mercoledì 28 giugno 2017

Civiltà perduta (The lost city of Z) - James Gray

Percy Fawcett non è un'esploratore che vuole conquistare, vincere, uccidere, vuole solo trovare una città dimenticata nella giungla.

è un esploratore "buono", non vuole esportare il suo british way of life, non è un disperato senza famiglia, che si butta nella foresta per dimenticare.
e non è neanche fortunato, la città, forse, non la trova, o forse sì, ma noi non lo sapremo.
e però nella sua ricerca è felice, è la sua ragione di vita, ha un nome da riabilitare, una famiglia che gli vuole bene, una moglie straordinaria e paziente, erede di Penelope.
il film è una sorpresa, James Gray ne fa pochi e buoni.
e come resistere a un viaggio nella foresta amazzonica, senza le zanzare, seduti in una sala climatizzata?
buona visione - Ismaele

 

 


Le armi e le potenzialità del cinema allora per Gray sopravvivono davvero come interruzione, digressione, lato oscuro della luna (matter of fact it’s all dark), isola non trovata ma bella più di tutte, che aumenta familiarità e riconoscibilità proprio rimettendo in circolo canoni, immaginari, stili e riferimenti (d’accordo Coppola, ma l’apertura è innegabilmente ciminiana, e in ogni caso la cocciutaggine del progetto, totalmente impossibile da veicolare sul mercato, ancora una volta accomuna Gray a questi due autori-suicida di film che non sembrano volersi mai chiudere, assumere una forma definitiva: anche di Civiltà perduta percepisci in ogni istante la possibilità di mille montaggi alternativi, director’s cut con scene diverse, tagliate aggiunte o allungate…). Con l’intento lucidissimo di riaffermare “siamo giàstati qui”, qualcuno ci è già passato.
Amare il cinema di James Gray significa perciò condividere con lui e con i suoi personaggi la luce incommensurabile e indescrivibile che ti colpisce ogni volta che ti rendi di nuovo conto che l’entrata per un giro alla ricerca della Citta’ di Z è sempre aperta, ancora li, davanti (e dentro) ai nostri occhi. Farsi divorare dal sogno, per essere liberati dalla condanna.

Lo strano caso di James Gray. Che, dopo i primi quattro (bellissimi) film molto contemporanei e un filo autobiografici su immigrati ebrei (e irlandesi) negli States, con C’era una volta a New York ha cambiato radicalmente cinema, occupandosi ancora di immigrazione, ma in forma di period movie e melodramma. Adesso un altro film nel e sul passato, con sontuosità di scenografia e costumi e neanche più il tema dell’emigrazione a collegarlo ai suoi precedenti. Un’altra cosa, un altro film, davvero un altro cinema. Anche parecchio convenzionale, con militari in alta uniforme ai ricevimenti, cottage anzi castelli nel countryside, interni maestosi di ministeri e altre reali istituzioni tra Otto e Novecento inglese. Che non lo si riconosce più, il rigoroso Gray delle tormentate famiglie askenazite. Ma perché mai avrà accettato di girare questo The Lost City of Z - tale il titolo originale -, certo tratto da una biografia diventata bestseller, certo prodotto dalla Plan B di Brad Pitt, ma così inesorabilmente medio-mainstream? Un’avventura amazzonica con delirio del suo protagonista, che sarebbe anche di molto fascino se non ci fossero già certi indimenticabili Herzog, intendo Aguirre e Fitzcarraldo. Un paio di anni fa s’è poi visto ai festival e anche in qualche sala nostra il notevole El Abrazo de la Serpiente, di cui par di rivedere molti passaggi in Civiltà perduta. E dal confronto Gray esce stritolato…

James Gray riempie la sua opera, il parallelo tra la sua perseveranza e la missione di una vita di Fawcett è quanto mai prossima, dall’inizio alla fine.
Scandendo un processo a fasi, tra andate e ritorni, addii e ricongiungimenti, cavalca ellissi necessarie (non occorre ogni volta ripresentare i pezzi precedenti, i vari viaggi è come se fossero un tutt’uno), rendendo vivo lo spirito di esplorazione, mentre il fascino della (possibile) scoperta è quanto mai scardinante.
Tra uomo e natura, progresso e civiltà perdute, o meglio sconosciute, la composta eleganza delle vita occidentale e culture tutte da scoprire, l’arroganza dettata dal principio di superiorità insito nell’uomo bianco, verso i selvaggi ma anche le donne, Civiltà perduta trabocca, rendendo piena giustizia alla macchina dei sogni che è (dovrebbe essere) il cinema, oggigiorno sempre più ancorata in un porto sicuro, che è sinonimo di ripetitività.
Così, James Gray apre una vorticosa finestra sul passato e portali verso un futuro, di finzione e reale (un cinema che punta ad allargare i propri confini e un mondo che guarda avanti per la gioia di apprendere), che rimane una chimera.
Difatti, le tematiche presenti colmano oceani di vuoto e vengono chiarite senza eccessi, tra il (secondario) prestigio, le difficoltà fisiche e mentali che servono per arrivare al traguardo, la necessità di conoscenza che sopravanza il desiderio di conquista, lasciando alle spalle la sicurezza per trovare chissà cosa (con pericoli insediati ovunque), con il conseguente gusto di vedere qualcosa di immacolato, un avvicinamento alla morte per vedere meglio la vita, tutto questo sempre facendo ricorso a una dialettica che dosa le parole, rimanendo comunque chiarificatrice (non c’è niente di oscuro, mentre tanto è primordiale e qualcosa mistico)…

Gray si fa coinvolgere e coinvolge lo spettatore nella 'folle' ricerca di un uomo che riesce a convincere altri ad accompagnarlo trasformando anche una profonda ostilità che gli proviene dall'ambito familiare. Questo non significa per lui sottrarsi ai doveri imposti dalla Storia. Così la scena più significativa del film finisce con il divenire quella in cui lo si vede al comando di un plotone nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Dinanzi alla follia devastatrice del conflitto la sua ricerca si fa rileggere come la razionalità di chi vuole riportare alla luce ciò che un'antica civiltà ha voluto non distruggere ma costruire.

Il cuore del film non è tanto il sogno di gloria (o di riabilitazione del proprio nome) del protagonista, ma quanto tale realizzazione possa pesare sul rapporto con la moglie e i figli, i quali hanno dovuto fare i conti con un marito e un padre che li ha spesso abbandonati per le sue esplorazioni (in particolare la moglie Nina e il figlio maggiore Jack esternano il loro dissenso, la moglie pur non facendo venir mai meno il suo appoggio, il giovanotto esprimendo così anche la sua opposizione a questo padre al tempo stesso impegnativo e sfuggente). Ancora una volta la figura centrale nel cinema di Gray è divisa fra gli affetti e le proprie ambizioni e se nelle precedenti pellicole erano queste ultime spesso a doverne fare le spese, stavolta forse c'è una variazione positiva, visto che la famiglia Fawcett comprende quanto importanti siano i viaggi e le ricerche per il proprio caro e si comporta di conseguenza; nei film di Gray i protagonisti normalmente scelgono di optare per la risoluzione dei contrasti, però stavolta il tutto avviene senza che il personaggio principale debba rinunciare ai propri obiettivi (rinuncia, sì, alla felicità domestica ma ovviamente questa per lui sarebbe stata comunque una scelta sacrificata, come si capisce dalla scena in cui un mesto Fawcett dichiara ad un giornalista americano di apprezzare la vita domestica). In questo la decisione di Jack di unirsi al padre nel suo ultimo viaggio, lo struggente ma asciutto addio fra Percy e il secondogenito Brian e il bellissimo finale, fra sogno e realtà, in cui Nina idealmente raggiunge i propri cari nella giungla (mi è stato fatto notare come in effetti il bravo Gray diventi grande nel concludere i propri film) sono i tre momenti chiave di "Civiltà perduta", dai quali si può capire come, nonostante il triste destino dei protagonisti, l'opera sia meno negativa dei precedenti film del regista (perché neanche la risoluzione dolce-amara di Two Lovers faceva eccezione fino in fondo)…

Civiltà perduta è un blockbuster d’altri tempi. Due ore e venti minuti, ma sarebbero potute essere tre, anche quattro. Non ci stupirebbe una director’s cut. Un’altra follia. La giungla, i confini inesplorati, perdersi nuovamente. Civiltà perduta è una storia infinita, un eterno ritorno. Ce lo dice la macrosequenza a cavallo tra la guerra e il nuovo viaggio, quasi una fase di stanca, una impasse. Impossibile stare lontani dalla giungla, impossibile non tornare. Anche con la mente: alla giungla, alla fotografia di Darius Khondji, a questo cinema anche imperfetto, forse incompleto, ma dannatamente vivo. Il cuore è nella giungla.

4 commenti:

  1. Un anti-Aguirre?? Un po' mi attira un po' mi pare a rischio retorica....

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    1. non è anti-niente, e non è a rischio retorica, almeno come l'ho visto io.
      prova e mi dirai

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    2. Bene! Erano le impressioni dal trailer. Non so quando potrò, ma segno nella lista che ho in testa (dove poi qualcosa rimane e qualcosa viene cancellato...)

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