giovedì 29 dicembre 2016

21 Jump Street - Phil Lord, Chris Miller


Jonah Hill e Channing Tatum sono una coppia di poliziotti che sembrano usciti dagli avanzi di una scuola di polizia di serie B, e attraverso una serie di avventure rocambolesche riescono a risolvere un caso importante.
ironia, autoironia, citazioni e un cameo finale inatteso trasformano il film, che poteva essere una cagata pazzesca, in una simpatica sorpresa, merito dei due attori e di una sceneggiatura folle e misurata insieme.
se vi capita, potrà, a sorpresa, non dispiacervi e vi farà fare qualche sana risata - Ismaele

ps: mi accorgo adesso che la Molly del film tre anni dopo sara la mamma di Jack in Room.




..."21 Jump Street" ha diversi, semplici pregi, riassumibili in tre punti.

Primo: la sceneggiatura di Michael Bacall (co-sceneggiatore del geniale Scott Pilgrim vs. the World) raccoglie, a ritmo serrato, il meglio dei clichè da tutti i generi comici. Il soggetto, scritto insieme a Jonah Hill, è sviluppato con freschezza, virtuosismo e un ritmo forsennato. Le battute e le trovate si avvicendano piacevolmente, una dopo l'altra, tra humor nero, slapstick e surreale understatement. Ed è bello ritrovare in una grande produzione hollywoodiana un nonsense gustoso e scorretto che evita sapientemente il pecoreccio alla American Pie.

Secondo: fondamentale per la riuscita è l'affiatamento dei due protagonisti. Se già conoscevamo le abilità di Jonah Hill, non possiamo non notare la destrezza di un inedito Channing Tatum che, gigione al punto giusto, esegue la sua partitura con una dose ammirevole di autoironia.

Terzo: i due registi portano a casa un finale (momento sempre critico per film di questo genere) abbastanza spassoso che, tra tanti rimandi al cinema action mainstream, vede pure l'improvvisa entrata in scena di una star indirettamente, ma inevitabilmente coinvolta nel progetto.
Insomma, "21 Jump Street" è un buon prodotto d'intrattenimento, confezionato col mestiere di chi conosce i tempi e le dinamiche del cinema comico come le proprie tasche.

venerdì 23 dicembre 2016

Captain fantastic – Matt Ross

George MacKay (Bo, il figlio grande), lo conoscevo, non ricordavo dove, piccola ricerca, l'ho visto dentro Pride, e poi Frank Langella, che bravo, e Viggo Mortensen è davvero bravissimo, come sempre.
Captain fantastic è una bella sorpresa, una storia molto statiunitense, molto Henry David Thoreau.
il film contiene tante cose, come la libertà, l'educazione, la natura, la famiglia, la frontiera, la civiltà, l'economia, il cibo, il lavoro, l'amore, i compromessi, la testardaggine, la morte, il pentimento, la volontà, la malattia, tra l'altro.
alla fine è proprio un bel viaggio, saliteci anche voi, su quel pullman - Ismaele 






 La realtà - per quanto orribile, contaminata, misera sia - non va evitata bensì affrontata. A modo proprio.
E comunque, un film che celebra così apertamente Noam Chomsky (mica male l'idea di festeggiarne i natali al posto di qualche mitologica figura fantasy) non può essere sbagliato.

 parlando del cast , Viggo Mortensen secondo me a dato la miglior prova della carriera si è calato nella parte in una maniera davvero intensa e sincera , e non vorrei portare un po di iella al buon Tom Hanks ma se non sarà lui a vincere quest'anno agli Accademy Awards , Mortensen è quello che lo può far davvero spaventare , come del resto è stato l'anno scorso dove DiCaprio vinse a discapito di Cranston "quello secondo me fu un oscar più social che altro , visto che Leo lo vnse praticamente dopo la prima messa in grande schermo" , ma io sinceramente sarei contatissimo se quest'anno premiassero Viggo che ha saputo dare un qualcosa di magnifico a questo film , scusate il gioco di parole ma è stato davvero Fantastico , le sue emozioni si sono trasmesse intensamente e con una potenza tale che non vedevo da molto ma moltissimo tempo , le sue espressioni di rabbia , la disperazione per aver capito in una qualche modo di aver sbagliato qualcosa nel modo di crescere i figli , la sincerità del suo sguardo mentre sogna la moglie , il viso di sua moglie a occhi aperti e dove accarezza i suoi capelli rosso fuoco , ma anche la sua diciamo freddezza quando dice in faccia le cose alla gente senza alcun freno si perchè per lui l'ipocrisia è uno dei maggiori mali , per finire Viggo Mortensen se non becchi quest'anno un premio , non so cosa tu possa fare di più , sei stato grandissimo .
Eccezionale è risultato alla fine anche l'intero cast e soprattutto il giovane George MacKay nel ruolo del figlio maggiore , la sua prova non è stata da meno e per lui spero anche in un qualche riconoscimento per la sua prova e bravura data in un ruolo difficile come questo , anche perchè c'era il fondato rischio di essere inabissato da Viggo , quindi dopo questo film credo che lo vedremo molto presto in un altro film di rilievo magari come questo , ma mi sembra difficile eguagliare questo lavoro di Ross .
Dopo gli attori un ruolo di dovuta importanza per sostenere il tutto lo hanno avuto la sceneggiatura dello stesso Matt Ross e una efficacissima  colonna sonora che fino ad ora secondo me risulta la migliore di quest'anno dopo quella di Cafè Society di Allen , colonna sonora curata Alex Somers .
Mentre mi sono risultati allo stesso tempo eccezionali le scenografie di quei boschi montani incontaminati dove Ben impartisce lezioni di vita a i figli e la fotografia di Stèphane Fontaine , ed il montaggio ? ma non scherziamo il montaggio è eccezionale anche quello .
Quindi non mi vorrei dilungare troppo con questo mio pensiero , si perchè tutto quello che ho scritto mi è venuto in mente all'istante e le dita non si sono mai fermate , visto tutto il contenuto che questo film mi ha saputo dare , quindi non vorrei ingigantirlo ma per me questo lavoro di Ross è il migliore del 2016 senza se e senza ma , un film che ti fa apprezzare come sapere affrontare la vita anche in modi non convenzionali , tutto è stato reso  eccezionale nessuna sbavatura e nessun passo falso nel raccontarci una storia quanto bella quanto amara per poi regalarci di nuovo la gioia negli occhi , quindi il mio voto per Captain Fantastic è assolutamente un 10 .

…È accattivante e coinvolgente l’opera seconda di Matt Ross, un film che mostra l’educazione ferrea di un padre-padrone, colui che alterna bastone e carota, che si dimostra schietto e intransigente, ma anche empatico e amorevole. Captain Fantastic ha l’enorme pregio di mostrare al pubblico l’intensa e brillante prova recitativa di Viggo Mortensen, che guida un cast di ragazzi che sanno sopravvivere in una foresta solamente con un coltello, esprimersi correttamente non avendo paura delle proprie idee, che conoscono la filosofia, la fisica e altre religioni, ma che si trovano in difficoltà nel momento in cui devono confrontarsi con la società. Perché la loro educazione deriva dai libri, dalla conoscenza diretta di un fenomeno, senza però averlo vissuto davvero. Il film si sofferma sulla delineazione lucidamente freak di un padre hippy, che festeggia il giorno di Noam Chomsky, rinnega il capitalismo e denigra il cattolicesimo perché è una forma di controllo delle menti. Captain Fantastic provoca a più riprese, mostra la riuscita di un’educazione familiare, ma, subito dopo, sottolinea l’assurdità del comportamento patriarcale. E allora il regista preferisce non prendere una convinta posizione, evidenziando le ragioni dell’uno e dell’altro. Una scelta che si rivela un limite per la pellicola, in cui si respira profondamente aria d’incompiutezza perché se è convincente l’adeguato approfondimento dei dubbi dei due ragazzi (l’uno è stato accettato da tutte le università migliori del paese, mentre l’altro nutre delle perplessità sulle reali scelte della madre defunta), che vogliono confrontarsi con il mondo per imparare a vivere (e non a sopravvivere), diversamente la società fatica ad accettare questa famiglia disfunzionale a causa della sua unicità.
Pellicola che trova terreno fertile nel momento in cui la commozione può farsi spazio e sommarsi alla consapevolezza di un padre che si chiede se ha agito con correttezza e nel bene dei propri figli, Captain Fantastic utilizza la famiglia per affrontare il tema del libero arbitrio e della responsabilità sociale nei confronti dell’individuo. Un film che non annoia e che pone delle interessanti domande, ma che trova nell’accomodante compromesso una variazione che smentisce lo spirito libero dell’intera operazione.

…sarà anche impossibile, è sbagliato che un padre possa far vivere i suoi figli in un bosco, possa far maneggiare loro delle armi sin da piccolissimi, li metta in pericolo continuamente facendogli scalare le rocce a strapiombo, sarà sbagliato che non li mandi a scuola insieme agli altri ragazzi, che li tenga lontani dal mondo rendendoli dei fenomeni da baraccone in qualsiasi situazione sociale dovessero trovarsi, ma se è lo stesso padre che ti insegna a leggere e lo fa in modo condiviso cosicché tutti insieme si legga di notte davanti al fuoco, in silenzio, e a un certo punto si mette a suonare la chitarra e tutti i figli, a uno a uno, si uniscono a lui, ognuno con uno strumento diverso, che contribuisce a creare un’unica melodia, insieme; se è lo stesso che inventa un nome solo per te, che avrai solo tu in tutto il mondo, perché possa sentirti e sapere sempre che sei unico, lo stesso che quando hai qualcosa da obiettare sulle sue regole ti dice “facciamo un discorso, e se con le tue argomentazioni ci convincerai che quello che pensi è più valido allora cambieremo la regola”; se è quello che ti dice che la parola “interessante” è una parola che non va usata perché si allontana troppo da te e da quello che senti o che pensi, che se devi parlare di un libro che hai letto ti chiede di non parlargli della trama ma di dirgli cosa ne pensi tu, come ti ha fatto sentire, che non ti mente mai ma pensa che qualsiasi cosa possa essere spiegata a un bambino se lo si considera un individuo mentale al suo pari, e allora qualsiasi domanda merita una risposta sincera, sesso, morte, economia, qualsiasi argomento può essere condiviso; e soprattutto se è lo stesso che dirà a un figlio maschio che sta prendendo la sua strada:
“Quando fai sesso con una donna, sii gentile
e ascoltala
trattala con rispetto e dignità
anche se non la ami
Dì sempre la verità
Prendi sempre la strada maestra
Divora la vita
Ricerca il rischio, sii audace ma assaporala
La vita passa in fretta.
E non morire”
beh, parafrasando in modo speculare la frase pronunciata da Viggo Mortensen alla fine del film, sarà anche un errore, ma è pur sempre un bellissimo errore.

…Il sistema dell’educazione scolastica è uno degli snodi più riusciti del film. Mentre il figlio più piccolo di Ben ha un’idea precisa e soprattutto personale (i due genitori hanno sempre voluto che i figli si forgiassero una loro idea su tutto) sull’importanza del Bill of Rights, i due figli della sorella di di Leslie balbettano definizioni ridicole. Ma d’altra parte le condizioni educative di Ben non prevedono sconti su nulla né suggerimenti o aiuti esterni. E in un attimo il padre diventa una sorta di dittatore e la fiaba si trasforma in un dramma.
“Parli sei lingue, eccelli in matematica e fisica…” urla un arrabbiato Ben al figlio che vuole andare al College. “Non so niente. Sono un fenomeno da baraccone. A meno che non sia scritto in un libro, io non so niente di niente” è la replica di un figlio frustrato. Perché è nella messa in pratica dell’Utopia nella società esterna all’isolamento dove è stata nutrita, emerge la difficoltà di espanderla o anche solo di praticarla.
Interpretato in maniera impressionante da tutto il cast, Captain Fantastic nella sua eccentricità è molto carismatico; e tutte incongruenze narrative che affiorano, si superano leggendo questo film come una fiaba drammatica, con lo scopo proprio delle favole che è far riflettere. 

He aquí una de esas pequeñas películas nacidas para encandilar, en perfecta comunión, a crítica y público. Esas de las que resulta prácticamente imposible escapar a su poder de seducción y no caer rendidos a sus pies, gracias a su desbordante combinación de frescura y emotividad. Los galardones obtenidos por Captain Fantastic (2016) en Karlovy (Premio del Público) o en la sección Un Certain Regard de Cannes –mejor director para un Matt Ross que ha dado la campanada en su segunda incursión tras 28 Hotel Rooms (2012)– han puesto en el punto de mira a una cinta que sigue la tradición cinematográfica de familias disfuncionales como las de Pequeña Miss Sunshine (Jonathan Dayton, Valerie Faris, 2006) o La familia Bélier (Eric Lartigau, 2014), tan excéntricas, imperfectas y cargadas de conflictos internos como, a la hora de la verdad, unidas como las que más ante las adversidades y los más kamikazes objetivos. Sin embargo, la propuesta que nos presenta Ross eleva el listón de la ambición sobre otros ejercicios similares, poniendo sobre la mesa un buen puñado de temas de reflexión y debate –no exentos de polémica a pesar del tono amable del relato– a través de una fábula utópica con reminiscencias de El señor de las moscas, de William Golding, que hace una abierta crítica a la sociedad capitalista actual, al consumismo e, incluso, a las religiones organizadas (con la cristiana como principal objetivo de sus dardos)…


lunedì 19 dicembre 2016

Lui è tornato - David Wnendt

durante la visione del film mi sono venuti in mente L’onda, Michel Moore, Günter Wallraff, e però questo è un'altra cosa.
scritto da sei sceneggiatori (tra cui Marco Kreuzpaintner , regista di Trade, grande film sconosciuto e sottovalutato) Lui è tornato inizia come un film quasi comico, ma col passare dei minuti diventa un film sui fantasmi di una nazione, si ride, tutti ridono, ma non Lui, e alla fine neanche noi.
un gran film, da non perdere - Ismaele



QUI il film completo in italiano


Il messaggio forse più importante di cui si fa portavoce questo film, lo troviamo in conclusione, quando si trovano nella medesima stanza, Sawatzki, Hitler ed una signora anziana ebrea, vissuta nell’epoca della Germania nazista, ella ammonisce il giornalista ed attraverso lui lo spettatore: “Anche all’epoca all’inizio ridevano di lui”! A sottolineare quanto possa essere facile per un’ideologia, per quanto folle, prevalere, se sottovalutata. In conclusione, a seguito di tale evento il giornalista indaga sul luogo in cui Hitler è ricomparso e si rende conto di avere dinnanzi a lui non un attore ma il vero dittatore nazista. Il finale dalla squisita sfumatura tragicomica porta Zawatzki, in panico, a cercare di riportare quanto scoperto e proprio per questa ragione verrà considerato pazzo e ricoverato.
Nel frattempo il Führer, dopo aver finito di girare il suo film accrescendo ulteriormente la sua popolarità, passeggia in macchina tra gesti di affetto e qualche gestaccio, per rivolgersi poi allo spettatore affermando che proprio la tensione del mondo contemporaneo, le problematiche a cui è spesso comodo e facile rispondere con la violenza e l’egoismo, il populismo sempre più di moda e il razzismo, rappresentino “un buon punto di partenza” per il nuovo Reich. Sta a noi, anche attraverso la conservazione fondamentale della Memoria, che in tanti – in troppi – cercano di trasformare in oblio, evitare che ideologie spinte dall’odio possano prevalere, oggi come allora.

…Se dovessi descrivervi il film in una sola parola direi che è un film inquietante.
Vi cito una frase che dice un uomo che intervista Hitler per farvi capire meglio " Gli africani che arrivano qui hanno un quoziente intellettivo di 40 o 50 mentre il nostro è di almeno 80. Questo abbassa la media del Paese".  È inquietante come parla la gente degli immigrati ("tutti questi turchi con la barba dovrebbero tornare a casa loro,non li vogliamo qui" dice un uomo), è inquietante quando un uomo dice che dovrebbero tornare ad esistere i lager, quanta gente acclami Hitler e le sue idee, quanto questo Hitler ricordi molti politici viventi e quello che dicono. E mi ha molto inquietato quello che dice una anziana donna quando vede Hitler (un personaggio del film,non una donna intervistata) "all'inizio anche noi ridevamo di lui". Queste parole mi ritornano spesso in mente e mi fanno molto riflettere. Buffoni, cosi chiamiamo gente come Trump, gente buffa, divertente, idioti, diciamo che non dobbiamo preoccuparci. Ridiamo di loro, delle loro gaffe, delle idiozie che dicono."All'inizio anche noi ridevamo di lui".
Un altra scena che mi ha davvero lasciato basito è quando troviamo Hitler in un allevamento di cani perché vorrebbe comprare un pastore tedesco. Hitler fa questo discorso sulla razza dicendo che quando un pastore tedesco e un bassotto si accoppiano, nasce un pastore bassotto, poi da un pastore bassotto e un altro pastore bassotto nasce un altro pastore bassotto e cosi la razza del pastore tedesco sparisce, si estingue. Cosi succederà alla nostra razza dice l'Hitler del film. E gli danno ragione. Ora capite perché inquietante?...

… In “lui è tornato” Hitler parla e fomenta l’odio razziale e la xenofobia in diretta nazionale, ma l’unica cosa che mette in difficoltà la sua ascesa da “fenomeno televisivo” è l’aver fatto del male ad un cucciolo, segno di come oggi fenomeni sociali come l’animalismo si riducano a feticci borghesi in cui a confronto le persone valgono meno di zero. Ad esempio, per parlare dell’ipocrisia di taluni feticci, fece molto più scalpore quando tifosi del Feyenord scalfirono la fontana della Barcaccia a piazza di Spagna, che quando quelli dello Sparta Praga pisciarono su un mendicante. “Lui è tornato” dipinge i paradossi della società, contraddizioni che non se ne sono mai andate: rappresenta in modo ironico un Hitler che, nonostante tutto, non rimane nello spazio di comico in cui lo si vorrebbe confinato, ma anzi dimostra come, dopo anni di retorica e memoria storica intrise di pacificazione sociale, le idee reazionare trovino un ruolo nient’affatto secondario nelle nostre società.
Le ultime scene sono tutt’altro che banali e scontate, e la fine non delude in termini di costruzione cinematografica, considerando che il film riprende anche interessanti tecniche stilistiche che sembrano mediate sulla scia del meta-teatro di Brecht: tramite efficienti trucchi narrativi lo spettatore diventa un protagonista del film per poi ritrovarsi sputato fuori davanti a uno schermo. E arriva a porsi un’annosa domanda… E se Hitler tornasse? Cosa farei? Ma il pericolo è veramente un Hitler o la società stessa che produce il terreno fertile e necessario perché un qualunque folle vestito da SS possa trovare seguito predicando odio razziale e xenofobo?

Meglio di quanto mi aspettassi. Vale davvero la pena vederlo, questo Lui è tornato, dove lui sta per Adolf Hitler. Una commedia nera acuta, brillante, cattiva fino alla devastazione delle nostre certezze, una commedia che non ha mica paura di darci dentro e di affondare la lama della critica nella coscienza intorpidita della Germania di oggi, e non solo della Germania. Magari un po’ troppo a tesi, troppo costruita e programmata per allarmare e additare a noi tutti i possibili nuovi pericoli e i nuovi spettri autoritari in agguato appena girato l’angolo. Con un finale più da predichetta politicamente corretta, asfissiantemente corretta, che in linea con il tono cinico, perfido e beffardo della narrazione fino a quel momento. Tant’è che nel corso del film ti pare di intravedere dietro la macchina da presa il fantasma di Billy Wilder…

L’icona di Hitler, la sua irruzione sul piano della nostra realtà, produce un processo di azzeramento della memoria storica nella collettività a seguito del suo proprio medesimo “avvento”. Il film mostra l’atto progressivo del processo di depotenziamento del tabù nelle società di consumo. Tramite il “ready made”, il calco caricaturale denso di significati e magnetismo simbolico del tiranno sterminatore viene progressivamente a sbiadirsi e a perdere potenza, immerso com’è nel giogo mediatico del suo stesso “successo”. Non inganni il finale e il suo maldestro ripiegamento. Non c’è fiction in questa illimitata “mise en abyme”, ché altrimenti dovremmo considerare il cornetto inzuppato nel cappuccino dell’avventore come un non-fatto, un mero sogno di Nanni Loy.

E invece è tutto “vero” nell’epoca della riproducibilità dell’opera d’arte, per parafrasare Benjamin. Il legame con Hitler non può e non deve essere reciso, e la sua morte non può darsi se non tramite un paradossale processo di inversione che prevede la liberazione del tabù nel riferimento storico contestuale. 
Nessuna legge può estirpare l’orrore. Hitler “muore” nella sua demistificazione, nel suo naturale processo di dissolvimento. La condanna viceversa cristallizza il tiranno, lo rende eterno, e finisce col realizzare il suo reale intento: la nuova mitizzazione. Questa la lezione che ho tratto dalla visione di questo film-esperimento, da vedere e rivedere più volte.

…Las distribuidoras se lo deberían hacer mirar ¿No estamos preparados para este tipo de humor o que pasa? Incomprensible que la dejaran escapar. Estoy convencido que en España hubiera hecho una muy buena taquilla.
En definitiva un 7/10 para esta atípica comedia que no me voy a cansar de recomendar y que promete ser de culto.
Muy recomendable para todo tipo de público y aún más recomendable a los que les guste el humor políticamente incorrecto de las series de Ricky Garvais, Larry David, Louie...
Ha vuelto (2015) demuestra  que los limites del humor pueden ser sobrepasados y que encima arrasen la taquilla.

sabato 17 dicembre 2016

E' solo la fine del mondo - Xavier Dolan

i film di Xavier Dolan sono grandissimi, ormai lui è uno dei grandi del cinema.
i suoi film non ti lasciano mai indifferente, inizi a guardare e sei parte della storia, un osservatore che gioisce (alcune volte) o soffre (quasi sempre) con i suoi personaggi.
guardando il film mi è venuto in mente un libro di David Cooper del 1972, intitolato La morte della famiglia.
le famiglie di Dolan (e non solo), anche in questo film, sono campi di battaglia, dove i deboli devono cedere o fuggire, vivi o morti.
gli attori sono tutti straordinari, quella merda del fratello, quell'infelice della cognata, quella fuori di testa della madre, e Suzanne, la sorella che ha sempre avuto bisogno di Louis.
qualcuno di loro l'abbiamo incontrato tutti nella vita, e questo ci coinvolge oltre il dovuto, oltre il politically correct, e ci coinvolge senza trucchi, né ricatti.
tutti i film di Dolan oscillano fra il bellissimo e il capolavoro, e questo non fa eccezione.
i silenzi di Louis sono (stati) anche i nostri, certe volte, e lo sentiamo come un fratello.
è in poche sale, naturalmente, ma cercatelo, non ve ne pentirete, sono sicuro - Ismaele







La musica è tutto (dai Blink 182 alle esuberanti sinfonie del compositore di fiducia Gabriel Yared), i primi piani sono pura erotizzazione della recitazione (mai stucchevole però; come cavolo fa???), il tempo del presente un incalzante concerto vissuto in prima fila mentre i flashback nella mente del malaticcio Louis diventano uno struggente viaggio nella memoria dove capisci che lui si è perso e dove senti che lui vorrebbe tornare (il fratello lo portava sulle spalle; ora gli vuole spaccare la faccia).
La sorella lo rimprovera perché potevano essere anime gemelle. Il fratello è dilaniato dal complesso di inferiorità. La mamma cerca un equilibrio poetico nella saggezza politica.
La cognata (siamo noi) li guarda atterrita e forse… è l’unica che capisce che il ritornante è un morto che cammina.
Louis tace sempre.
Noi no: “È UN CAPOLAVORO“.
Urlandolo a squarciagola.

…Il diritto di poter essere padroni, per quanto possibile, della propria vita, di condividere la propria morte.
Parlare della propria morte come testimonianza della propria vita.
Il diritto di esprimersi.
Il diritto di poter riassaporare, rivedere e riascoltare i frammenti della propria vita, sparsi ma raccolti. Lontani, ma ancora raggiungibili. Fino al limite estremo.
Il diritto di rivangare non tanto il passato, quanto la memoria di quel passato.
Il desiderio di rivedere la “vecchia casa maltrattata dal tempo”. Ricordi di miseria e tempi duri, ma quando la vita passa davanti, tutta, sapere di aver vissuto in un posto che malgrado tutto è lì, meta e non solo punto di partenza, appartiene alla legge del desiderio di riconciliazione che sgorga.
Nella vecchia casa sono nati i sogni, e Louis avrebbe voluto accarezzarli per l'ultima volta.
Desiderio di riscoperta per chiudere degnamente il cerchio. Desiderio che la testa poggi di nuovo su quel materasso.
La vecchia casa, non ha senso vederla: la brutalità della rinuncia.
Desiderio di avere la possibilità di pronunciarsi, di pronunciare la morte, per spezzare quel tabù condividendo la verità, nuda e semplice, eppur dolorosa, con la propria famiglia, con chi più di chiunque altro ha il diritto e il dovere di sapere e accogliere.
“Che cosa sei venuto a fare”, domanda ripetitiva come una interrogativa subdola. Non c'è tempo per porsi in ascolto per più di una manciata di secondi, si è perso il tempo dell'attesa, del mettere gli altri nelle condizioni di esprimersi secondo i loro tempi, le loro intenzioni, le loro necessità.
La pendola, il tempo scorre, quando sarà il momento giusto?
Le parole circostanziali per introdurre le parole “giuste”, quanta fatica. Scegliere il momento “giusto”, Louis ci ha provato, tre parole da dire e da rispondere, quelle essenziali, a volte quelle per rompere il ghiaccio dell'omertà.
La paura di parlare e di ascoltare, per contro, la paura di sentirsi dire che si muore, come se non lo sapessimo…

un tipo di cinema che non può che dividere. Da amare o da odiare. Perché c’è chi non sopporta il concentrato di narcisismo maniacale che Dolan propone coi suoi protagonisti, un narcisismo che diventa sempre un concentrato di genialità, di malattia, di autocommiserazione di chi non si sente mai abbastanza cresciuto o amato. Certo, possiamo vederlo anche come pura messa in scena teatrale di rapporti conflittuali tra chi è cresciuto negli anni fluidi di Moby. Ma Dolan, coi suoi già 27 anni, non ci propone mai solo questo. Pretende di più dai suoi spettatori, dai suoi personaggi e da se stesso che un bel drammone recitato da attori strepitosi come Vincent Cassel, Léa Seydoux, Marion Cotillard. Nel ritorno a casa dopo 12 anni di assenza di un geniale autore teatrale malato, Gaspard Ulliel, che cerca la forza di comunicare la sua imminente fine alla madre svalvolata, Nathalie Baye, e ai fratelli, leggiamo anche una sorta di auto-messa-in-scena di Dolan e delle proprie paure dopo tanti film di successo…

"Juste la fin du monde" è un film che necessiterebbe di più visioni per poterne cogliere e custodire le tante sfumature. Alla delicata sensibilità con cui sono ritratti tutti i personaggi (anche Antoine, alla fine, rivelerà una rimossa fragilità) si accompagnano le sfumature delle scelte di messa in scena, che Dolan padroneggia sempre più sicuro, lavorando meglio anche per sottrazione. Le stesse aperture musicali sono più rare e rarefatte: i "momenti-videoclip" sono diversi, per tono, rispetto ai film precedenti - abbondano le musiche in minore, e sulle canzoni pop predominano brani strumentali e strumentazioni classiche.
Anche il tema delle ipocrisie che minacciano l'autenticità è risolto tramite sfumature: i contrasti tra i personaggi non subiscono ridimensionamenti, la trama è quasi bloccata in un'impasse. Se gli equilibri mutano lo fanno gradualmente, senza scossoni. Si procede per variazioni minime.

Tutt'altro che film minore e interlocutorio (come inteso da alcuni), "Juste la fin du monde" aggira il rischio della maniera personale facendo intravedere in quale direzione potrebbe evolvere il cinema di Dolan. Senza segnare radicali cambi di rotta: Dolan non rinnega le sue predilezioni stilistiche, ma le affina, e a livello tematico amplia, matura, approfondisce…

Al lavoro per la prima volta con attori noti, Dolan ne isola i volti nell’inquadratura e riprende le loro reazioni, che si esprimono in una struttura campo-controcampo claustrofobica e oppressiva. Questo permette agli interpreti di costruire le emozioni dei personaggi sfruttando la micromimica facciale, distribuendo nelle espressioni del volto il loro dissidio interiore. I visi degli attori intrattengono un fraseggio mimico e verbale dal ritmo musicale. Così Louis blocca i tratti in una maschera sommessa, controbilanciata dalle reazioni ferine e incontrollate del fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel) che tratteggia la rabbia originando un universo espressivo compresso, concentrato in una tensione oculare scandita al tempo delle battute pronunciate. La Catherine di Marion Cotillard trasforma la propria fragilità e indecisione di moglie remissiva in un balbettio che è anzitutto mimico. Lea Seydoux attribuisce alla sorella Suzanne – che conosce Louis solamente nei racconti familiari, era infatti una bambina quando il fratello ha lasciato la famiglia – un’instabilità emotiva e un impeto espressi in uno sguardo tagliente e disperato. Nathalie Baye dona alla madre un’aria trasognata ed eccentrica, rivelata in un fiume verbale ininterrotto…

Nelle parti più riuscite par di assistere a un girone di dannati che si sbranano, si fanno del male fingendosi di amarsi. Ma l’operazione resta sempre all’esterno dei personaggi e del testo. Dolan mostra i muscoli facendoci capire quant’è bravo come metteur en scène, ma gli manca un pensiero davvero forte, un progetto per organizzare la materia che si ritrova tra le mani. Resta alla fin fine un ragazzino di talento, e sarebbe anche ora che crescesse. Non è un disastro, Juste la fin du monde, nei momenti più alti è un huis-clos teso e disturbante al punto giusto, folle e concitato. Dolan mantiene il suo rango d’autore. Ma è un film-limite oltre cui dovrà reinventarsi e smetterla con certe astuzie pop che l’han reso tanto amato tra giovani e fashionisti, e rischiare di più, mettersi in gioco. Il punto di massima fragilità è il pessimo Gaspard Ulliel, lamentoso e inespressivo, incapace di reggere un film che ruota intorno a lui (Ulliel è pessimo anche in un altro film visto a Cannes 2016, La danseuse). Mentre gli altri son bravissimi, ovvio, avendo Dolan chiamato a raccolta il meglio del cinema french-speaking: Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye. Tutti formidabili. Con menzione speciale per la Cotillard in un ruolo ingrato.

…Juste le fin du monde è un film claustrofobico che gioca con i sensi primari dello spettatore, senza riuscire mai a sbarcare nel postmoderno, o in qualunque altra scelta artistica degna di nota. In contrasto con chi afferma che certi altri film autoriali siano fin troppo concettuali, è invece concettualissimo il nuovo film di Dolan (e anche tutto il suo cinema): è un modo di girare che scava nelle idee e nelle trovate, praticamente un campionario di immagini che cercano l’angolatura più curiosa, per la più strampalata delle scene. Fuffa, fumo negli occhi. Ogni scena del film sembra accontentare uno stato d’animo differente, tradendo l’unicità e l’univocità ricercata del film stesso, come se potessimo vedere proprio lì, in mezzo alle immagini, Dolan che sviscera tutto il materiale che gli viene in mente, e si sfoga senza però mai lasciarsi andare. Ma Juste le fin du monde non è un film né sull’immaginazione, né su un’eventuale schizofrenia emotiva (che porta in effetti Dolan a usare con sfacciata noncuranza le musiche più disparate): quello che le immagini vogliono dire (e si fanno intendere, perché spesso sono facili, schiette, dirette) è che la vita è, se non per rari sprazzi sognanti, un lento avvicinarsi alla luce (il finale). Ma, sorvolando sull’eventuale originalità dell’idea (e di tradurla in un dramma familiare da camera), è davvero così affascinante una divisione così netta delle parti? Un uso così simbolico e schematico delle scene e delle sequenze si addice all’idea immersiva di un cinema che vuole a tutti i costi emozionare, percuotere, destabilizzare con i suoi estremi opposti?...


lunedì 12 dicembre 2016

Agnus Dei - Anne Fontaine

una storia da nascondere, e però è impossibile.
la madre badessa del convento non riesce a risolvere a suo modo la questione, in ogni istituzione totale c'è sempre qualcuno che tradisce la volontà dei superiori, meno male.
attrici bravissime, hanno già recitato in grandi film, polacchi e non solo (solo un esempio, la madre badessa è stata la zia di Ida).
dopo Ida un altro grande film con suore, ambientato in un convento polacco (da recuperare anche il grandissimo Madre Giovanna degli angeli, di Jerzy Kawalerowicz).
bravissimo anche il medico francese, naturalmente, dotato di un umorismo spesso amaro, non ama i polacchi, che non amano i tedeschi, ma sopratutto i russi.
un bel film che, naturalmente, non è facile trovare in sala, ma non vi deluderà, promesso - Ismaele


ps: cercate solo di non sedervi davanti a una fila di spettatori che quando appare un bambino dice "un bambino!", quando c'è del sangue dice "c'è sangue!" (la fila intera, mica uno), e così via, pensando forse che tutti gli altri spettatori siano non vedenti, 



Ci sono film che vedi, ti entrano sotto pelle e non ti lasciano facilmente nonostante l’assenza di trame avvincenti, scene esplosive e inquadrature traumatiche. Hai bisogno di metabolizzare e fare tuo un ricordo che ti accompagnerà per un po’ di tempo. E, in effetti, Agnus Dei (Les Innocents), il nuovo lavoro di Anne Fontaine (Two Mothers) infine nei nostri cinema, è proprio così: è una carezza. E’ una storia drammatica narrata con poesia tanto nelle parole, sempre calibrate, quanto nelle inquadrature, sempre gentili.
Eventi durissimi sono alla base dell’esperienza che sta per vivere Mathilde (Lou de Laâge), il giovane medico francese che risponde alla richiesta di aiuto di una suora. In un convento isolato la fine del secondo conflitto mondiale ha portato l’orrore: i soldati russi si sono presi il loro “premio”. Di quella tragedia non si vede alcun particolare. Le urla soffocate che si odono provenire dalle piccole celle sono le conseguenze. Conseguenze in grado di mettere in crisi qualunque donna, a maggior ragione se deve conciliare la violenza subita con la propria vocazione…

Storie di donne e di sofferenze, di brutalità ed ingiustizie ai danni di queste per opera di una società prettamente maschilista: in fondo molto del cinema della valida cineasta Anne Fontaine (Gemma Bovary la sua ultima e precedente prova) verte su quello, alternando abilmente i toni del racconto, non sempre ed esclusivamente rappresentativi di un dramma cupo e inserito in un contesto altamente drammatico come in questo caso…

L’assurdità presente nella realtà supera di gran lunga l’immaginabile: Agnus Dei lo racconta con il tocco poetico del cinema, in grado di far convogliare le arti.
Siamo nel 1945 in Polonia, nonostante la seconda guerra mondiale sia terminata, ne restano strascichi di terrore e violenza. Le cicatrici e i ricordi tremendi si accompagnano al terrore di una violenza che sembra non trovare pace. Il conforto e la speranza hanno smarrito la residenza, perfino la fede vacilla, perché non si trovano giustificazioni…

Anne Fontaine, che da sempre racconta storie di donne, supera questa volta la dimensione individuale per approcciare quella collettiva, non solo perché s'immerge nella vita di comunità del monastero, con la sua drammaturgia di caratteri differenti, differenti motivazioni, paure e gerarchie, ma perché, sollevando il velo su una prassi di guerra tanto atroce quanto purtroppo comune, parla di ciò che non può essere ignorato da nessuno, nemmeno nel nome del pudore o della presunta protezione (ed è questo concetto ad essere tradotto, nel film, nella vicenda tragica della madre superiora). 
Lo stile di regia sembra tener presente un'ampia destinazione del messaggio: la storia forte non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi (con qualche forzatura, va detto) e il film si chiude su una nota forse eccessivamente ottimista…

…Il film si regge su una fotografia incantevole, non certo ardita come quella di Ida (con quei tagli d’inquadratura audacissimi): qui è più formale, ma comunque di grande impatto. La Champetier, che la dirige, non ha bisogno di presentazioni (Holy motors, Uomini di Dio). Le attrici sono bravissime; il volto di Suor Maria è un misto tra l’angelico e il risoluto, poi la solita (Ida) Kulesza, imponente in quel film, autoritaria e fondamentale perdente anche qui. Sulla protagonista avrei qualche riserva, come volto, non certo come bravura. Colonna sonora al top con canto gregoriano preponderante e la stupenda sovrapposizione monodica e melodica che possiamo ascoltare nella veglia della sorella suicida. Da brividi.
La storia è una storia di guerra. E’ la solita e spesso propagandistica storia dove quello che macroscopicamente resta delle gesta degli eserciti “liberatori” è il loro eroismo. Lo sciame di microscopiche ma diffuse nefandezze che si sono portati appresso diviene taciuto o secondario e, tendenzialmente, non riempie i libri di storia; perché la guerra è un vivaio di nefandezze: dei vinti e dei vincitori. La guerra è una delle dannazioni dell’umanità tutta, incapace di trovare gli strumenti alternativi per proporre delle idee o far valere i diritti di un popolo o di una minoranza se non attraverso l’istigazione all’odio troppo spesso mascherato da valori o ideali di facciata, ancora più spesso da meri interessi economici…

…Lontano dal promuovere l'arroccamento maligno dei propri principi morali (il colpo di scena finale spiazza più dello stesso antefatto, mostrando come la paura di compromettersi possa essere nociva e come una regola seguita senza l'aiuto della riflessione mostri tutto il suo lato maligno) il film mette in luce però l'importanza di uno sforzo di fede, non necessariamente orientato verso la confessione religiosa, quanto verso il ritrovamento di un orizzonte di valori che appare sempre più sbiadito e fragile nella società occidentale contemporanea: la giovane Mathilde è un esempio positivo di ciò.

L'opera è inoltre destinata a raccogliere consensi anche sotto diversi aspetti tecnici su cui spiccano la fotografia di Caroline Champetier, che contribuisce in maniera preminente a creare il clima di sofferenza e di instabilità che la pellicola evoca nelle sue tematiche, e il trittico di attrici protagoniste: Lou de Laage, Agata Buzek e Agata Kulesza ai cui volti la regia lascia spesso un compito principale nell'esternare emozioni e stati d'animo.
Peccato che a un certo punto il ritmo dell'azione inizi a peccare di pesantezza, adoperando una dilatazione dei tempi che difficilmente impedirà allo spettatore di arrivare alla conclusione senza concedersi qualche sbadiglio o qualche occhiata all'orologio.

…È quasi mirabile l’equilibrio in cui riesce a tenersi Agnus Dei nel suo voler raccontare la storia di un trauma senza traumatizzare, ritagliandosi momenti distensivi quando occorre, concentrandosi sovente sul volto di porcellana e sugli occhioni sgranati della sua protagonista. Si resta così in uno stato di sospensione, in attesa di qualcosa che faccia fuoriuscire il film dagli schemi arcinoti di un valido prodotto in costume sulla seconda guerra mondiale, quale in ogni caso Agnus Dei è, e non vi è dubbio che con la sua parabola seriosa ed edificante, riuscirà a conquistare una buona fetta di pubblico. Quel qualcosa di sorprendente ogni tanto fa capolino, va detto, come ad esempio accade in quell’unica inquadratura che riesce a restituirci il senso del dramma collettivo in cui versa la Polonia: quella in cui un gruppetto di bambini saltella giocoso su una bara abbandonata di fronte all’ospedale. Si tratta però di un brevissimo istante all’interno della durata del film, subito soffocato dalla regista in un andamento narrativo che si limita ad alternare la presenza della protagonista nell’ospedale francese con quella, via via sempre più preponderante, nel convento.
Eppure qualcosa è davvero sfuggito al controllo della Fontaine in Agnus Dei e questo qualcosa è Vincent Macaigne. Esponente di spicco della commedia drammatica francese contemporanea, con la sua fisicità nevrotica e i suoi ruoli perennemente in bilico tra normalità e follia (si vedano i suoi exploit in La bataille de Solférino o in 2 automnes 3 hivers), Macaigne è qui una scheggia impazzita solo parzialmente imbrigliata dal ruolo del medico-amante. Quel suo monologare a tratti delirante – viene da pensare che le sue linee di dialogo siano, almeno in parte, frutto di improvvisazione – fa di Samuel un personaggio contraddittorio, imprevedibile, e proprio per questo umanissimo, molto più della protagonista e delle sventurate sorelle. E in tal senso, il confronto con l’interpretazione della collega Lou de Laâge è esemplare: da un lato abbiamo lei che cammina  in divisa nel chiostro del convento con le mani in tasca e la faccia da dura, dall’altro abbiamo Macaigne che dà corpo al suo ruolo con alte dosi di ironia, esagitazione e disincanto.
Sarebbe bello poter dire che la sola forza della performance recitativa di Macaigne riesca a scardinare l’aulica messinscena di questo dramma storico così imbrigliato nel suo calligrafismo, ma naturalmente non è così. Noi pubblico “borghese” saremo scandalizzati in un’altra occasione, o forse ci basterà leggere la sinossi del film per percepire il giusto sdegno per la sua storia vera.

L’approche semble-t-elle simple qu’elle se révèle complexe. La lecture féministe est-elle évidente qu’elle se développe en corolle. Car si la foi de Madeleine en son pragmatisme est pour elle gage de liberté, la foi qu’elle découvre l’est peut-être tout autant. Les mots des soeurs résonnent d’autant plus en elle qu’ils se veulent rares et donc précieux. «Vingt-quatre heures de doutes, une minute d’espérance » ; « derrière toute joie, il y a la Croix »… Les dialogues se veulent d’autant plus percutent qu’ils transcendent la personnalité et l’évolution des personnages. Enfin l’universalité du propos se dessine tant à travers la situation « mère » abordée – le viol comme arme de domination et de guerre – qu’à travers les pluralité des portraits de femmes déterminées par leurs choix…



giovedì 8 dicembre 2016

La stoffa dei sogni – Gianfranco Cabiddu

l'isola dell'Asinara attira il cinema, pochi mesi fa Era d'estate, adesso tocca al film di Cabiddu, un bellissimo fondale, come dice il direttore del carcere.
Eduardo incontra Shakespeare e appare una strana creatura, a metà fra la realtà e la fiaba.
il film è fatto della stoffa dei sogni, non è un film entusiasmante, non avvengono fatti scioccanti, la tempesta iniziale è l'episodio più violento.
non succedono troppe cose, il teatro e la vita vera si sfiorano, per un po' di sovrappongono.
bravissimi gli attori, straordinario il pastore unico abitante e quindi re dell'isola, novello Calibano, già re in un altro film sardo (qui), che si commuove e commuove quando nel teatro dove si recita La tempesta partecipa come sa.
buona visione, poche copie in giro, in un mare della distribuzione che è come quello della tempesta, chissà se arrivi in sala.
buona visione - Ismaele






Se d'istinto la presenza di due mostri sacri come Shakespeare e De Filippo poteva far pensare a un'operazione squisitamente intellettuale, calcolata a priori - come capita in operazioni di questo genere - per sfruttare i vantaggi derivati dalla reverenza che pubblico e addetti ai lavori solitamente hanno quando si tratta di confrontarsi con un simile cotè culturale, al contrario la visione del film smentisce questa ipotesi: un po' perché il tono generale e in particolare quello adottato da Rubini per incarnare il suo personaggio rasenta la pochade (soprattutto quando si tratta di riprendere gli elementi più indisciplinati della sua compagnia), un po' perché a Cabiddu riesce ciò che di solito risulta la cosa più difficile da raggiungere che è quella di saper trasferire l'universalità dei classici, in un contesto narrativo coerentemente autonomo - e la "La stoffa dei sogni se lo crea in modo naturale - e con una forma cinematografica che avendo nel suo dna profili come quelli dei nostri due campioni riesce a scongiurare il pericolo di scadere nel cosiddetto "teatro filmato"; oppure di ricalcare schemi ultra sfruttati come quello della sovrapposizione tra arte e vita che le analogie tra i personaggi di finzione e quelli shakesperiani potevano in qualche modo autorizzare…

Il quarto protagonista in scena è il più tragicomico in assoluto: il pastore sardo Antioco, un Calebano arcaico che si esprime in una lingua comprensibile solo a se stesso, e ciò nonostante cerca continuamente il contatto umano con i gli "invasori" che hanno colonizzato la sua isola. In questo personaggio, magnificamente interpretato da Fiorenzo Mattu, c'è tutto il dolore di Cabiddu per lo stupro subìto dalla sua terra, e l'istante in cui la messinscena dà voce (in napoletano, come in inglese o in sardo stretto) all'ingiustizia di quella violazione è pura trasfigurazione teatrale…

Il film pecca di una eccessiva stravaganza, che rende le vicende spesso irreali. Come il fatto che in una nave viaggino contemporaneamente attori e persone scortate al carcere dell’isola dell’Asinara, oppure che si parli ancora di capocomico e attori itineranti. A ciò gli autori hanno rimediato spostando la vicenda nel dopoguerra, ma le trovate restano comunque poco attuali. E infatti i dialoghi continui, che si muovono in lunghe unità di luogo manifestano questa necessità di tessere il rapporto tra i personaggi tramite le parole piuttosto che le azioni.
A parte questa inconciliabilità, la storia procede con grande vivacità, quasi a raccontare che non si conosca bene chi sia a recitare e chi sia a dire la verità. Come nella vita. È un film raro quello di Cabiddu, mosso dalle onde dell’isola in cui è ambientato, senza timore della poca modernità…

…In un momento di crisi e di derealtà come quello che stiamo vivendo, dove l’istinto della gente sta orientandosi decisamente verso il teatro, e non c’è scuola, carcere, parrocchia, centro anziani, gruppo di malati, che non lo pratichino, in cerca di un antidoto, di una qualche forma di cura, un film come La stoffa dei sogni è un lusso che non bisogna permettersi di perdere, non un film di nicchia, ma un film per tutti. E c’è da augurarsi che le nostre orecchie, piene delle risate di commedie divertenti che fotografano una realtà deprimente, o assordate dalle esplosioni e dagli spari di film e serie televisive di successo – prodotti che danno finalmente una boccata di ossigeno a un’industria cinematografica in crisi da anni –, riescano ad ascoltare anche la musica sottile e senza tempo di questo film sofisticato e semplice, impalpabile come la stoffa di cui sono fatti i sogni.

,,,Cabiddu riesce a costruire un equilibrio ben modulato tra i luoghi e la loro bellezza, la luce e il colore del mare, mai sfondo ma sempre parte della narrazione che trovano voce nella figura di Calibano, il pastore, e nella sua ostinazione a difenderli dalle invasioni straniere. E il gioco degli attori, tutti sintonizzati con i loro ruoli, a cominciare da Sergio Rubini, sempre coi toni giusti per il suo Oreste Campese, il capo comico che chiede comunque rispetto per il suo mestiere. Che come questo film, al di là dei suoi racconti, dei suoi intrighi e dei suoi equivoci esprime una riflessione sul ruolo dell’arte e dell’artista, che è quello di essere nel mondo ma insieme di rivelarne l’essenza come quando il telone cade e la trama delle vite prende all’improvviso un’altra direzione.
E come il capocomico questo film rivendica la sua libertà di invenzione, di non esser perimetrato dentro il sistema dominante come quello stesso gusto «artigianale» con cui gli attori sull’isola fabbricano il loro palcoscenico e cuciono i costumi.
La stoffa dei sogni è un’opera fuoriclasse che le sue corrispondenze le fa affiorare nelle passioni del regista e non nelle mode o nei format di mercato, il teatro, i suoi «maestri», ma anche (forse soprattutto) l’immediatezza di un’improvvisazione che nasce da un lavoro lungo, attento, dalla ricerca e da idee non scontate.
Senza trucchi che non siano invenzioni: un vecchio libro con le illustrazioni della Tempesta, un continuo gioco come è essere in scena. È questa anche la capacità di riguardare ai «maestri», di farne propri gli insegnamenti senza cadere nella sola citazione o nella ripetizione di un modello. C’è qualcosa di commuovente in questo sguardo ma soprattutto l’energia di ricondurre dentro al teatro – e piú in genere all’immaginario – il mondo. Le sue leggende, il passato e il presente.