protagonista. Preceduto dai rumors che lo danno tra i favoriti nella corsa ai prossimi Oscar, "Manchester by the Sea", per quanto ci riguarda, ha già un vincitore nella persona di Casey Affleck che, abbonato ai ruoli da perdente, tiene lontana la routine con una interpretazione sofferta e trattenuta che lo impone ai vertici della sua categoria.

…Sulla scia di Paterson di Jarmusch, prosegue questo interessante filone del cinema statunitense distante volutamente dalle retoriche hollywoodiane della Grande storia. Sono le piccole vicende a informare questa America senza orizzonti né bussole. E’ la perdita di orientamento che costringe certi registi a rifluire nello scandagliamento dell’intimità. Può rivelarsi, questa sottrazione, un impedimento alla comprensione della realtà. Eppure, Manchester by the sea si ferma un attimo prima dell’autocompiacimento. Aiutato, in questo, dalla notevole recitazione di Casey Affleck (fratello del più noto Ben), già notato in Interstellar, ma senza lasciare particolare ricordo. E invece, sorprendentemente, se il film rimane contenuto e, in qualche modo, realistico, è proprio grazie alla recitazione di Affleck, fastidioso e scostante, mai compiaciuto, e senza redenzione possibile. Non c’è serenità possibile dopo la tragedia. Ciò non toglie che la vita può essere ripresa, con una cicatrice in più. Questo il messaggio, che ci sentiamo di condividere.

No hay nada más reconfortante para el espíritu que contemplar a un hombre hecho pedazos. Casi como observar el crepitar del fuego en la chimenea desde la comodidad de nuestro sofá, la tragedia ajena es, sin miedo a equivocarnos, probablemente el recurso, el tema más socorrido en toda la producción artística de la Historia Universal. La presencia del conflicto, de la tensión, es absolutamente indispensable en una composición pictórica, literaria, musical o de cualquier otra disciplina, y otorga al espectador/receptor la doble posibilidad de dejarse sorprender ante resolución quizás inesperada, ya en el límite de la catarsis —efectividad demostrada, por ejemplo, en las novelas bizantinas del siglo XVI—, o bien la siempre agradable opción de erigirse juez de los hechos perpetrados por los personajes, parapetado, eso sí, entre la tranquilidad de hallarse ante una mera representación de un evento traumático o violento, desde donde saborear esa confusa mezcla de empatía, morbo y curiosidad antropológica. Todos estos procesos, claro, pasan prácticamente desapercibidos cuando nos enfrentamos por vez primera a la Obra. Las dos o tres horas de duración de un filme nos ofrecen la inmersión suficiente para postergar algún tiempo prudencial las metarreflexiones pertinentes que, todo sea dicho, no llegan a ocurrírsele a todo el mundo. Y, en un entorno como el actual, saturado hasta el límite de contenidos snuff disfrazado de periodismo, pornografía informativa y cataclismos sociopolíticos de proporciones bíblicas, ¿dónde pueden tanto el espectador como el artista encontrar los elementos, la inspiración para la obra? Por muy obvio que quizás pudiese sonar, el camino más corto entre dos puntos no es en este caso una línea recta, sino más bien el trazado curvilíneo de las narrativas minúsculas: la cotidianidad. ¿Es acaso tan revelador afirmar que el secreto, de entre todas las herramientas de algunas de las mejores películas de la década —L’avenir (Mia Hansen-Løve), o Paterson (Jim Jarmusch)— radica en recorrer el camino inverso al de la espectacularidad operística? La maquinaria cinematográfica estadounidense arrastra la difícil ambigüedad ética de preocuparse con una mano por firmar hiperbólicos excesos superheróicos, mientras con la otra ofrece lo que a priori parecería una ristra de modestos caprichos más bien alejados de la búsqueda del espectador medio, donde los mismos actores cobran una fracción ridícula honorarios, casi a modo simbólico, para dotar al producto final de un halo artesanal. Lo curioso es que, muy al contrario de estas vagas estimaciones, el cine de dramas intimistas ha cobrado un protagonismo progresivo…

È sceneggiatore prima che regista, Keneth Lonergan, e si vede. La sua messa in scena, al di là del fascino naturale dell’ambientazione, delle stradine innevate che si alternano ai malinconici paesaggi costieri, di una landscape che non chiede altro che di essere registrata dalla sua macchina da presa, è all’insegna della sobrietà e della trasparenza. Laddove può rinunciare al movimento di macchina, alla ricerca dell’inquadratura accattivante, alle scorciatoie emotive, il regista americano sceglie consapevolmente di farsi da parte. Lasciando gran parte del compito a una scrittura di notevole spessore, e ai suoi altrettanto efficaci interpreti. Se è vero che il timbro di recitazione di Casey Affleck può risultare in molti casi respingente, qui il suo approccio al personaggio è invero l’unico possibile: anch’esso all’insegna dell’understatement, delle lacerazioni non esplicite ma avvertibili, sotto il monocorde tono di voce del suo personaggio. Un carattere che trova l’ideale complemento in quello di un Lucas Hedges che con esso dà vita a un complicato gioco di avvicinamenti e respingimenti: gioco che certo non si esaurisce con i titoli di coda. Difendendo rabbiosamente il legame con un emblema familiare (quello della barca) che diviene ben più che il ricordo (seppur vivo e pulsante) di un affetto perduto…

sabato 18 febbraio 2017

Walesa (Walesa – L’uomo della speranza) - Andrzej Wajda

è l'ultimo film di Andrzej Wajda, un film che più polacco non si può.
biografia di un pezzo della vita di Lech Walesa, e di chi gli stava intorno, operai disposti a combattere per i diritti di tutti, una polizia da cui quelli di Bolzaneto hanno tratto insegnamenti, o viceversa, sembra siano andati tutti alla stessa scuola di polizia.
poteva essere un film agiografico, ma Wajda era uno come si deve, e fa film che sono cinema, non commissioni per qualcuno.
Walesa è un film con operai, cosa rara al cinema, e Walesa è anche uno dei pochi presidenti operai (mi viene in mente Lula soltanto, adesso).
le musiche originali del film sono tutte polacche (qui i titoli di tutte le canzoni, qui alcune canzoni), ma se sei distratto un attimo ti sembra di vedere scene di lotta operaia inglese, con musiche rock e punk che le accompagnano, valore aggiunto al film.
un film che merita molto, come tutti i film di Andrzej Wajda - Ismaele




…Il regista Andrzei Wajda nella sua lunga carriera ci ha raccontato la storia polacca attraverso figure piccole ma emblematiche di un'opposizione crescente ("L'uomo di marmo", 1977, e "L'uomo di ferro", 1981). Qui arriva finalmente alla chiusura di un cerchio col passato. A battere  sull'incudine solo un ritratto si abbatte inevitabilmente per compiere questo affresco di individui e Storia: quello dell' "uomo della speranza". 
Un individuo che si vota al "Non voglio, ma devo", a un testardo imperativo categorico di coscienza e, appunto, solidarietà, e trova in se stesso radici più grandi di lui: il Walesa del popolo paradossalmente scopre un carisma debordante, quasi arrogante, e qui comincia a spegnersi l'uomo privato rispetto alla persona pubblica. Ironicamente, suggerisce Wadja, saranno i baffi a renderlo popolare, un quid che si oppone immediatamente all'icona-Stalin, al suo rappresentare rigidità e oppressione. 

Se fin qui il punto di vista sembra persino trionfalistico, sono in realtà le performance di Robert Wieckiewicz (Walesa appunto) e Agnieszka Grochowska (la moglie) a dare evidenza alle sfumature, dai toni più ironici a quelli più drammatici, totalmente al servizio della storia e qui della Storia. Ma il crescete squilibrio tra vicenda del singolo e aspirazioni di una nazione - fil rouge dell'opera di Wajda - si consuma nell'alternarsi fluido e incessante di girato e filmati d'archivio, e in un racconto anti-romantico, proprio perchè sempre più universale.

Nel 2013, a 87 anni, finalmente il regista gira questo biopic che si propone come primo obiettivo di ripercorrere fedelmente il tragitto dell’elettricista che fondò Solidarnosc, prese il Nobel, divenne poi presidente di un paese ormai post-comunista, e che lo fa, come sempre nel suo cinema, con  una partecipazione che, se sfiora qualche volta la celebrazione, mai ci cade dentro. Perché Wajda, scomparso pochi giorni fa a novant’anni, è autore vero che piega le storie che racconta a se stesso, alla sua sensibilità e perfino ai suoi demoni, e non viceversa. Anche se Walesa è un prodotto tardo, quando la sua migliore stagione, quella degli anni Sessanta e Settanta era ormai lontana, resta un film rispettabile, robusto…

Wałęsa è stato un formidabile capopopolo, politicamente furbo ma anche molto saggio. Risulta ancor oggi sorprendente la sua ostinazione nel rifiutare sempre la violenza e sfuggire a qualsiasi provocazione (il massacro degli operai durante le manifestazioni a Danzica nel 1970 fu una dolorosa ferita e una lezione sempre presente in lui e nei suoi compagni) e, soprattutto, la costante fiducia nel dialogo, nella possibilità (anche quando, come dopo il colpo di stato, ad opera del recentemente scomparso generale Jaruzelski, tutto sembrava irrimediabilmente perduto) di trovare un compromesso accettabile per tutti. Wałęsa, come si vede bene anche nel film, fu uno che subì violenze fisiche, umiliazioni e ricatti (Wajda non tace nemmeno sul controverso episodio di quando, agli inizi, richiuso per l’ennesima volta in prigione, Wałęsa accettò di firmare un foglio che lo chiamava a collaborare con la polizia), ma mantenne sempre la schiena dritta, aiutato da una solida fede religiosa e dall’ostinata convinzione che, avendo ragione, prima o poi lui e i suoi operai avrebbero vinto. Spicca nel film la forte figura di sua moglie Danuta, madre di sei figli, disperata per la loro situazione economica e famigliare, ma sempre accanto a lui, anche quando non lo capiva…

 Non c’è mitologia o esaltazione, anzi, l’idea di costruire la storia partendo dalla famosa intervista di Oriana Fallaci a Walesa è originale per la struttura scenica. L’intervista della giornalista italiana è del 1981. È un anno intermedio, perché i primi scioperi di Solidarnosc sono del 1970, mentre la caduta del regime comunista avverrà alla fine degli anni ottanta. Perciò il film intreccia la brillante l’intervista con flash back e flash fordward. Il colloquio fra i due ha una funzione di determinare il carattere umano del sindacalista. È un carattere aggressivo, ama le donne – e la Fallaci è una bella donna – ma non vuole essere da loro sottomesso. Della Fallaci giornalista sappiamo tutto, non è certo donna da aver paura, come quando si tolse lo chador di fronte a Khomeini. Con Walesa ci sono scintille, perché la scrittrice fiorentina lo scorge come pieno di se, incolto, parla con libertà senza una struttura predefinita. Però si accorge del carisma dell’uomo. Nei flash c’è tutta la storia del sindacato. Dai primi arresti durante gli scioperi, all’ascesa in Solidarnosc, alla prigionia per undici mesi nel sud della Polonia, alla vittoria del premio Nobel per la pace, all’accettazione del governo delle richieste sindacali. L’abilità del regista è nell’individuare le finalità, di puntare su Walesa anche attraverso il ritratto della moglie. Docile ma determinata, mentre Walesa correva i rischi, la donna lo riportava ai propri doveri familiari. Wajda ripete in vari momenti la stessa identica scena: quando pensa di correre dei rischi e quindi di non poter tornare a casa, perché in prigione o peggio, Lech consegna alla moglie il suo orologio e la fede, perché possano venderli per mangiare. Raccontare venti anni di storia in due ore bisogna correre abbastanza, dunque il film è sintetico con alcune scene degne del maestro polacco…
  

giovedì 16 febbraio 2017

2009 Memorie perdute - Lee Si-myung

un film schizofrenico, la prima parte è un bel film, c'è una storia, un intreccio, sparatorie, corse, interessante, poi nella seconda parte diventa un casino, sparatorie, corse e basta.
fermarsi a metà film non sarebbe male, ma purtroppo è andata.
un bel giudizio sommato a uno cattivo è quello di un film che si può vedere, non di più.
peccato - Ismaele




Peccato che 2009 Lost Memories ceda ben presto il passo al fracasso degli effetti speciali, al revanscismo razziale più scontato, alla logica dell'eccesso - dove la volontà di stupire si trasforma in stordimento dei sensi. Man mano che la storia procede, buchi di sceneggiatura e incoerenze di ogni sorta si alternano con costanza allarmante; d'accordo che il cinema coreano è in forte ascesa, d'accordo che i consensi internazionali iniziano a fioccare, d'accordo anche che di conseguenza gli investimenti aumentano, permettendo produzioni più accurate e prestigiose. Ma il circolo virtuoso non è scontato continui in eterno, se l'industria cinematografica coreana inizierà a livellarsi al peggior popcorn cinema americano, sfornando pellicole di tale mastodontica fragilità. E se nessuno discute l'impegno profuso, l'elevata resa tecnica, la bravura degli attori e persino l'atmosfera di attesa e curiosità creata con le prime sequenze, pure tutto è irrimediabilmente vanificato dal poco coraggio e dalla latitante fantasia dimostrati.

In un futuro alternativo, il Giappone, vincitore della 2a guerra mondiale come alleato USA, si è annesso stabilmente la Corea. Un gruppo di patrioti coreani lotta per rimettere il corso della storia sul binario "giusto". Spunto affascinante, svolgimento palloso sottolineato da musiche tronfie, con punte di considerevole cretineria, pervaso da uno spirito di esaltazione nazionalista che appare insensato se si pensa agli avvenimenti dell'ultimo secolo. Una boiata pazzesca di estenuante durata, il peggio dell'action manierato all'orientale.

Troppe sparatorie lunghe e inutili per tutto il film. Troppi dialoghi, lunghi e inutili. Peccato, poteva anche essere bello. Girato un po' così, idea di base ottima, ma si perde proprio nelle scene d'azione e soprattutto nei dialoghi noiosissimi. Nemmeno gli attori li vedo calati nella parte. Il film è noioso, c'è poco da fare.
Un velo pietoso sul doppiaggio vabè.

il regista non vuol fare solo un prodotto commerciale e non si risparmia tocchi d'autore con compiaciute lentezze,anche se si ha l'impressione che mette troppa carne sul fuoco,ma ha il pregio di coinvolgerti,anche con l'esasperazione della vicenda.
Poi certo si avvertono alcune lungaggini e di inquadrature che il regista si è innamorato e le ha lasciate,ma il soggetto,che ha come riferimenti che si ispira sono Philip K. Dick e il "Terminator" di James Cameron e con questo si appropria di uno dei concetti più affascinanti della fantascienza, quello della realtà alternativa,e lo fa senza essere mai scontato e con una riflessione sociale senza cadere in moralismi,il che era facile perché se era Americano sicuramente succedeva…
da qui

Imagine a past where Japan, with the aid of the United States, won World War II, proudly leading an empire in Far East Asia. Imagine a past without Hiroshima or Nagasaki. Imagine a near future where the Japanese Empire rules an undivided Korea as a protectorate. In their own country, ethnic Koreans live as single-class citizens, actively discriminated against by the Japanese living in Korea. Some Koreans have fully assimilated and adopted Japanese names and customs. Others have become fierce, uncompromising nationalists, willing to sacrifice their lives for an abstract ideal, a free, unified Korea…