sabato 28 gennaio 2017

A prova d’errore (Fail Safe) – Sidney Lumet

il film è tutto giocato sulle parole, non succede niente, cioè non vediamo niente, come nella trasmissione radio del giovane Orson Welles del 30 ottobre 1938.
il potere delle parole è sufficiente per riuscire a catturarci, grandi attori, pochi ambienti, praticamente tutti al chiuso, dialoghi serrati ai quali è impossibile sfuggire.
gli automatismi impietosi della tecnologia di guerra e di annientamento non possono essere fermati dalla (buona) volontà dei presidenti, decine di milioni di morti stanno per essere sacrificati in cambio del niente.
dal 1964 sono passati tanti anni, ma non abbiamo imparato troppo.
come dice Salvatore Quasimodo, siamo ancora l'uomo della pietra e della fionda, però in modo tecnologico e irrevocabile.
piccolo film davvero potente, non perdetevelo - Ismaele




QUI il film completo, in inglese





 una pellicola imprescindibile per chiunque, ennesima prova del talento di uno dei registi più sottovalutati di sempre e capace di tenere col fiato sospeso per tutta la sua durata, in un crescendo di tensione che sfocia in uno dei finali più duri e angoscianti dell’intera storia del cinema, che fece prendere alla produzione la decisione di inserire nei titoli di coda una frase rassicurante a proposito dell’improbabilità degli eventi narrati.

A prova di errore è comunque un buon film, fortemente sentito dall'attore Henry Fonda che nel ruolo del presidente tratteggia, con abituale maestria, il ritratto sofferto di un uomo che vive il peso di dover decidere del futuro dell'umanità e della sua stessa famiglia. La regia di Lumet sottolinea il dramma inquadrando il presidente all'interno dello spazio claustrofobico di una disadorna "stanza dei bottoni" e preferendo al fattore spettacolare un racconto seccamente dialogato. 
da qui

Il 1964 è un anno da ricordare perché, oltre ad A prova di errore, uscì anche quella che potrebbe considerarsi una sua parodia per le similitudine narrative e di alcune scene, ma che non ha niente a che vedere col film di Lumet, ovvero Il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Ciò è dovuto semplicemente al fatto che le due pellicole sono tratte dallo stesso racconto di Burdick; anzi, Kubrick cercò di fare uscire il suo per primo in modo da far intentare una causa per l’uscita di A prova di errore, fin troppo simile alla sua opera. Ma in fondo il senso delle due pellicole è opposto: se Kubrick dà la colpa della tragedia alla fallibilità umana, per Lumet le cause sono adducibili solo alle macchine e alla tecnologia.
Una delle caratteristiche di questa pellicola è lo scarso movimento della camera. Lumet, nelle sue inquadrature, mostra tutto il necessario alla comprensione della scena e non c’è alcun bisogno di muoverla, a patto che non fosse richiesta una ripresa dall’alto o dal basso. Ciononostante il ritmo è frenetico, i dialoghi sono paragonabili alle scene di sparatoria o a qualche inseguimento automobilistico tipici dei film d’azione e non è da tutti rendere così adrenaliniche delle parole. È anche per questa capacità (vedasi, a ulteriore riprova, La parola ai giurati) che Lumet è stato un maestro assoluto del grande cinema statunitense…

…Il film di Lumet ha un genesi piuttosto curiosa, nasce come opera indipendente a basso budget ma esce purtroppo nel momento sbagliato, nello stesso anno infatti Kubrick lavora a Dr. Strangelove (le somiglianze tematiche sono evidenti), lo stesso Kubrick appoggiato dalla Columbia fa causa a Lumet e alla produzione del film rivendicando la primogenitura del soggetto.
Legalmente non si arriva da nessuna parte visto che di fondo c’erano comunque due romanzi di autori diversi, ma alla fine per “risarcimento” la Columbia si prende il film di Lumet e lo fa uscire dopo quello di Kubrick, di fatto condannandolo ad una minore visibilità.
Le due pellicole comunque sono profondamente diverse nell’opproccio al tema, Lumet come è nel suo stile costruisce una scenario rigoroso e assolutamente credibile, la tensione è tangibile fin dall’onirico incipit (il sogno del matador) e l’obbiettivo è chiaramente quello della denuncia di un sistema ad alto rischio assolutamente fallibile, Kubrick gioca con la satira raggiungendo risultati grandiosi ed alla fine esalta la netta differenza tra un ottimo film (Fail Safe) e un capolavoro (Dr. Strangelove)….

Sidney Lumet che si dimostra ancora una volta come un regista di talento inarrivabile, tra i più bravi di tutti i tempi. Un film di tale potenza e limitata varietà di luoghi girato praticamente tutto in 4-5 interni diversi, con sporadiche riprese aeree che dovrebbero essere filmati di repertorio. Insomma un film fatto con poco. Ma da questo poco il regista riesce a tirar fuori una suspance nei dialoghi sempre più serrati (un paio di scene su tutte: quella del discorso su carcerati-bibliotecari di Matthau e quella del primo congresso in presenza del ministro della difesa sono da ANTOLOGIA del cinema assoluto), una tensione crescente fatta di primi piani di volti imperlati sempre più frequenti che prendono il posto delle prime scene quando la situazione è sotto controllo, dove invece si preferiscono i campi larghi e le panoramiche selle sale. Il finale poi è agghiacciante ed è destinati a tormentarvi per parecchie ore dopo la visione, ed è di incredibile coraggio fare un finale del genere, in America, in quegli anni, e probabilmente lo sarebbe ancora oggi. Da brividi.
C'è poco da fare: questo uomo è un genio e tirare fuori film di tale insopprimibile tensione con una manciata di attori e qualche location con riprese fisse: l'aveva fatto ne La parola ai giurati, lo farà ne quel pomeriggio di un giorno da cani, e lo fà in questo, e il risultato è incredibile, e questo film nel confronto col Dr. Stranamore stesso non ne esce per niente sconfitto, anche se preferire il film di Kubrick non è per nulla uno scandalo, ma parliamo di 2 gemme di film, sia ben chiaro.
Da vedere assolutamente.

martedì 24 gennaio 2017

Aquarius - Kleber Mendonça Filho

Aquarius parte come un film normale, poi cresce piano piano.
l'asso nella manica è Sonia Braga, che interpreta Clara, una donna piena di dignità, e di forza, come antidoto alla tristezza e alla solitudine della vecchiaia che si avvicina.
il film è tragico e comico, politico e familiare, d'amicizia e di vendetta, di ricatti e resistenza, ce n'è per tutti i gusti.
homo homini lupus potrebbe essere il sottotitolo del film, e quei lupi hanno la cravatta e un master nel curriculum.
ma, per una volta, don Quijote/Clara, pazza fra i sani, riesce a non perdere.
un film che è meglio di quello che ti aspetti (e però non aspettarti un capolavoro) - Ismaele




Ciò che più colpisce, in Aquarius è la sincronicità di battito cardiaco tra il film nel suo insieme e la sua protagonista. Clara ha vinto un cancro, è ancora giovane, ha bisogno di sentirsi viva, ascoltando la musica ad alto volume, con il fratello e gli amici: il film è con lei, con lei sorride, si commuove, pulsa. Clara è vedova, ora ha un'altra routine: un bagno nell'oceano, un disco melodico, una coccola ai lunghi capelli; e il film rallenta, si adagia, le sta accanto, per alleviarne la solitudine non dichiarata, per ribadirne la natura testarda ma anche spiritosa, e capace di sinceri attaccamenti. Lungo e calmo, Aquarius è tuttavia anche teso, attraversato da una forza sotterranea, che a volte è desiderio, a volte rabbia, a volte vita e nient'altro, la forza di Donna Clara. Sotto un'apparente continuità di tono, varia moltissimo, assecondando ogni sfumatura psicologica della sua abitante. Perché il cinema è la casa e il personaggio di Clara è parte di essa, si confonde con essa e sa che non potrebbe mai andare altrove o essere altro. 
Un finale perfettamente congeniato dà ulteriore sostanza ad un film a suo modo intrigante, in cui la musica ha un ruolo di primo piano nel tratteggiare questo sfaccettato ritratto di signora.

…il film ha un peso specifico da romanzo ottocentesco, coniugato al nostro presente imperfetto: vivo, pulsante e resistente, in questo Aquarius nuota la realtà, suona la voglia di vivere appieno. Gioie, dolori, tutto appieno: finché morte non ci separi da quella che chiamiamo casa, quella che sappiamo vita. La nostra vita, la vita di Clara.

La película -una suerte de ampliación y profundización de varios conflctos trabajados en su film anterior- se centra en lo íntimo (con la llegada de la vejez), en lo familiar (la relación afectiva con uno de sus sobrinos, distante con su hija, que la usa para que cuide al nieto y -otra obsesión brasileña- de fidelidad absoluta con su empleada doméstica) y finalmente en lo social, con las diferencias de clase y los abusos y miserias de los poderosos.

Un dato no menor del film es que Clara ha luchado durante varias décadas contra el cáncer (incluso se ve que ha perdido una mama y ha decidido no ponerse una prótesis), pero cuando todo parece servido para el golpe bajo la cuestión ayuda para un impactante, sobrecogedor desenlace (la última parte se titula, precisamente, “El cáncer de Clara”).
Los 140 minutos de Aquarius se justifican. Hay muy pocos momentos superfluos o caprichosos. La narración abarca muchos conflictos y personajes, pero nunca pierde el eje, el interés ni la cohesión. La inteligencia del guionista/director; y la ductilidad asombrosa de Sonia Braga, vulnerable y arrasadora a la vez, hacen de esta una de las mejores películas latinoamericanas de los últimos tiempos.

La grandezza del film è nella determinazione testarda e nello stesso tempo nella chiarezza profonda di donna Clara nel difendere il suo habitat. Sola contro lo strapotere di una immobiliare bene ammanigliata con il potere politico.
Difendere il suo habitat  significa rivendicare la sua dignità, la sua memoria, i suoi affetti e forse anche la sua alterità estetica  e diventa anche simbolicamente una testimonianza politica , perché la donna non si oppone soltanto alla violenza, ma investiga e scopre ciò che si nasconde sotto l’apparenza.
Ci sono dialoghi di notevole efficacia dialettica. Per esempio tra donna Clara e la figlia, dove la sincerità è cruda, nonostante l’affetto; ma soprattutto con il giovane progettista, uno scontro aspro, dove non ci sono ne’ vincitori, ne’ vinti, ma due diverse filosofie morali dentro cui si nasconde una minaccia incombente.
Il finale è una sorpresa che piacerà, perché è quella vittoria sempre possibile, anche se appariva improbabile, quando ci sono intelligenza, fermezza e valori che la sostengano. E che ad essere protagonista sia una donna è un segno dei tempi.

…una lucha sin tregua que ha alcanzado una intensidad terrible. Pero aquí es donde apreciaremos fielmente el verdadero yo de Clara, llegaremos a conocer quién es realmente y cuál es esa historia que ha quedado resumida en tres momentos anecdóticos hasta el punto de hacernos olvidar el título del filme. Una mujer que ha luchado incansablemente durante 30 años contra el peor enemigo de la sociedad contemporánea, no parece probable que vaya a doblegarse porque venga un niñato de ciudad, malcriado y consentido, a lanzarle, con una rabieta infantil, una amenaza envuelta en una declaración de guerra para que abandone su tan preciado Aquarius….

…il regista – qui a Cannes si dice appartenga a una potente e ricca famiglia, sarà vero? – ha avuto la furba idea di richiamare in servizio in un film di livello destinato anche al mercato internazionale Sonia Braga, una leggenda, che letteralmente si impadronisce di Aquarius e lo piega a sé. Indipendente, sarcastica, sinceramente anticonformista, figlia degli anni Sessanta-Settanta, colta, una vera borghese di sinistra (come si dirà in Brasile radical chic o gauche caviar?). Sembra a momenti di rivedere il cileno Gloria, di cui l’indomita Clara sembra una replicante. Dona Clara comanda con autorità servitù e squadre lavoratrici, riduce a docili agnelli anche i machos più trucibaldi, beve vino, ascolta musica Sixties (è pazza di Maria Bethania, ma se abbiamo visto bene sul piatto mette anche Roberto Carlos), si mostra nuda alla macchina da presa con le cicatrici del suo seno asportato dopo un cancro. Scusate la brutta domanda. Trattasi di trattamento in digitale o il seno a metà appartiene a Sonia Braga? Quanto al sesso, Clara ne parla sboccatamente con le amiche, e non esita a chiamare un gigolo peraltro belloccio, gentilissimo e efficientissimo di cui resta pienamente soddisfatta. Lo scontro finale tra l’eroina e i cattivi è tremendo, sotto il segno del peggio populismo…

…Mendonça Filho si perde in un discorso narrativo che sembra anche affascinante ma si dimostra con il passare dei minuti a grave rischio sterilità: l’ossessione di Clara nel resistere alla richiesta di vendere l’appartamento apre sì il fianco a un thriller dell’anima, ma lo fa con una stanchezza di fondo, quasi che lo stesso regista fatichi a credere fino in fondo a ciò che sta mettendo in scena. Indeciso se assegnare alla storia canoni kafkiani, scivolare deliberatamente nel genere (la sequenza con Clara che immagina una figura minacciosa che entra in casa di notte mentre lei dorme sul divano è una delle più efficaci di Aquarius) o muoversi nel ritratto di una borghesia benestante ma di sinistra, incapace di accettare il capitalismo sfrenato ma allo stesso tempo anche di rinunciare al benessere cui è abituata, Mendonça Filho si muove in maniera ondivaga, slabbrando la narrazione e sfilacciandola.
Non è certo la secchezza narrativa, infatti, a rifulgere in Aquarius, che si perde al contrario in una lunga serie di aneddoti non sempre interessanti. Anche il tema della menomazione (affettiva, visto che la donna è vedova, ma anche fisica, con quel seno asportato a causa di un tumore che allontana gli uomini) e della mancanza si disperde a tratti in un magma affabulatorio che funziona a intermittenza…


Love, Dad - Brandon Bray

lunedì 23 gennaio 2017

Jan Svankmajer: 'Disney es el mayor corruptor de la imaginación infantil de la humanidad'

(solo per chi sa lo spagnolo, ma provaci lo stesso, sono parole straordinarie)


Jan Svankmajer no cabe en una única definición. Encerrar el cine de este artista checo nacido en Praga hace 80 años en el simple concepto de stop-motion se antoja tan limitado como reducir la literatura a la lista de la compra. Escultor, marionetista, coleccionista de rarezas, cartógrafo de sueños, filósofo, agitador de masas, demiurgo y, finalmente, poeta. "Ten siempre presente que la poesía es sólo una. La antítesis de la poesía es la especialización profesional...", reza el primer artículo de su irrenunciable decálogo. Su quehacer tiene que ver con Poe, Lewis Carrol, Kafka, Arcimboldo, Goya, el Teatro Negro, André Breton y... con todo lo contrario. Como sus figuras discontinuas a medio camino entre el barro y la carne, entre la desesperación y el miedo, el propio Svankmajer se hace y deshace a cada fotograma que pasa. Y así, toda su filmografía, desde el primer corto de 1964, 'The last trick', hasta 'Surviving life' (2010) pasando por su celebrada adaptación de Alicia (1987), es el terreno fértil y originario en el que por cada segundo nace un sueño. Suena extraño y, en realidad, lo es. Por diferente, único e irresistible.
Ahora La Casa Encendida propone un diálogo entre la obra del checo con la de otros dos creadores en el límite de la vigilia: Starewitch y los hermanos Quay. Bajo el nombre de 'Metamorfosis', el arte de recrear la parte de atrás de la imaginación se materializa en una exposición que se inaugura hoy con el aspecto y el argumento de un sueño. Turbia y perfecta. Quizá una pesadilla.
Desde antes de la Teoría del Color Goethe, el sentido que nos define es la vista. ¿Qué programa revolucionario encierra la reivindicación del tacto?
Vivimos una civilización audiovisual. Realmente me empecé a interesar por el tacto porque estoy convencido de que nuestro ojo está pervertido. Recibe ataques constantes sea de la televisión sea de la multitud de anuncios que nos asaltan. En los años 70, en el grupo surrealista del que formo parte, empecé a hacer experimentos. Convertí una foto que encontré en una revista en un objeto táctil. Lo tapé con una tela e hice que los colegas, sin verlo, configuraran su propia imagen. Sólo tocándolo. Finalmente, les eneseñé 10 imágenes y ellos tenían que decir cuál de ellas correspondía con el original. Los resultados fueron muy interesantes. Desde entonces, me obsesionó el tacto como una forma de reconstruir nuestro ojo interno.
¿Y dónde queda la revolución en este proyecto?
Fue una forma de protesta, sin duda. Este tipo de experimentos coincidió con la censura de siete años en la que no pude grabar ninguna película. La experimentación táctil está al otro lado de la cultura audiovisual. Y, como tal, es una forma de ponerla en duda.
Otro de los conceptos que está al otro lado es el de infancia. La niñez a la que se dirigen y de la que hablan sus trabajos está asociada a la imaginación como un terreno fértil y ciertamente oscuro ¿Hasta qué punto nuestra cultura no ha acabado por pervertir todo lo relacionado con el mundo de los niños?
La creación es un proceso fundamentalmente imaginativo. Trabaja con el subconsciente yo diría que en un 80% y sólo el 20% restante es una intervención controlada. La infancia, los sueños y el erotismo son las tres fuentes básicas de la creación. Si uno cierra la puerta de su infancia se condena la posibilidad de crear. De todas formas, conviene tener en cuenta que la niñez nunca fue ese espacio idílico que intentan vendernos. Mi mujer decía que el que sobrevive a su infancia, sobrevive a todo. Y es verdad, lo que ocurre cuando somos niños es básicamente un ejercicio de domesticación. Entonces, sufrimos los primeros ataques de represión. Se nos obliga a que hagamos caca y pis en el orinal y eso ya es una labor represiva. Nacemos dueños de nuestra libertad. La infancia es una lucha constante por ceder, por saber hasta dónde nos dejamos robar nuestra libertad.
Así aprendemos a conocer...
Sin duda. Pondré un ejemplo. De crío escuchas algo así como: "La duquesa está sentada". Y te la imaginas sentada en la silla blanca de la cocina. Para imaginarse un trono rococó hace falta corregir gran parte de la imaginación original. La mente de un niño es la mente de un poeta. Y así debe de ser.
¿Y qué le parece el mundo de Disney?
En una ocasión escribí, y me regañaron mucho por ello, que Disney es el mayor pervertidor de la imaginación de los niños que ha conocido la humanidad. No niego que sus primeras películas fueron excepcionales, pero con el tiempo es el mayor engaño que jamás ha sufrido la infancia. En general, la literatura o el cine para niños es una gran mentira comercial. El arte para los niños existe para obligarles a desear o querer algo que les es completamente ajeno. Los niños son crueles y lo que más les gusta es cualquier cosa que les haga rebelarse, pues, por naturaleza, se resisten a ser domesticados; se resisten a la represión que necesariamente el mundo adulto ejerce sobre ellos.
¿Cómo fue su infancia?
Yo tuve la suerte de que cuando tuve 8 o 9 años mi padre me regaló un teatro de marionetas. Para mí cambió el mundo. Con él, representaba las situaciones de represión que vivía día a día, y así me liberaba. Era un niño introvertido y muy flacucho. Digamos que no tenía ninguna autoridad entre los otros críos. Ese teatro me salvo. Todo lo que hago aún hoy lo comparo con mi teatro de marionetas.
En los 60, hubo quien encontró un contenido revolucionario a la cultura de masas como la forma de acabar con el 'establishment'. ¿Qué ha fallado en ese proyecto?
La cultura de masas y la publicidad son los dos pilares de la civilización. Sin ellos dejaríamos de consumir y sin el consumo, dejamos de existir. Todo está pensado para que no pensemos; que no pensemos ni cómo estamos ni qué queremos de la vida... La cultura popular existe para que nos entretengamos un poco en el tiempo que pasa desde que salimos del trabajo hasta que volvemos de nuevo a él. No hay ni ha habido ningún elemento revolucionario en la cultura de masas.
En varias ocasiones ha repetido que no hace cine sino poesía, que su arte se alimenta de referencias de todas las disciplinas. ¿Qué consecuencias tiene que el arte contemporáneo haya abandonado esa concepción renacentista del arte?
Vivimos en una sociedad que se tiende a especializar en todo. Y no vamos a acabar bien, porque esta civilización va contra la propia naturaleza humana. Los neurólogos, no yo, han demostrado que la mente humana es igual que en el neolítico. No hemos cambiado apenas. Y pese a ello, hemos desterrado la imaginación de nuestra actividad cotidiana.
Y la incomunicación, que tanto espacio ocupa en sus películas, ¿es sólo un problema de nuestra sociedad o de la propia condición humana?
Hice la película 'Las posibilidades de un diálogo' que, en realidad, se debería llamar 'Las imposibilidades de un diálogo'. La incomunicación está relacionada con las características de nuestra civilización. Tenemos cada vez más medios de comunicación y, sin embargo, son sólo ruido. No informan, confunden. Ahora mismo, la comunicación, lo que entendemos por ella, es una sucesión de frases hechas sin significado alguno.
¿Qué significa Kafka para usted?

Kafka para mí fue una revelación. Recuerdo que los surrealistas ya empezaron a hablar de Kafka cuando no era totalmente desconocido. Kafka se adelantó a su época.

sabato 21 gennaio 2017

Zashchitnik Sedov (L'avvocato Sedov) - Evgeniy Tsymbal




solo 40 minuti per un film straordinario, terribile e amaro.
guardatelo e soffritene tutti - Ismaele





…Defense Counsel Sedov was made possible only because of the inauguration of Mikhail Gorbachev's reforms, allowing for more open discussion (glasnost) of past misdeeds undertaken by the state. The topic of the Great Terror, which touched nearly every family in the USSR, had never been as thoroughly broached previously in any Soviet film as it was in this film. Here, the Great Terror is exposed for what it truly was – a time of state sponsored mass killings of innocent people. Defense Counsel Sedov is thus one of the triumphs of the Gorbachev period.

Not only is the film about a depressing topic and one wrapped up on a pessimistic note, the film is shot in an almost washed-out, dreary black and white. That the film is set during wintertime and that large portions of the film occur in dark, cold Siberia only further contributes to the film's bleak and depressing mood, a mood that was very common across the USSR in the 1980s as economic hardships had begun to wrack the country by this time. The film's haunting score fits perfectly.

venerdì 20 gennaio 2017

Arrival – Denis Villeneuve

inizia come District 9, alcune astronavi appaiono, senza nessun preavviso.
si scatena il panico, e ci sono le due opzioni, distruggerle o cercare un contatto; miracolosamente prevale la seconda, ma non per troppo tempo, il mondo decide di fargli la guerra, ma succede qualcosa di straordinario (che non dico, naturalmente).
Denis Villeneuve sembra cadere in citazionismo (penso a Malick, tra gli altri) ma è una paura infondata, è troppo bravo e capace per fare il suo cinema.
nella storia il tempo non è quello cronologico, riesce anche ad essere circolare, come comunicano gli alieni.
l'istinto è eliminare quello che non si capisce, o che è troppo diverso da noi, che potrebbe minare le certezze acquisite nel tempo.
la storiella del canguro è proprio un aneddoto sulla comunicazione.
per quanto il film potrebbe sembrarvi strano vi piacerà, non serve capire tutto e subito, contano le sensazioni che il film lascia, e certi momenti sono emozionanti ed entusiasmanti.
per questo non perdetevi questo film, non è fantascienza (lo dico per quelli che la fantascienza la aborriscono, e neanche sanno perché), è "solo" grande cinema, e basta. 
e qui finisce la recensione, solo la prima parte però.
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è che mi torna in mente la fine di Enemy.
un essere enorme copre anche i palazzi, la città intera, un ragno pare, qualcosa di opprimente.
gli "alieni" del film mi sembrano "parenti" di quell'enorme ragno, ma al contrario, non per opprimere ma per liberare.
e se quegli "alieni" non fossero altro che una creazione dell'inconscio collettivo (nel senso di Jung, credo) di milioni di persone disperate, vinte, arrese, ma non del tutto.
e se gli "alieni" fossero lo strumento per ricominciare a vivere una vita che ne valga la pena?
e se Louise fosse il tramite fra la triste realtà e la possibilità di ricominciare? - Ismaele








...Amerete Arrival in qualsiasi caso perché è un film universale, un gigantesco gioco di specchi fatto per piacere agli appassionati di fantascienza – che accetteranno senza battere ciglio un paio di soluzioni poco ortodosse in cambio di un’ora e quaranta di xenolinguistica –, a quelli che nel cinema cercano il sempre imprescindibile Elemento Umano – che vengono introdotti a due ore di xenolinguistica dal più classico dei melodrammi familiari, con la promessa di ritornarci –, a quelli che vanno al cinema perché lo schermo è grosso e la sua ragione di esistere è ospitare strutture volanti altrettanto enormi, agli esteti, ai cinefili, a chi è cresciuto con gli Urania e a chi è cresciuto con Spielberg.

Arrival è un film affascinante e coinvolgente che si dipana lungo due piani temporali distinti ma che si confondono senza che ce ne accorgiamo. Si potrebbe pensare a un Villeneuve in fase spielberghiana. Niente di più sbagliato...
...Così come qualcuno potrebbe criticare il regista di La donna che canta di aver cercato di emulare Christopher Nolan. Errore. Villeneuve è un regista con una sua visione e una sua idea di cinema ben precisa e Arrival ne è l’ennesima dimostrazione. Attraverso una colonna sonora potentissima e un immaginario fantascientifico originale ed estremamente realistico, Arrival ci fa sprofondare in un viaggio dell’inconscio che, attraverso la metabolizzazione dell’amore e una traslitterazione dei sentimenti, ci dice cose nuove sul cinema e su noi stessi. Non è un film facile, Arrival, ma con l’aiuto dei codici del genere e il ritmo sostenuto che sa infondergli Villeneuve arriva al cuore e alla mente anche di coloro che pensano di aver perso per strada alcuni pezzi.
da qui

Villeneuve, nonostante l’oscurità del plot, vero punto di fragilità dell’operazione, ce la fa a condurre in porto un fantascientico colossale come esige il mercato senza scadere nella giocattoleria, e invece attenendosi a quel filone nobile e glorioso della sci-fi umanistica che ormai sembrava eclissato dalle mostrerie varie con uso e abuso di CGI e quant’altro. Rispetto alle figurine piatte e bidimensionali, da graphic novel prontamente riporodotta su grande schermo con la stessa mancanza di profondità, dei vari reboot di Star Wars e Star Trek e dei pur rispettabili supereroistici Marvel, Arrival più che raccontare di alieni va a scavare nelle nostre alienazioni, nella gente che sta da questa parte del cosmo, mostrandone corpi e menti dove stanno incapsulati ricordi angosciosi. Quella fantascienza che abbiamo conosciuto e amato tra anni Sessanta e Settanta, da Kubrick fino al meraviglioso Tarkowski di Solaris cui questo Arrival qua e là somiglia, e di Stalker
da qui

Amy Adams è la scelta perfetta, ha una gamma di espressività vasta e ed è capace di sovrapporre la tensione della paura, alla tensione dell’eccitazione, la voglia di andare avanti con il timore che ci spinge indietro. Tuttavia non basta la bravura. Solo qualche anno fa il ruolo protagonista, quello quello dello scienziato che lotta con i militari per capire l’altro, sarebbe stato affidato ad un uomo. Sarebbe stata una parte buona per Dustin Hoffman, Richard Dreyfuss o Jeff Goldblum a seconda delle annate, e del resto non è diverso da quello di Matthew McConaughey in Interstellar, eppure qui va ad una donna, che lotta contro i maschi per imporre la propria volontà come fa Jessica Chastain in Zero Dark Thirty.
Non è poco, in un film in cui bisogna capire gli alieni che ci sia una donna al centro di tutto che cerca di imporsi. Non è normale e non è usuale. Nelle mani di Villeneuve poi, è anche molto bello.


Dopo pochi minuti, gli ingranaggi di una sceneggiatura non perfettamente oliata iniziano a stridere: se la cinematografia statunitense nella sua declinazione più smaccatamente hollywoodiana ci ha abituati a spiegazioni frettolose, dialoghi esplicativi e didascalici per non far perdere lo spettatore in possibili tecnicismi o passaggi elevati, in Arrival si segnalano sequenze che rasentano l'auto-parodia. Perché non può non far sorridere lo sguardo fisso e serissimo con cui il colonnello di Forest Whitaker attende una risposta dalla professoressa, dopo averle chiesto a bruciapelo cosa venisse detto in quella serie di versi e suoni che, da "Alien" al serial "Stranger Things", si susseguono indistinguibili per rappresentare l'espressione vocale extraterrestre. Ci rendiamo conto, altresì, che la semplificazione fa parte del cinema e, in particolare, di quello fabbricato a Hollywood, ma da un'opera con una simile impostazione e nemmeno troppo velate ambizioni, è lecito attendersi un trattamento che lavori più di cesello, visto che non tutto può coprire la perizia visiva del regista. Non possono essere solo casualità e bisogna mettere in conto che la sceneggiatura di Eric Heisserer, tratta da un racconto pluripremiato di Ted Chiang, "The Story of Your Life", scricchioli e ceda laddove una più forte tenuta avrebbe consentito al film un impatto più potente e una riuscita totale…
La maggiore suggestione cinefila è data da quello schermo abbagliante assimilabile a uno schermo cinematografico, così come la mano che appoggia la Banks, in attesa della reazione dell'extraterrestre, rima con una delle immagini-simbolo del bergmaniano Persona. Il regista riesce a corporeizzare lo spaesamento che si prova di fronte a un qualcosa che fino a un momento prima sembrava inimmaginabile e che, invece, si staglia maestoso davanti a noi, ed è da questo versante, quella del genuino sense of wonder spielberghiano (e che almeno nella prima parte innervava anche la super-produzione di Nolan), che il lavoro di Villeneuve trae il suo punto di forza.
E questo squilibrato, imperfetto esperimento di fantascienza è probabilmente l'opera americana più sentita del suo autore, soprattutto se confrontato ai ben più quadrati ma forse inerti thriller che l'hanno preceduto. 
L'ottavo lungometraggio del regista canadese, combinando riflessione umanista e filosofica, si focalizza su due punti solo apparentemente lontani: la comunicazione tra specie diverse e l'amore nella sua declinazione filiale. Se le suddette e fin troppo sbrigative definizioni vi fanno venire in mente il melodramma esploso di Incendies (2010) non state errando perché, per certi versi, è il film di Villeneuve che più si avvicina al cuore pulsante di "Arrival". E perché anch'esso ha come twist un'agnizione profonda che ricalibra la percezione della realtà, degli affetti e dell'esistenza, che forse vale più la pena vivere che tentare di cambiare.

lunedì 16 gennaio 2017

The night of - Richard Price, Steven Zaillian

un film che ti tiene attaccato alla poltrona per tutto il tempo necessario, una sceneggiatura come poche, attori molto bravi (John Turturro è grandissimo), per non parlare del gatto.
una storia che è insieme mille storie, ed è spiazzante indicare un genere (oltre che esercizio per pigri).
The night of sembra essere una serie, ma in realtà, come dice il regista Steven Zaillian, l'opera nasce come un un film, molto lungo, ma un film, e si vede, in ogni episodio manca un riassunto delle puntate precedenti, per esempio, come si fa in tutte le serie tv.
succedono tante cose, impossibile raccontare il film, sarebbe troppo riduttivo.
mala tempora currunt per i meccanismi della giustizia, che a volte contraddicono il concetto della giustizia, per le prigioni, luoghi dove si impara a essere delinquenti, per la ricerca della verità.
John Stone, piccolo avvocato di strada, sfigato nella vita, con un figlio che non lo considera, ma testardo come pochi, è l'unico che, forse, crede in Naz.
cercatelo e godetene tutti, sarà tempo davvero ben speso - Ismaele





 è il racconto della discesa agli inferi non solo di Naz, che inizia da bravo ragazzo e finisce da ragazzo (cattivo) perduto - o con grandi possibilità di perdersi -, ma anche di John Stone, cui presta volto, ironia e malinconia un grande John Turturro, avvocato da pochi spiccioli ma dall'istinto quasi animale, uno dei charachters più tristi che ricordi degli ultimi anni quantomeno sul piccolo schermo, pronto a legare le sue speranze non solo al giovane assistito ma anche e soprattutto ad un gatto cui è allergico, e che potrebbe rappresentare l'ultima ancora che allontani la solitudine; del detective Box, alla ricerca dell'agognata pensione e forse, nel subconscio, di un'uscita di scena in grande stile, della procuratrice distrettuale e della giovane avvocatessa di belle speranze, di due genitori che dopo aver lottato contro l'emarginazione razziale per una vita si trovano a fronteggiare il dramma e le ripercussioni della vicenda del figlio; di chi è colpevole e di chi potrebbe esserlo, di chi è abituato a muoversi nella giungla dei carceri di massima sicurezza, e vede in Naz un "unicorno", qualcosa che, tra quelle mura, non esiste e forse non esisterà mai.
In The night of tutti perdono, anche quando vincono…

A Naz lo representa Jack Stone (John Turturro, que el dios de la actuación lo tenga en la gloria), el abogado ideal para el caso. ¿Por qué? Porque los dos saben lo que es ser marginado. Los dos conocen de la discriminación. Los dos entienden lo que es vivir en un mundo que los mira de reojo (Naz, de una familia musulmana, acusado de terrorista cada dos por tres; Jack, siempre en chancletas por problemas de alergia en los pies, parece condenado a sacar de la cárcel a prostitutas y ladrones sin mucha inspiración).
Todo resulta sutil y elegante. The Night Of apunta a una Nueva York oscura, alejada de las luces que generan las grandes torres, cercana a la suciedad de los pasillos, de los barrios de las comunidades (chinos, musulmanes, judíos), de la comida barata. Esa mirada de la ciudad la aporta el personaje de Turturro (se encargó del papel que iba a tomar James Gandolfini antes de morir), que camina por todos lados, pregunta, escarba. Es un abogado de la calle…

The Night Of es enérgica y vibrante. Tiene no solo un estupendo guión, sino una dirección perfectamente ejecutada y calculada, en este mundillo televisivo donde el aspecto literario suele brillar mucho más que el visual. Pero el guión es asimismo excelente, tanto en forma como en fondo, los personajes están perfectamente desarrollados y muy bien interpretados, y tiene muy claro los temas que trata: La muestra de que en los tribunales no importa tanto recolectar hechos para dar con la verdad en torno a un crimen, sino en los elementos necesarios que permitan construir esa verdad, la cual irá en función de uno u otro lado de la balanza de la justicia…

 es un relato de corte criminal que, dentro de este subgénero, brilla sin problemas por la calidad de todos los ingredientes convocados. Pero es eso al fin y al cabo, un magnífico entretenimiento de peso de casi diez horas que emite una clara y distintiva denuncia, la crónica de una ¿injusticia? que sucede todos los días y ante cada crimen. La presunción de inocencia existe por algo, ya que bajo la presión adecuada y estudiada su vida con tal objetivo en mente, todos tenemos potencial de asesinos y se podría vender nuestra imagen como tal. Lo que Steven Zaillian & Richard Price buscan es evidenciar que el sistema está roto, y que debe hacerse algo para evitar que las experiencias así sean vividas por gente antes de probarse su culpabilidad. Y lo hacen con un relato envolvente y adictivo, excelente en la ejecución y que se cierra con bastante fortuna (excepto por el ya mencionado uso de Chandra), exponiendo la inquietante calma tras la tormenta.

The Night Of è soprattutto il racconto dei suoi fantastici personaggi, che quasi tutti nascono come macchiette, semplici cliché, ma trovano velocemente un senso più compiuto e corposo, mostrandosi in quanto esseri umani sfumati, grigi, aggrappati alle loro vite.  È la storia di come ogni singolo passaggio di tutta la burocrazia e le azioni che circondano un crimine, dalla scoperta, all'investigazione, fino poi a un arresto, un'interrogatorio, un'incarcerazione, un processo, una sentenza, abbia effetti profondamente stranianti, disumanizzanti, su chiunque venga coinvolto e finisca per diventare ingranaggio del macchinario. Ed è in fondo anche una riflessione su quel che ci aspettiamo da un poliziesco televisivo e su quanta distanza passi fra quel che siamo convinti di voler vedere e quel che invece davvero abbiamo bisogno di sentirci raccontare. È una miniserie stupenda, scritta, diretta e recitata alla grande, ed è una fra le cose più belle che siano passate in TV nel 2016. E ovviamente, immaginarsela senza John Turturro è impossibile.

dice Steven Zaillian:
…“Io e Richard abbiamo visto la serie originale inglese [Criminal Justice, da cui è tratta The Night Of], e ci siamo subito detti: mostriamo un caso giudiziario dalla notte dell’arresto fino alla sua conclusione. Ho scritto una traccia della storia a partire dall’arresto, l’accusa, la citazione in giudizio e la sua formalizzazione, ecc. Mi ha aiutato molto guardare tutto nel minimo dettaglio, compresi i luoghi in cui uno normalmente va in queste circostanze. Questa è diventata l’architettura generale di The Night Of. Ma è stato soprattutto l’apporto di Richard e della sua scrittura a portare a quel livello di dettaglio che desideravo. E poi gli attori, che sono stati fantastici.”
“È un lavoro impegnativo. Ci sono 470 pagine di sceneggiatura e oltre 200 attori con battute, e una trama abbastanza intricata. Un po’ troppo perché un’unica persona si occupi della scrittura. È da tempo che ammiro le opere di Richard, abbiamo lavorato bene insieme.”
“Richard ha scritto le prime stesure degli episodi, io ho fatto le riscritture, e insieme abbiamo lavorato sulla creazione delle singole linee narrative.”
“Ho pensato a The Night Of come a un lungo film, piuttosto che a una miniserie di 10 episodi. Il tutto ha un inizio, una parte centrale e una fine. È la classica struttura cinematografica dei tre atti.“
“Amo un buon dialogo in un film o in TV, ma per me sono importanti anche le scene in cui i personaggi non parlano. Mi piace una narrazione completamente visiva. Richard dice che in un romanzo puoi raccontare direttamente la vita interiore di un personaggio, ma al cinema o in una serie devi mostrarla facendo vedere il mondo attraverso gli occhi del personaggio, e per farlo devi passare del tempo su di lui, senza spostare l’attenzione su altro.”


martedì 10 gennaio 2017

’71 - Yann Demange

girato in Inghilterra (e non a Belfast, vedi qui), '71 fa ripiombare in mezzo alla guerra civile, quartiere per quartiere, casa per casa, con l'intervento della civilissima Gran Bretagna (la stessa che metteva in galera, fino a non troppi anni fa, gli omosessuali, vedi qui).
il soldato Gary Hook trascorre la notte più terribile della sua vita, notte nella quale non è facile distinguere nemici e meno nemici.
se la caverà, fortuna, intuito e molto culo lo aiutano.
gran bel film, latitante in sala, naturalmente, da recuperare senza esitazione - Ismaele 

QUI si può guardare il film in italiano


un esordio nel lungometraggio di un regista acclamato per la serie Top Boy il quale non è tanto interessato ad indagare su torti e ragioni degli uni e degli altri o alla ricostruzione storica. Ciò che lo coinvolge e lo spinge a realizzare un film in cui la macchina da presa è in costante movimento non è neppure l'azione finalizzata a se stessa. Gli interessa invece proporre una riflessione (non dimenticando lo spettacolo) sul ruolo assegnato a giovani, ragazzi e bambini in qualsiasi conflitto e ancor più in quelli che lacerano al proprio interno una nazione. A partire dalla recluta Hook (non dimentichiamo che in inglese il termine significa gancio/uncino) '71 è un susseguirsi di speranze, fragilità, possibilità di futuro che vengono infrante da una logica demolitrice di qualsiasi ideale che non sia portatore di morte per il 'nemico' del momento. Chi sembra voler combattere per un futuro migliore da consegnare alle nuove generazioni in realtà ne sta bruciando, giorno dopo giorno, idealmente e materialmente le esistenze. È un film questo in cui lo sguardo e il corpo sempre più segnati del protagonista si aggirano inizialmente interroganti e poi in cerca di salvezza in un inferno in cui anche la luce è sporca e ragazzini e coetanei ne hanno interiorizzato l'ammorbante pervasività che sembra non lasciare scampo.

Yann Demange si “limita” a mostrare l’assurdità della violenza, la totale mostruosità della guerra, e lo fa tracciando le linee di una Odissea senza dei e senza eroi, in cui solo il sangue può lavare via l’odore del sangue. Un film incompiuto e imperfetto che viene però naturale difendere, sia per l’afflato che lo anima sia (ancor più) per un’idea di cinema civile che non abbandona mai i solchi del popolare.

C'è una tensione costante priva di pause e cedimenti, pur nella mancanza deliberata di una suspense costruita secondo i dettami consueti.
L'alternanza (snervante) sta tutta nei pochi vantaggi cognitivi concessi appositamente al pubblico per approntare il ribaltamento beffardo di ogni apparenza: Demange (e la sceneggiatura di Gregory Burke) prepara sempre accuratamente l'ambito della sequenza, senza perdersi nella velocità di esecuzione della messa in scena; dispone le eventualità, informando sulle minacce imminenti, e capovolgendo qualunque attesa si possa generare.
Qualora qualcuno fosse interessato a questo aspetto, si potrebbe sollevare un problema morale privo di alcuna soluzione: non esistono buoni e cattivi, non esiste una parte per cui parteggiare (a meno che non si sia membri dell'IRA o fieri lealisti, ma non è il nostro caso). Anche le istituzioni mostrano il loro aspetto marcescente. Esiste soltanto la purezza del bambino che il soldato Hook, indicativamente, riabbraccia alla fine. Si punta esclusivamente a rimanere vivi.
La traduzione sul piano narrativo è un'attesa continua, un senso d'incombenza che vive sulle illusioni di salvezza e sull'inversione: ci si salva quando ci si crede irrimediabilmente perduti, si cade nella rete se si allenta anche solo per un istante l'inevitabile tensione.
Il sorgere del sole è un sospiro di sollievo. Esistenziale.

Contraddistinto da una fotografia livida e spettrale, ’71 è un esercizio di stile e di narrazione. Infatti laddove la complessità della trama e dei volti possono confondere, la pellicola tende a sommare e a non lasciare scampo, ostentando un susseguirsi di violento non sense. Un film che non è interessato a indagare su torti e ragioni e nemmeno a prostrarsi a una fedele ricostruzione storica, ma che preferisce immergere lo spettatore in un’azione frenetica, che si interroga sul ruolo assegnato ai giovani all’interno di qualsiasi conflitto…

un gran bel thriller con qualche momento vagamente action, che utilizza il contesto storico, politico e sociale più che altro per dare uno sfondo solido alla tensione dettata dagli eventi. Yann Demange, al suo esordio cinematografico, dirige con una padronanza notevole e confeziona un centinaio di minuti coinvolgenti, tesi, brutali, basati su uno spunto certo risaputo, ma utilizzato benissimo. È genere puro, senza pretese di raccontare in maniera approfondita il periodo o le implicazioni sociali e politiche degli eventi, ma che riesce a non banalizzare o mancare di rispetto agli stessi, tratteggiandoli in maniera convincente nei momenti di raccordo che intervallano l'azione.
Il protagonista, interpretato da un Jack O'Connell come al solito ottimo nel mescolare ingenua vulnerabilità e una certa qual presenza ruvida, viene infatti per ampi tratti messo da parte, in modo da dare spazio a un bell'intreccio, che fa incontrare militanti più o meno moderati, militari, soldati sotto copertura e cittadini presi nel mezzo da una rete di doppi giochi e macchinazioni. E il risultato, anche grazie a un manipolo di attori in formissima, è davvero notevole, non si abbandona mai ai facili patetismi pur raccontando qualche discreta tragedia e spinge dritto verso un finale duro, senza compromessi, di quelli che lasciano l'amaro in bocca. Insomma, consigliatissimo.
Consigliatissimo anche l'utilizzo di sottotitoli per chi dovesse decidere di recuperarlo in lingua originale, ché è tutto un borbottare a base di accenti spinti.


lunedì 9 gennaio 2017

Il cliente – Asghar Fahradi

Asghar Fahradi è uno che fa capolavori o film bellissimi, e quindi si perde molto chi fa le classifiche e guarda i film facendo confronti.
la storia parte lenta e poi diventa un gioco a incastri senza possibilità di fuga, per chi vede il film.
qualcuno penserà che la storia sia irreale, si ricordi che siamo a Teheran, e non a Parigi.
ma anche a Teheran il motore della vendetta è sempre in moto, come dappertutto, solo che qui gli esiti sono imprevedibili.
e cosa succederà, dopo, a Emad e Rana, nel grande teatro della vita, non lo sapremo mai.
da non perdere - Ismaele







Siamo a Teheran. Un uomo, che non è suo marito, è entrato nella casa di Rana e l’ha vista nuda mentre si faceva la doccia. Magari è successa anche qualche altra cosa, ma non lo sappiamo perché lei è svenuta e non ricorda. Il marito, Emad, è disperato e indaga su chi possa essere stato. Rana perde qualsiasi allegria che aveva dimostrato fino a lì. E ci si prepara alla vendetta…

La narrazione di Farhadi ha fascino e sentimento; riesce a trattare questioni profondamente umane con una sobrietà formale e con un’intelligenza lucidissima che lascia senza fiato.
Interpretato con un senso di straziante autenticità, questo gioiello di Farhadi è un congegno impeccabile, che mantiene lo spettatore sul filo tagliente della suspense, dove in gioco ci sono la vendetta contro la morale e l’orgoglio contro l’amore.
Come nei film precedenti di Farhadi, la casa e la città occupano un posto fondamentale all’interno delle storie che racconta.
Il Cliente è una tragedia dentro la tragedia…

Come sempre in Farhadi, un fatto innesca un effetto valanga, per cui niente e nessuno sarà più come prima, tutti son costretti a nascondere qualcosa di sé, e tutto rischia di crollare. Come il palazzo dell’inizio. Si resta ammirati, esattamente come in Una separazione, di fronte all’escalation delle rivelazioni e dei colpi di scena, e di come la realtà e le stesse persone cambino velocissimamente sotto ai nostri occhi mostrando ambiguità insospettabili. Il solito gioco à la Farhadi della dissimulazione, della doppiezza, dell’inganno, del depistaggio. Gioco condotto ancora una volta con maestria assoluta…

Appena da spettatori si entra all’interno del meccanismo generale della rivalsa, dell’indagine, della cura, l’empatia con i personaggi si fa assoluta, ma non tutto è prevedibile. Le linee di sceneggiatura creano infatti almeno due grandi fazioni ed è assolutamente soggettivo parteggiare per una o per l’altra alla fine della rappresentazione. Chi si sente dalla parte di Emad, sente crescere per tutto il film un senso di rabbia, di violenza, di rivalsa, chi è più vicino alla sensibilità di Rana è invece più propenso a perdonare, a restaurare una situazione già drammatica di suo, senza renderla ancor più dolorosa. L’unica certezza è che la ritorsione, il regolamento di conti, è un automatismo animalesco, un procedimento che annega nella colpa anche chi è sempre stato dalla parte della ragione, generando nuovi colpevoli. Per rinascere davvero e andare incontro alla redenzione, sia a livello umano che politico, tocca guardare oltre, diventare esseri umani e porgere l’altra guancia. Anche se questa è già martoriata.

Il cliente riesce miracolosamente a parlarci sia della possibile ambiguità di chi ha il compito di mettere in scena un mondo, sia di quello stesso mondo, di una società come quella iraniana in rapido mutamento dove non vi è più spazio per i ‘salesman’, per chi prova a vivere alla giornata, per le incarnazioni del neorealismo italiano e iraniano. E in un accesso di odio di classe, Amed guarda con disprezzo i miseri palazzi che ha di fronte e impreca: “Bisognerebbe buttare giù tutto e ricostruire”. “L’hanno già fatto e guarda cosa ne è venuto fuori”, gli risponde saggiamente un amico. Ecco, siamo sempre al discorso dello sviluppo senza progresso, dei paraventi e degli ostacoli che una società avanzata ci mette davanti agli occhi per nascondere il suo potere e il suo falso benessere. Farhadi ha trovato il modo per raccontare tutto ciò e questa sua condizione lo pone in una rosa ristrettissima di cineasti contemporanei, tra cui va annoverato senz’altro anche Jia Zhangke, capaci di raccontare il presente e le sue mistificanti contraddizioni.