lunedì 7 marzo 2016

Fuocoammare – Gianfranco Rosi

due storie che non si incontrano, quella dei migranti e quella di Samuele.
l'isola è piccola, strano che Samuele non incroci neanche un migrante.
Samuele è un bambino che sembra uscire da un romanzo di Elsa Morante, cresce in uno stato di natura, di notte parla con gli uccelli, anche se vorrebbe colpirli con la fionda.
il legame è quello del dottor Bartolo, medico di Samuele e dei migranti.
la storia dei migranti è quella di questi poveri esseri umani che rischiano tutto per arrivare in Europa.
è vero tutto quello che dice il collettivo Askavusa (qui), nel film non si parla di quello che succede prima dell'arrivo di ciascuno, non si parla di politica, non si dice che un volo in aereo sarebbe più sicuro e più a buon prezzo per ognuno dei migranti, non si dice che le politiche migratorie dei paesi europei sono complici dei trafficanti e assassini di uomini.
ma il film non può dire tutto, e non possiamo far pesare su un film tutto il non detto.
dal punto di vista del cinema il film merita, secondo me, ma forse solo a metà, ci sono due documentari che restano separati e non si saldano in un film, o forse questo vuole dire il regista, chissà.
è in circa 80 sale, dopo aver vinto il festival di Berlino, ma non aspettatevi troppo, per non essere delusi - Ismaele






…Samuele è un ragazzino con l'apparente sicurezza e con le paure e il bisogno di capire e conoscere tipici di ogni preadolescente. Con lui e con la sua famiglia entriamo nella quotidianità delle vite di chi abita un luogo che è, per comoda definizione, costantemente in emergenza. Grazie a lui e al suo 'occhio pigro', che ha bisogno di rieducazione per prendere a vedere sfruttando tutte le sue potenzialità, ci viene ricordato di quante poche diottrie sia dotato lo sguardo di un'Europa incapace di rivolgersi al fenomeno della migrazione se non con l'ottica di un Fagin dickensiano che apre o chiude le frontiere secondo il proprio tornaconto. Samuele non incontra mai i migranti. A farlo è invece il dottor Bartolo, unico medico di Lampedusa costretto dalla propria professione a consatatare i decessi ma capace di non trasformare tutto ciò, da decine d'anni, in una macabra routine, conservando intatto il senso di un'incancellabile partecipazione. Rosi non cerca mai il colpo basso, neppure quando ci mostra situazioni al limite. La sua camera inquadra vita e morte senza alcun compiacimento estetizzante ma con la consapevolezza che, come ricordava Thomas Merton, nessun uomo è un'isola e nessuna Isola, oggi, è come Lampedusa.
da qui                                  

… Le immagini sono sempre terse e bellissime, il montaggio sapiente, il coinvolgimento dello spettatore ogni volta, nei due film a cui assistiamo, suggerito senza violenza, con pudore e rispetto. Ma si resta tuttavia con l’impressione di due diversi film che non trovano un accordo, neanche formale, poiché nell’uno prevale il documento (i migranti) e nell’altro il film, la ricostruzione, il copione, secondo un modello che possiamo ben giudicare neorealista.
Due film diversi nella forma ma anche nella sostanza? Perché questa scelta di due registri, uniti solo dall’accuratezza della veste? Per dire che la normalità italiana (qui non pessima, ma antica) ignora la diversità migrante? Molto più convincente del precedente Sacro Gra – dove il magistero zavattiniano dell’aneddoto significativo e quando possibile edificante era più scoperto – Fuocoammare mostra, mi sembra, un’incertezza di fondo in un regista di grande e vero talento, che potrebbe dare grandi cose se fosse più persuaso e profondo non tanto in ciò che concerne il cinema e il suo linguaggio quanto nel presente e nel modo di leggerlo.

Lo sguardo di Rosi è assolutamente neutro e asciutto (tutta la messa in scena di "Fuocoammare" è tra l'altro molto meno "ricercata" di quella di "Sacro GRA", dove abbondavano prospettive eccentriche e inusuali). Si tiene distante dalla retorica, anche (soprattutto) da quella dei buoni sentimenti. E riesce, ciononostante, a scuotere lo spettatore. Costringendoci a fare i conti con la realtà e con il nostro segreto impulso a rimuovere ciò che non vorremmo e non gradiremmo vedere, né conoscere. Che il Mediterraneo si sia trasformato in un cimitero ce lo dicono le fonti di informazione, ma i numeri restano numeri. Non viviamo a Lampedusa nei pochi minuti di un servizio televisivo come facciamo in questo film, che ci immerge nell'isola. E non vediamo, in televisione, quei morti di cui pure siamo a conoscenza. Ponendoceli sotto gli occhi, senza compiacimento autoriale, Rosi non fa che compiere allora la più necessaria, la più giusta delle scelte. Una scelta estetica che è una precisa scelta etica (e politica), in cui si racchiude il valore e l'enorme importanza di "Fuocoammare".

Tutto il film si svolge su due binari paralleli: la vita di un bambino figlio di pescatori, sofferente il mal di mare, appassionato di fionda e con un occhio pigro che deve curare portando una benda (ma proprio a quell’occhio che usa per la fionda e quindi adesso non ha più una buona mira) e la vita dei migranti, in arrivo spossati e distrutti, rassegnati a condizioni assurde ma anche a tratti pieni della stessa vitalità del bambino.
Rosi riesce sia a mostrare, senza alcun commento, qualcosa di nuovo riguardo all’argomento più abusato e rappresentato che ci sia (anche se in linea di massima rappresentato male, senza idee) di questi anni. Gli sbarchi di Fuocoammare sono totalmente inediti perché lo sono il punto di vista e i dettagli che vengono scelti. La realtà è uguale per tutti, il punto di vista no e questo Rosi lo fa valere in ogni inquadratura, con ogni stacco di montaggio tra le due storie. Per quanto paradossale, sembra che là il regista abbia trovato il lato più positivo e ottimista di quella che rimane una tragedia…



in operazioni come Fuocoammare il confine tra lecita denuncia e spettacolo della morte è sottile, e però in un caso come questo credo sia lecito correre certi rischi. Il film è i suoi migranti. Un medico che da anni si occupa di loro racconta di quali siano i problemi di cui soffrono. Ustioni da nafta, disidratazione, denutrizione. Come sul Titanic, ci sono tre classi sui barconi e sulle navi dismesse che li portano in Italia. Chi sta sul ponte paga di più: è perché ha più probablità di salvarsi in caso di naufragio. La quota scende di poco per chi sta appena sotto. Gli ultimi, quelli che pagano meno, stanno nella stiva, e spesso arrivano morti per asfissia, per il troppo caldo. Vediamo i soccorsi in diretta, poveri corpi ormai esausti recuperati dalle stive. Vediamo il centro di accoglienza. Vediamo le procedure di identificazione, quando l’identificazione è possibile. Vediamo come chi arriva è diviso per paesi di origine, etnie, religioni, e non c’è mescolanza tra loro, quella dei barconi non è una società multiculturale, ma di nette separazioni. I musulmani che pregano insieme. Poi il calcio, la vera lingua sovranazionale, il codice che tutti conoscono e che a tutti permette di comunicare, e naturalmente ognuno gioca sotto la propria bandiera contro altre bandiere. Questa è la parte buona di Fuocoammare, quella che lo rende importante e che potrebbe portarlo molto lontano. A convincere meno è il resto…

…Quello di Lampedusa è un territorio di circa 20 kmq con al suo interno un proliferare di radar (molti dispositivi sono presenti in doppia o tripla “copia” perché ogni corpo militare possiede le proprie unità di rilevamento), dispositivi per la guerra elettronica, basi e mezzi militari vari, con le connesse servitù militari. E proprio le servitù militari costringono gli ormai famosi lampedusani a non poter accedere a fette sempre più consistenti del proprio già esiguo schugghiteddu. Una militarizzazione che il grande circo mediatico, da anni orbitante famelico intorno all’isola, ha dimostrato di non prendere minimamente in esame o, quel che è peggio, di legittimare e giustificare come dispositivo necessario alle finalità umanitarie e di salvataggio: finalità cui le forze militari sarebbero, obtorto collo, costrette dalla “natura” dell’emergenza continua.
Dunque chi ha vissuto l’isola per più di un anno sa bene cosa voglia dire presenza militare a Lampedusa, fuor dai trionfalismi governativi, dalle autocelebrazioni dei vertici militari o dalla vuota fraseologia dei corrispondenti robotizzati dei tg.
Eppure una delle primissime immagini del film vede, entro una luce vespertina magistralmente carpita da chi ha curato la fotografia della pellicola, alcuni dei radar di Capo Ponente ruotare ipnotici intorno al proprio asse. Alla danza coordinata dei radar fa da sottofondo un audio – puntellato da sottotitoli onde levigarne il gracchiare incerto e precario – delle comunicazioni tra autorità italiane (Guardia Costiera? Centro operativo “Mare Nostrum”? Centro operativo “Triton”?) e una delle tante imbarcazioni in bilico tra le onde del canale di Sicilia. In chi non ha avuto modo di conoscere la realtà lampedusana e osservi il film, la rappresentazione che emerge dalla narrazione filmica implica il collegamento tra il possibile e auspicato soccorso dei migranti e il dispositivo tecnologico-militare che ad un tale scopo viene così riferito e conseguentemente legittimato.
Ma l’elemento militare diventa quasi protagonista lirico a se stante della struttura narrativa della componente documentaristica della pellicola di Rosi. Più volte è uno scafo color grigio-militare ad agire entro le riprese, a solcare le onde del maruso e a costituire un guardiano attento e reattivo pronto a sfidare le procellose avversità per salvare vite umane…
La parte più documentaristica dell’opera di Rosi si articola intorno ad uno storytelling sapientemente costruito intorno alle figure dei migranti, spesso proposte entro inquadrature molto ravvicinate e primi piani stretti e fortemente espressivi. Solo che la potente emotività che la maestria del regista è in grado di generare nello spettatore, non conferisce elementi di conoscenza a partire dai quali chi esce dalle sale possa dire di aver capito meglio quello che sta succedendo nel mediterraneo. Non si fa cenno critico alcuno al business dell’accoglienza. Al contrario, l’intera narrazione ne alimenta di fatto la legittimazione, poiché lo inserisce in uno schema binario entro il quale gioca il ruolo dell’antitesi unica alla morte in mare.
Lo spettatore non è portato a riflettere sul perché i migranti fuggano dalla propria terra; l’unica eccezione è forse rappresentata dalla sequenza struggente del canto dei migranti. L’episodio in questione (al netto del livello di negoziazione e di spontaneità che è possibile riferire ad una condizione quale quella di un centro di detenzione momentaneamente visitato da una telecamera), però, a ben guardare, si limita a dire che ci sono le bombe e le guerre, quasi che queste caschino dal cielo per disgrazia naturale, in questo confermando le concezioni mainstream per cui i migranti scappano dalle guerre e dalla povertà. Chi poi provochi guerre e povertà, quali scelte politiche ed economiche, quali poteri internazionali vi siano coinvolti, non è mai concesso poter approfondire…

da qui  (interessante leggere tutte le Considerazioni del collettivo Askavusa)


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