mercoledì 27 febbraio 2013

No – Pablo Larraín

in questi tempi elettorali questo è un film perfetto, e a volte, chi non ha risorse, ma trova le parole, può vincere.
bravo Pablo Larraín a rendere un'atmosfera di tensione, azzardo e spesso terrore, di fronte alla prevaricazione e alla forza brutale del potente.
bravi tutti, sopratutto Gael Garcia Bernal, che mi sembra sempre più un fratello di  Daniel Brühl, fragili, timidi, impacciati e fortissimi.
da non perdere - Ismaele



NO”se convierte en un golpe de aire fresco para el cine político. La película ofrece una forma de descubrir la estrecha relación entre política y publicidad en pos de la agitación de las masas en busca de un cambio social. Gael Garcia Bernal, en el papel de Saavedra, y el reparto que le acompaña, ofrecen una interpretación sólida y muy realista. Altas dosis de humor y un guión inteligente completan las claves de una película que ya forma parte de las perlas del Zinemaldia.

Dal punto di vista formale No è una perfetta simulazione di film anni '80: aspetto anticato, formato in 4 :3 che è esteticamente di rottura rispetto a tutto quanto venga girato oggi, un sollucchero il dietro le quinte degli spot pubblicitari , la loro costruzione in studio e in esterni.
Tutto questo però non nasconde il terrore che si respira ad ogni momento , l'atmosfera di tensione esacerbata dai mille e mille occhi che sembrano continuamente controllare ogni mossa di chi sta lavorando alla campagna pubblicitaria.
Stavolta il regime è catturato in tutta la sua brutalità non nelle strade ma nelle stanze dei bottoni dove si cerca di manipolare la coscienza di una nazione, uccidendola.
E uccidere le menti è come privare i corpi di vita.
Candidato all'Oscar 2013 come miglior film straniero.

hay una brutal desmitificación de los resortes propagandísticos de la política como institución, que lleva el asunto de las ideologías a los límites del absurdo y a auténticas situaciones descacharrantes. Por ejemplo, la izquierda con su nulo sentido del humor y su exagerada gravedad y dogmatismo cuando se les propone un discurso que conecte mejor con la ciudadanía. Un retrato de la izquierda, franqueada en diversas fracciones casi irreconciliables -impagable lo del arco iris- que nos recuerda a como la reflejaba Paolo Sorrentino en clave italiana mediante su fabulosa sátira Il divo (2008). Y la derecha militar, bueno, no hace falta hacer mucho para que ellos mismos queden retratados en su patetismo y ridiculez, ¿no? Aquí es donde Larraín tiene más fácil nuestra complicidad y los resultados están a la altura de la absoluta genialidad con momentos auténticamente delirantes cuando se enzarzan en las contracampañas o réplicas de anuncios. Por cierto, René tampoco se salva, porque es innegable que se le va la mano con sus anuncios, recordemos el apunte glorioso de su obsesión por insertar imágenes de mimos en sus trabajos…

Certo, non si tratterà di un Capolavoro, o di una pellicola destinata a cambiare la Storia - della settima arte e non -, ma a volte si sente davvero il bisogno di qualcosa che sia "operaio" davvero, e mostri quanto, da uomini e donne liberi, sia importante esprimere il nostro punto di vista, il nostro diritto ed il nostro dovere di conquistare il quotidiano con il cuore, la testa e l'esercizio dell'essere animali sociali…

la publicité est surtout utilisée à des fins politiques, comme enjeu de démocratie. Celui qui l’incarne c’est René Saavedra (remarquable Gael García Bernal) qui appliquera ses méthodes publicitaires quotidiennes pour faire gagner le « Non » face à Pinochet. Sa stratégie ? La vision d’un avenir meilleur, l’assurance du bonheur avec ce slogan : « Alegria viene (Happiness is coming) ». L’homme avait compris comment utiliser le système néolibéral mis en place par la dictature pour mieux se l’approprier et en faire une promesse électorale. Avec Saavedra, le changement, c’est maintenant!

Sería fácil lanzar una tesis ideológica desde esta película, porque es claramente la intención de sus creadores obligar al espectador a tomar una posición política y calificar las imágenes, decidiendo si realmente se ganó o se perdió. La única certeza que aporta el film es la ridiculez de la campaña del SÍ, que roza el paroxismo. La trampa, en ese sentido, es presumir que el desenlace puede ser leído sólo desde la tribuna de los triunfadores. Ya con 24 años de ventaja, cada uno sabe quién ganó y quién perdió en ese histórico 5 de octubre. El metraje y las imágenes que contiene, pueden reafirmar (o echar por la borda) esa presunción. Sin embargo, es obligación de nosotros, los espectadores, elaborar una lectura y enjuiciar esta historia, que no es más que la paradójica historia del Chile actual.



martedì 26 febbraio 2013

Kiseki - Hirokazu Koreeda

due bambini che non si rassegnano a stare divisi, dopo che i genitori si sono separati, sono i protagonisti, insieme a molti altri, che cercano un miracolo, quello di soddisfare i loro desideri, piccoli, quelli che da bambini tanti hanno (abbiamo) avuto.
e il film è girato in modo così naturale che la storia non stupisce, pur essendo straordinaria.
solo vedere i due bambini recitare vale il piacere di spendere due ore, promesso - Ismaele



…Il film, il cui titolo in giapponese significa “miracolo” e che è stato tradotto in “I wish” per evitare letture erroneamente religiose, riguarda innanzitutto, appunto, la forza magica, evocativa del desiderare, piuttosto che non il risultato in sé. I bambini desiderano fortemente, chi di far rivivere il proprio cane morto, chi una carriera da ballerina, chi, come i due fratellini, la ricongiunzione della famiglia. La forza del desiderio dei bambini si tinge quasi di sacro nel film di Koreeda e viene infatti rispettata e sostenuta dai componenti di quell’altro “mondo” che è in grado di riconoscerla: quello degli anziani (il nonno dei due si farà parte attiva per assicurare che i bambini riescano a partire). Kiseki è la rappresentazione di mondi che si confrontano, ma che agiscono, si muovono e  provano emozioni in modo differente: i cosiddetti adulti - la madre e il padre dei due fratelli per esempio - vengono rappresentati allo sbando, feriti da desideri ormai frustrati e incapaci di reagire in modo costruttivo…

…allora il mondo visto con gli occhi dei piccoli protagonisti diventa un microcosmo dove sono cadute le certezze, dove il pilastro di una società tradizionale è collassato sotto i colpi dei tempi, dove la famiglia smembrata diventa un fattore scatenante per disagi e rimorsi.
Il tono scelto dal regista, a tratti brillante, non deve ingannare: sotto la scorza scorre implacabile il dramma, reso ancora più grave dal coinvolgimento dei ragazzini, che va a congiungersi idealmente con quello narrato nel capolavoro di Hirokazu Koreeda , Nobody Knows.
La regia, come sempre elegante e stilisticamente perfetta senza mai esser però puro formalismo sterile, nasconde anche qualche pecca che il film possiede, come un certo incedere un po' balbettante in alcuni momenti, ma comunque la pellicola si inserisce a pieno titolo nel discorso cinematografico intrapreso dal regista, che mostra una assoluta coerenza.
Sia chiaro, siamo distanti dal capolavoro che già Koreeda ci aveva regalato e anche i ritmi sui quali è giocato, lo rende sicuramente più apprezzabile ad un pubblico più vasto, ma tutto ciò non va a discapito della qualità cinematografica della quale il regista giapponese ha già dato numerose e convincenti prove.
La banda di ragazzini interpreti con la loro bravura e spontaneità surclassa e mette in un angolo anche i grandi nomi presenti, quali quelli di Joe Odagiri , Hiroshi Abe e Nene Otsuka e conferma la bravura di Koreeda, perfetto anche nella direzione di un cast siffatto.

…Con un ritmo lento (que no aburrido) y unos diálogos sencillos y escuetos (que no vacíos) Kore-eda construye una historia en la que es palpable está disfrutando en todo momento con cada plano y escena y en la que los niños protagonistas nos permiten hacernos partícipes de su sueño y nos arrastran hacia un maravilloso mundo de la misma manera (aunque con otro estilo) que hiciese Spike Jonze con su fantástica “Donde viven los monstruos”. Todo un ejercicio de cine artesanal y de amor por la historia, los personajes y la manera en que todo se desliza con suavidad, sencillez y muchísima humildad.
Un conjunto ameno, donde se aprecia la mano de un cineasta con talento que nos regala un producto altamente entretenido y especialmente delicado.
Todo un ejemplo de maestría oriental. 

…Si le récit est une nouvelle fois centré sur des enfants très imaginatifs (ils vont jusqu'à suggérer de vendre le chien pour financer leur plan !), les adultes ne sont pas en reste pour apporter leur aide, se remémorant au passage leurs propres souvenirs de jeunesse. Parmi les âmes charitables rencontrées, on notera un grand-père qui n'est pas dupe, une infirmière complice, une grand-mère dont la fille est partie... Toute une galerie de personnages qui donnent de la chair à cette tendre histoire de famille. Bouleversant, généreux, drôle, bourré de bons mots et de séquences inattendues, « I wish » sera certainement l'un des grands films de l'année 2012.

…No hagan caso a los cínicos y a los amargados. Me enerva que una película de tales características se trate con desdén; comentarios que muchas veces dejan más en evidencia a quien lo afirma que al film en sí. Posiblemente vivimos una era de ficciones con exceso de emociones. Acabamos saturados ante tal digestión, fruto del abuso al que estamos expuestos; dramas mal canalizados, deformados y excesivamente enfáticos que nos imponen lo que debemos sentir. Muchas veces se simplifican en exceso, se fuerzan las tornas, nos agota la fácil confusión entre lo sentimental y el sentimentalismo. Esto impone una sobrecarga y nos hace ponernos a la defensiva.
Pero Kiseki es como el pastel de karukan que hace el abuelo de los pequeños protagonistas. Parece que es insípido pero hay que dejar que pase el tiempo para encontrar su sabor, tal como le dice su nieto (da igual que el niño se lo diga para no herirle). Los amigos del abuelo le dicen que debería rellenarlo y tintarlo de rosa, para que sea más atractivo. Y el abuelo se niega en redondo. Él prefiere seguir fiel a sus principios. Es fácil ver como Kore-eda se está personificando a través de su personaje, porque bien puede servir el pastel de karukan como axioma para su cine, en su negación de confundir lo íntimo con lo obsceno, algo que con frecuencia solemos encontrar en la televisión. Porque Kiseki recupera la infancia como el territorio sagrado de los buenos y reconfortantes sentimientos, pero lo hace con una sensibilidad y delicadeza que nos hace sentir el film como muy verdadero.


sabato 23 febbraio 2013

Rebelle (War Witch) - Kim Nguyen

non è un film a tesi, i legami durano stagioni, e finiscono troppo spesso in modo violento, ci sono bambini e bambine che crescono troppo in fretta, e spesso muoiono giovani, uno di quei film necessari per "noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo e visi amici".
candidato all'Oscar per il miglior film straniero, è un film che non si fa dimenticare, è una promessa, non una minaccia - Ismaele



…Girato in Congo perché la protagonista, una ragazza che vive in strada e che ha vere doti da attrice consumata, è congolese, le riprese sono state effettuate in continuità permettendo al cast e alla troupe di entrare in progress nella vicenda. Ne è scaturito un film carico di dolore e di violenza gratuita non per quanto si vede sullo schermo ma per quanto si sa essere accaduto nella realtà, consapevoli che la pratica di utilizzare bambini per i combattimenti più efferati non ha ancora avuto fine. Nguyen ha saputo però preservare, nel buio della brutalità, la luce, flebile ma non destinata a spegnersi, della speranza. Senza falsi pietismi, aderendo alle credenze della cultura locale, il film ci dice che si può trovare la forza di pacificarsi, anche se con dolore, con il proprio passato. Per poter continuare a vivere e a dare senso alla vita altrui.

Rebelle è un piccolo gioiello, un lungometraggio di appena novanta minuti, eppure denso di significati, diretto, delicato: Nguyen sfugge a una rappresentazione esclusivamente cupa della realtà, evita fastidiose derive patetiche e tratteggia dei personaggi che traboccano energia vitale, amore e/o odio, passione, paura, coraggio. Accompagnato da una splendida colonna sonora, composta da canzoni angolane degli anni Sessanta, e diviso in tre capitoli (12, 13 e 14 anni: l'età di Komona), il film regala molte sequenze emotivamente incisive ma mai ridondanti, mai retoriche: la   parentesi gioiosa della ricerca del gallo bianco, simbolo di un amore puro, il ritrovamento del pettine e della camicia, il passaggio sul camion e il significativo scambio di battute “non ho soldi”, “nessuno ha soldi”. La bellezza di Rebelle è tutta nel volto candido di Rachel Mwanza e Serge Kanyinda, nelle mani grandi di Ralph Prosper (Boucher), nell'immagine del camion che si allontana: cinema che vuole raccontare, che non si piega alla sterili derive di molte produzioni incatenate mani e piedi ai festival.

…La piccola Komona, reclutata dopo il massacro del suo villaggio, riesce a fuggire dall’esercito dei ribello insieme a Mago, un coetaneo, e a soli 12 anni diventa sua moglie. A 14 è vedova: il ragazzino è sgozzato sotto i suoi occhi perché si opponeva a che lei venisse riportata al campo per diventare la moglie del capo. Si ritiene che Mago abbia poteri sovrannaturali, perché è albino, e che Komona, detta la “maga di guerra”, grazie alle sue visioni (causate forse dalla droga, forse dalla paura) porti fortuna in battaglia. Per questo il capo elimina lui e prende Komona come sua moglie. Incinta di quest’ultimo, riesce a ad ucciderlo per fuggire di nuovo, verso il suo villaggio, per dare sepoltura ai pochi resti che ritrova appartenuti ai suoi genitori massacrati. Il film è di un pathos impressionante e di un realismo tragicamente autentico…

…Rebelle, a sorpresa, non è un film che ci sbatte la miseria della vita della giovanissima protagonista in faccia. Ci accompagna insieme a lei a scoprire una realtà terribile. Una realtà in cui i bambini, se va loro ancora bene e non vengono subito uccisi, sono presi dai loro villaggi, addestrati per diventare soldati macchine da guerra killer spietati, e costretti a uccidere o a essere uccisi fin dalla più tenera età, senza molte possibilità di miglioramenti sostanziali in vista per quanto riguarda il futuro. Il massimo a cui si può ambire è quello di diventare stregoni o streghe di guerra. Che culo.
Rebelle ci parla di questo, ma non è un documentario di denuncia. È un’opera cinematografica con un occhio vicino al naturalismo di Terrence Malick e che si/ci concede lampi visionari di una bellezza assoluta. È questo ciò che trasforma un personaggio dalla vita incredibile con una storia fortissima in un grande film…

giovedì 21 febbraio 2013

Promised Land - Gus Van Sant

appena l'ho visto ho pensato che è un film inoffensivo e retorico, adesso che ne scrivo ne penso peggio, capisco che è un film indirizzato a Obama, perché non dia autorizzazioni per il petrolio in Alaska, o altre estrazioni negli Usa, ma bastava una lettera ben fatta, Michael Moore fa bei film e belle lettere, separatamente.
gli attori ci mettono mestiere, ma non convincono, tutto prevedibile, solo un piccolo colpo di scena, andava bene per un film di un principiante, ma da Gus Van Sant mi aspetto sempre molto, peggio per lui che ci ha abituati così.
insomma, se proprio vi ci portano andate a vederlo, ma vi propongo un alternativa, Local Hero, del 1983, musiche di Mark Knopfler, con un grande Burt Lancaster, fra gli altri, le tematiche sono simili, è un piccolo capolavoro che batte "Promised Land" 10 a 1, promesso, se vedete entrambi i film mi direte- Ismaele




Questo apologo esemplarissimo è di una correttezza ecologico-politica e di uno schematismo insostenibili, con predica e messaggio che ci vengono inoculati a ogni scena. Matt Damon ha la faccia del bravo americano, ma non ce la fa a infondere un fremito seppur minimo al suo personaggio, non ce la fa proprio a chiaroscurarlo e dargli un minimo di spessore. Fisicamente è ormai un omone inquartato, e l’agilità di Bourne sembra irrimediabilmente lontana. Gus Van Sant gira con quella naturalezza e quella confidenza e vicinanza con i personaggi che gli conosciamo, ma non basta a salvare questa edificante predica…

L'ambiguità di fondo sta proprio in questo: Steve che porta in questo paesino il verbo del gas naturale sottacendone i rischi si fa molti più scrupoli rispetto a un personaggio come quello di Dustin, ambientalista apparso dal nulla come un cavaliere senza macchia e senza paura ma che,  pur di ottenere il suo scopo, non esita a utilizzare mezzi scorretti e provocazioni.
E questa ambiguità è ben radicata nel film almeno fino al twist di sceneggiatura che rimette tutto in gioco e che incanala verso un finale in cui la maturazione del personaggio di Steve  viene spiegata col solito pistolotto hollywoodiano( con annessa deriva sentimentale rimasta sospesa a mezz'aria per tutto il film)  che cerca di blandire tutte le anime nobili scosse da tutta questa botta di scorrettezza politica.
Perchè non mantenere fino in fondo l'ambiguità di un personaggio come quello di Steve, una volta risolte le contraddizioni apparenti di tutti gli altri personaggi in campo?
Ecco il finale è forse la parte meno efficace di un film che comunque ha una sua armonia, probabilmente il buonismo dilagante  ha fatto contrarre dal dolore anche le budella di Van Sant mentre lo stava girando.
Ma qui siamo a Hollywood, bellezza!...

…Una storia già vista, quella di Promised Land, eppure raccontata tremendamente bene. Una storia di quelle di cui non so voi, ma io sento il bisogno, oggi come oggi in cui tutti sembrano disposti a tutto per i soldi: uccidere, uccidersi, credere di nuovo alle promesse di un piazzista politico e alle sue lettere.
So già che qualcuno accuserà questo film di essere buonista e moralizzatore, e di avere un finale troppo leggero ed happy…

Promised Land è pertanto un film tanto scorrevole e leggero nell'aspetto quanto complesso nel suo sottotesto; c'è infatti da dire che se il pubblico italiano potrebbe trovare il tema di fondo un pò deboluccio, un americano non può non cogliere la messa in discussione di un  concetto di purezza (ambientale come etica) tanto caro alla cultura nordamericana, purezza come idea fondante che l'americano ha della sua terra promessa…

…Tierra prometida es olvidable, superficial e incluso prescindible. Es una pena porque el tema que trata podría haber dado mucho más juego, dada su relevancia y las decisiones a menudo complejas a las que puede llevar. Pero el propio Damon y su compañero John Krasinski (que también actúa en la película) han tomado una decisión más bien sencilla: escribir un libreto y llevarlo a la pantalla de la forma más directa posible. El único rodeo que se aparta de la mencionada previsibilidad afecta a una subtrama de cierta importancia para la principal, donde el giro sí funciona con mayor efecto…

mercoledì 20 febbraio 2013

Samson and Delilah - Warwick Thornton

opera prima, film di silenzi e immagini, una storia di emarginazione e riscatto finale, protagonisti gli aborigeni australiani, poveri e disperati, senza niente da sperare.
i due protagonisti, dai nomi biblici, provano a prendersi cura l'uno dell'altra e l'una dell'altro, in un mondo terribile, infernale, al sole.
il ragazzo non parla, se non qualche suono con un disperato bianco che vive sotto un ponte, in una cittadina del benessere, si corre, si va nei bar, grandi supermercati, ma non per i rifiuti della società.
ti affezioni ai due ragazzi, promesso - Ismaele

PS: sconsigliato a chi ama solo i film con ritmi alla Tarantino.




Samson and Delilah is a terribly sad and touching tale of an Australian aboriginal boy and girl. The film, which won the Caméra d'Or award at Cannes for the best first feature, and "golden camera" suits its warm, luminous images, has a long downward trajectory that rights itself just in time toward the end. There is the comfort of a moment of mild hope when the teenage couple settles, after desperate times, in a remote Outback location. We leave them at peace, the girl returning to her craft of making paintings for sale to Alice Springs galleries, the boy attempting to end his substance abuse. A romantic song declares that they will always have each other, thus underlining that this is not a tract or horror film but a love story, and that a cinema of identity is also a cinema of hope. Songs are well used, and so is light. Thornton shows a sure touch and knows how to tell a story, conveying clear messages in long wordless takes that draw you in and grab your heart…

…Tangible, recognisable, sometimes terrible truths about the human condition drive this film's aching heart, in which few words are spoken but much is communicated. Warwick Thornton's film is a searing dramatisation of how he sees his world in Central Australia, and despite its bleak, agonising riffs, it carries the wings of hope. Hope for salvation from the shattering harshness of life for some of us. Us, of course, is meant in a humanistic way; I don't pretend to be a part of the specific world represented here. But having seen the film, at least I have some insight - better than I had before.
Much of the film is an exploration for the audience; revelations large and small come as minor climaxes, and our engagement is driven by the performances, the structure and the simple honesty of the storytelling. It's marked by the absence of judgement and the presence of understanding - that is not to be confused with condoning…

…Sans aucun artifice, Thornton nous décrit la manière de vivre du peuple du désert australien sous-représenté dans la production audiovisuelle. On y apprend beaucoup de choses sur les aborigènes, leurs coutumes et leur style de vie. La première moitié du film pose lentement la situation d'une communauté rudimentaire et précaire, très loin de l'opulence occidentale. Cette partie demeure assez pénible à suivre, car elle se veut très contemplative et silencieuse. C'est lorsque les deux protagonistes s'exilent vers la ville que le long métrage se révèle beaucoup plus intéressant. Thornton y montre avec minutie ce mépris qu'ont les "Wasp" par rapport à ce peuple dont la terre fut volée par les colons. Ainsi, Samson et Delilah se retrouvent à l'écart, à l'image du clochard avec lequel ils vont camper…

Warwick Thornton, al suo primo lungometraggio, realizza un sincero e sentito film indipendente su una storia d'amore adolescenziale nel cuore del deserto australiano, in una comunità aborigena nei pressi di Alice Springs. Peccato che l'integrità di intenti e l'urgenza narrativa non sopperiscano a uno stile un po' anonimo che rende il film a tratti incolore, col rischio di cadere nel facile (magari frainteso) pietismo…

…El director novel Warwick Thornton apuesta por contar esta historia prescindiendo prácticamente de diálogos y plasmarla con una magnífica fotografía. Y logra mostrar su guión de una forma meritoria, ya que aunque está llena de silencios y presenta un aparente ritmo pausado, la película nunca parece que se ha perdido y siempre sabe mantener la atención del espectador. Sus dos actores protagonistas, pese a su aparente inexperiencia, llevan el peso del filme sobre sus hombros con vigor y solidez…

Samson and Delilah e’ il primo lungometraggio dell’australiano Thornton, accolto con scrosci di applausi alla proiezione in sala Debussy. Le ingenuita’ che possono accompagnare le opere prime sembrano qui sfocare nella rocciosa onesta’ dello sguardo del regista, innamorato dei suoi protagonisti, dei contrasti fortissimi tra i colori del cielo notturno e quelli della terra e del fuoco e della pelle, e della fusione tra essere umano e natura veicolata da istantanee penetranti, come quella dei ciocche di capelli di Delilah che cadono a forbiciate sul terreno dopo la morte della nonna. Uno sguardo diretto, al di sopra di ogni sospetto, che allo stesso tempo riflette creativamente, con buoni risultati visivi, sull’amore adolescenziale e sulla ghettizzazione delle popolazioni native. Tutto questo facendo leva su una rarefazione narrativa pressoche’ totale. Se questa e’ la strada imboccata, Thornton probabilmente fara’ ancora parlare di se’. 

lunedì 18 febbraio 2013

Zero dark thirty – Kathryn Bigelow

per certi è più importante il viaggiare dell'arrivare.
così sembra per Maya, che dopo il raggiungimento dell'obiettivo, entrerà in una depressione post-parto.
Jessica Chastain è l'anima del film, che a me sembra una versione "sporca" di "Argo", anche "Zero dark thirty" è un'americanata davvero ben fatta, in cui vincono i "nostri".
Jessica Chastain è come un Achab alla caccia di Moby Dick.
un film che dura due ore e mezza senza annoiare è da non perdere, promesso - Ismaele



…La Chastain è oro puro che si lascia modellare ad immagine e somiglianza della regia bigelowiana, che si adatta con dignità e delicatezza al suo ruolo, al tipo di film e al tipo di regista-carro armato che la riprende. 
E' così fragile, bella e triste da essere lei, solo con la sua fisicità e il suo sguardo, l'elemento morbido e commovente di Zero Dark Thirty, il cuore rosso di un film dal contenuto nero e duro.
Inutile parlarne ancora: Zero Dark Thirty è un film-colosso imprescindibile, da vedere con la giusta predisposizione d'animo e senza guardare l'orologio. Il suo potere è così forte che vi ritroverete in un attimo, senza rendervene conto, in religioso silenzio. 

…”Zero Dark Thirty” is no more a glorification of torture than Melville's “Moby Dick” is a defense of the brutality of whaling
Some will see the sheer force of this set-piece as the epitome of fascist wish-fulfillment. Yet that reading is too easy, eschewing both the banality of the execution--the SEALs call out their prospective target's names before firing, in an eerie moment of mutual recognition that recalls Ben Wheatley's Kill List--and the profound alienation of spectators who don't want to go along for the ride. "I got Ibrahim through the door," one SEAL tells his colleague, but of course we know that, having already assumed his perspective. The strength ofZero Dark Thirty lies in the discomfort of that payoff and the coda that follows, where Maya effectively gets the trophy to cap her counter-Jihad, only to be flown back home on another mission, as ambiguous and imprecise as the last one.

…L’attrice americana fornisce infatti una interpretazione magistrale, grazie alla quale gli autori riescono a caratterizzare un personaggio complesso pur concedendo pochissimi momenti di introspezione: basta uno solo sguardo per raccontarne speranze, emozioni e paure. Maya è solo una delle tante donne che hanno un ruolo cruciale nell'individuazione di Bin Laden, e riesce a portare a termine l’obbiettivo grazie ad una ostinazione e ad una caparbietà che sembra mancare a molti dei virili personaggi che la circondano: questo è forse l’unico messaggio veramente politico che Kathryn Bigelow cerca di mandare con il suo ottimo film.

Si l’histoire est intelligemment exploitée, elle est également filmée avec génie. Bigelow alterne mise en scène nerveuse et temps calmes, dans un cinéma du réel poussé à son paroxysme, dont elle maîtrise tous les codes. Chaque plan est ainsi une leçon de cinéma, la palette de la cinéaste ne semblant soumise à aucune limite, son talent transpirant de la pellicule jusqu’à la scène époustouflante de l’assaut final. Dans le silence absolu, aucune musique extra-diagétique ne venant interférer avec l’action, elle filme ces soldats avançant dans la pénombre comme personne. À leur image, chaque mouvement est méticuleusement calculé, rien n’est laissé au hasard. En chef d’orchestre, elle alterne alors plans larges, plans subjectifs, gros plans, plans-caméra à l’épaule dans une mise en scène brûlante, au suspense haletant en dépit d'une connaissance universelle de l’issue du raid. Plus que le récit d’une traque, « Zero Dark Thirty » est un pan de l’Histoire américaine. Si certaines parties sont plus romancées que d’autres, ce choix s’explique par la volonté inconditionnelle de la réalisatrice de confronter la violence et leurs auteurs, faisant poindre en arrière-plan une critique subtile des agissements des forces armées, mais délaissant les revendications moralisatrices. Sur un rythme effréné, la cinéaste nous emmène dans les entrailles de l’armée américaine, au cœur d’une sombre violence dont nous ne sortirons pas indemnes. Un voyage vertigineux!

domenica 17 febbraio 2013

Viva la libertà – Roberto Andò

quando c'è Toni Servillo, con l'aggiunta di Valerio Mastandrea, come non andare a vedere quel film?
non ne sapevo niente, mi ha fatto sorridere, e anche ridere, e poi pensi che se il segretario del partito che, forse, vincerà le elezioni, anziché citare Brecht cita le battute di un comico che, giustamente, lo prende in giro, io preferisco Toni Servillo.
non perdetelo, non è perfetto, ma è un bel film - Ismaele




Si parla di politica, ma dentro il baule di Andò c’è molto altro: il cinema, la giovinezza, le donne, l’amore, la filosofia, la letteratura, solo per dire alcuni ingredienti. Il tutto, supportato da un cast impeccabile, anche per i personaggi secondari, tra cui spicca un Valerio Mastandrea sempre più versatile. La sceneggiatura di Andò e Angelo Pasquini ci propone una sorta di favola, come quando da piccoli si gioca iniziando con la formula “facciamo finta che…?”. Come in tutti le favole si ride e si riflette e si esce dal cinema soddisfatti a patto che ci sia lasciati un po’ sorprendere e che si sia stati al gioco.

questo è un film chiaramente zavorrato dal suo programmatico impianto allegorico; che forza spazi e tempi scenici per (di)mostrare un pensiero; dominato da un Servillo scisso nel doppio ruolo che intasa un po’ troppo lo schermo con la sua istrionica presenza. Ma, nonostante tutto, Viva la libertà (grido di pasolinana memoria) è un film che vive di una sua intima e bizzarra energia: la riscoperta del valore etico delle parole, del potere insito in esse quando sono connesse a un sentire. “Le parole sono importanti” diceva Michele Apicella qualche anno fa… Ecco, in fondo non è nient’altro che un auspicio il film di Roberto Andò. Una sincera speranza al di là di qualsiasi strumentalizzazione...: riscoprire un passato condiviso, riattivare passioni sopite, accettare le (proprie) tante identità per raggiungere la leggerezza. Quella paradossale leggerezza del guardare dritto in faccia la catastrofe.

Il doppio si presta benissimo e in maniera funzionale ai molti parallelismi che il film crea tra i suoi vari mondi a confronto, quello di Oliveri e di Ernani, quello del cinema e della politica, quello di Roma e di Parigi, quello tra il registro ironico e quello esistenzialista ed eminentemente drammatico, servendo a dovere un film ottimamente scritto e ulteriormente impreziosito dal ‘fattore Servillo'. Eh già perché che piaccia o meno, la capacità di Servillo di accentrare film e strutture narrative attorno alla sua formidabile presenza drammaturgica rende ogni cosa più chiara, essenziale, intuitiva

Complessivamente invece, pur riconoscendo il livello della confezione, e l'impegno profuso tanto nella qualità della componente attoriale, quanto nella precisione della messinscena, non si può non notare una semplificazione eccessiva nelle psicologie dei personaggi, e più in generale nell'apparato teorico della storia, presente in maniera esaustiva nel libro, ed invece carente nella trasposizione filmica. Una riduzione che conferisce all'opera un senso d'approssimazione ed una consequenzialità aprioristica, calcolata invece che spontanea. In questo senso è illuminante la decisione finale di Olivieri, quella che decide le sorti della vicenda, la cui resa oltre alla sensazione di non essere supportata dal necessario bagaglio emotivo, sembra sciogliersi con un fare nebuloso, e con una motivazione figlia più del desiderio di chiudere il cerchio che di spiegarlo. Da questo punto di vista risulta migliore, anche se un po' troppo compiaciuta (ci riferiamo ai vezzi ed ai tic rivelatori di una latente follia) , la figura di Ernani, almeno lui, estrinsecato come si conviene ad un fool della sua portata. Favola filosofica che indaga sui mali di un paese in agonia, "Viva la libertà" non mancherà di stupire per l'irridente scherzosità di certi passaggi, fatti ad arte per ironizzare su una classe politica che si copre di ridicolo (anche il presidente della repubblica non viene risparmiato) ma rimane forte l'impressione dell'ennesima occasione mancata.

Non si può che elogiare per la sincerità e le emozioni che trasmette Valerio Mastandrea, che in Andrea Bottini,  il fibrillante “secondo” del segretario dell’opposizione  Enrico Oliveri, in fuga momentanea per i sondaggi negativi e poi del fratello gemello Giovanni Ernani, depresso bipolare, subisce una metamorfosi dal cinismo alla speranza, attraverso mille espressioni mimiche e  gestuali che lo accostano sempre più al secondo; lo stesso vale anche per i contributi di  Michela Cescon, solida moglie di Enrico e Valeria Bruni Tedeschi, recuperato, per l’occasione, ex amore di gioventù di ambedue i fratelli. Splendido cameo del grande Gianrico Tedeschi. E poi c’è Toni Servillo, in agio felice nel doppio ruolo dei gemelli, come tutti gli attori specie se grandi, dove esprime la cupa depressione ansiosa del politico in crisi e la contagiosa euforia del gemello filosofo pazzo che incute speranza con citazioni colte e indimenticabili per la loro bellezza, come i versi di Brecht, o balla felice più con i suoi amici della clinica psichiatrica, in cui è stato ricoverato e va a trovare, che con una simbolica cancelliera tedesca visto dal buco della serratura, con una maestria ormai mitica, che si esprime più che nelle differenze nelle affinità che li rendono indistinguibili e allora …al ritorno di Enrico, chi sarà dei due? Buona visione di un film notevole.

La sua è un’operazione intellettuale (ovverosia snob) colma di vuoti, che non si possono riempire con raffinati e potenti contrappunti musicali insensati (perché paiono rivenienti da - e destinati a - altri lavori più consoni), con siparietti tutt’al più ingenui (il valzer con la cancelliera tedesca; le manie da rain man del Servillo versione gemello fuori di testa; Andrea Renzi che imita D’Alema), con elogi di follie, concetti "rivoluzionari" come la passione, ed elargizioni una tantum di simboliche figure storiche “giuste” (Fellini, Berlinguer).
La pretenziosità dilaga e obnubila; qualsiasi riflessione il film spera di suscitare (compreso il finale "enigmatico") viene affossata dall’evidente autocompiacimento e distacco. A guardare le cose dall’alto e da dietro i paraventi dell’autoreferenzialità e dell’intellettualismo chic non se ne percepisce la consistenza, la grandezza, la precarietà.
E gli attori non salvano la baracca, anzi: un Toni Servillo poco convinto (ed ancor meno convincente) anima due gemelli distinguibili solo dal cambio di ambientazione e partner; Valeria Bruni Tedeschi risulta oltremodo irritante e falsa; Anna Bonaiuto pare capitata sul set per sbaglio e comunque le viene dato un peso irrilevante; Mastandrea ha la solita espressione minimal-frustrata buona per ogni esigenza.
Quella dello spettatore, a seguito della visione di Viva la libertà, è di dimenticarsene quanto prima.

sabato 16 febbraio 2013

Iklimler (Il Piacere e l'Amore) - Nuri Bilge Ceylan

una coppia che tramonta, immagini bellissime che valgono mille parole, i  dolori di Isa e Serap li conosciamo benissimo, cose che capitano a noi o a qualcuno che conosciamo, Isa e Serap sono noi.
i film di Nuri Bilge Ceylan sono dei (piccoli e grandi) gioielli e anche questo è da non perdere - Ismaele



La forma filmica è piena di senso: dal campo lungo al primissimo piano, passando per una varietà di stadi intermedi, Il Piacere e l'Amore ci racconta la posizione di un personaggio rispetto all'altro, senza bisogno di parole, con le sole armi del cinema. Esemplare, in questo senso, è la sequenza del brusco amplesso tra Isa e Serap, l'amante, che li spinge dal divano fino quasi ad uscire dallo schermo e ad urtare la macchina da presa o il momento in cui Bahar e Isa si fronteggiano dai lati opposti della strada, di nuovo insieme, nella stessa immagine, dopo aver cercato invano la separazione.
A questa profondità (di campo) si associa un racconto dilatato e persino leggero, senza angosce ma senza semplificazioni, a tratti venato di sottile comicità, come nella sequenza di Isa con i genitori. È l'ambiguità della vita, il cui senso spesso sfugge a chi c'è dentro, che Bilge Ceylan racconta, da osservatore più che da narratore…

…Il faut parler de l'esthétique du film : les différents lieux sont magnifiquement photographiés, aux couleurs chaudes ou froides selon les saisons, selon le temps. Il faut dire que N.B.C. pratique la photographie, à l'image des personnages qu'il incarne à l'écran depuis 'nuages de mai'. Les scènes sont posées avec une minutie que l'on retrouve chez d'autres réalisateurs photographes (comme Abbas Kiarostami). Le réalisateur turc ne néglige pas le son, comme la dernière scène où tout s'estompe sous la neige sauf les aboiements de chiens au loin. 
   On pourrait trouver quelques parentés avec 
Nanni Moretti pour la manière de se mettre en scène à l'écran (voir Woody Allen, naviguant sur une large palette du dramatique au comique, ce dernier étant plus tragique que 'Uzak'), Ingmar Bergman pour la matière psychologique ou encore avec Théo Angelopoulos pour le travail sur la matière du temps. Mais l'oeuvre de Nuri Bilge Ceylan est unique, qui se construit au fil de ses films ('les climats' est le 4e.), à vous désormais de lui consacrer un peu de temps.

Avec « Les climats », Nuri Bilge Ceylan, réalisateur du remarqué « Uzak » nous donne à voir les dernières heures d’un couple, tout aussi émouvantes que douloureuses. Partis en vacances pour se ressourcer, l'homme et la femme peinent à communiquer et finissent par se déchirer. Mais alors qu'elle se détache, lui tente de revenir sur les traces de leur amour passé. Ainsi, après avoir opposé dans un premier temps, vacances ensoleillées et pourtant signes de malheur, contre voyage dans des contrées glacées et sentiments en état d'hibernation, l'auteur pose surtout la question de la possibilité d’une relance d’une relation amoureuse, pour de bonnes ou parfois mauvaises raisons. Il questionne l'amour et le regret…

A lot of the reason for the story and characterisation being so strong and involving, is again through Ceylan’s strong sense of pacing and his impeccable use of locations to draw out other unspoken elements. There are many scenes where the characters barely exchange a word, and even when they do speak, they do not always express their true feelings or motives. Through the use of lighting, props, locations, weather and numerous other little details however, the history and tension between each of the characters is fully understood…

giovedì 14 febbraio 2013

The mighty (Basta guardare il cielo) – Peter Chelsom

ci sono film magari imperfetti, ma che riescono a smuoverti qualcosa dentro,
cose come l'ingiustizia e l'amicizia, le capiscono meglio i bambini, ma se qualcosa, di quello, ti è rimasto vivo, questo film riesce a riportarlo a galla.
altrimenti condoglianze.
un piccolo grande film ti aspetta, se ancora non l'hai visto - Ismaele



Max è uno di quei ragazzi grandi e grossi, molto timidi e perennemente impacciati. Vive con i due nonni perché sua mamma è stata uccisa da suo padre, ora in galera. Kevin invece è uno di quei ragazzi che parlano molto, con un'intelligenza acuta e un buon senso dell'umorismo. Vive con la madre, suo padre un giorno è andato via e non è più tornato. Kevin è malato gravemente, può muoversi solamente con l'aiuto di stampelle. I due faranno amicizia, scoprendo la bellezza della vita e il dolore della morte.
"Basta guardare il cielo" è uno dei migliori film per ragazzi mai realizzati. Malinconico e divertente, triste e spensierato allo stesso tempo. Una sceneggiatura davvero bella è la colonna portante del film che pecca un po' in ingenuità nella regia, sebbene queste pecche non si facciano troppo notare. Il film procede in modo lineare, senza virtuosismi e affini, mantenendo uno stile sobrio e misurato, senza eccessi. Quello che però fa di questo film un piccolo capolavoro del suo genere, sono certamente le interpretazioni…

non si dimostrerà verosimile in ogni suo aspetto, però è innegabile come tale eventuale difetto sia in realtà dovuto alle squisite citazioni (ad esempio il nome Gwendella madre di Kevin, associato a Ginevra) del ciclo arturiano, che dunque sono certamente perdonabili ed anzi costituiscono un valore aggiunto.
Un film grazioso, con una storia accattivante e dei protagonisti memorabili. Riesce nel suo scopo formativo, scegliendo il giusto approccio per affrontare tematiche altrimenti risapute. Vanta diversi momenti simpatici ed altri sinceramente commoventi. Una riflessione sempre attuale, che andrebbe mostrata senza dubbio ad ogni individuo nell'età fra l'infanzia e l'adolescenza, ma che saprà conquistare pure un cuore più maturo…

E' una favola "nera" commovente e liberatoria, insegna come "fuggire" dalla dura realtà per poi affrontarla a viso aperto con l'ingegno e la prodezza, superando i traumi ed i complessi che la crudeltà degli altri costringe a subire. I limiti possono trasformarsi in pregi nel momento in cui si uniscono le forze, quelle del cuore e del cervello, in sincrono. Senza retorica e facili meccanismi, Chelsom ci fa eccitare, gioire e piangere in simbiosi con i due simpatici protagonisti: anche noi, nel finale, corriamo disperati e proviamo un misto di ira e ammirazione davanti ad una beffarda sorpresa…

Lake Mungo - Joel Anderson

mi ha ricordato molto "The Blair Witch Project", la differenza è che qui si "vede" qualcosa, l'immagine di Alice (morta?), la tensione cresce e un paio di sobbalzi li fai, il film è quasi tutto sottovoce, non si strepita, "The Blair Witch Project" mi aveva preso (e spaventato) di più.
comunque una buona opera prima (magari troppo sopravalutata, per i miei gusti) - Ismaele



Il regista ci tiene attaccati al video con un modo aggraziato e delicato di affrontare la morte di una persona cara. Persino quando la vicenda si sporca e sembra trascinare i protagonisti in una spirale discendente, non si perde mai il controllo della situazione e non si cade in una bieca retorica.

Il finale capolavoro chiude il cerchio in un modo così perturbante che allo spegnimento del lettore ho dovuto trattenermi dal fare un piccolo salto di gioia per avermi fatto provare quella sana paura che un buon horror dovrebbe riuscire a suscitare. Un GRAZIE ad Anderson per aver partorito questo piccolo gioiello che non lascia indifferenti…


…Si entra quindi lentamente, molto lentamente nel cuore della pellicola e della vicenda raccontata: il fulcro orrorifico legato alla povera Alice, scomparsa improvvisamente mentre era in gita con la famiglia, fuoriesce per mezzo delle pacate parole dei genitori e del fratello, persone che hanno vissuto con la sofferenza di tale perdita ma che hanno accettato il dolore e riescono a guardare avanti. C’è molto realismo nella costruzione dialogica, le domande poste e soprattutto le risposte sono credibili e intense, così come le recitazioni, tanto che, quando la storia inizia a prendere una piega soprannaturale, basta anche solo che il padre racconti di aver visto il fantasma della figlia per creare una notevole cappa d’inquietudine…


Lake Mungo è un signor film.
Nonchè il primo titolo "di genere" da parecchio tempo a questa parte in grado di lasciarmi addosso una profonda sensazione d'inquietudine amplificata senza dubbio dall'atmosfera che ha fatto da cornice alla visione - casa Ford tutta nel mondo dei sogni, orario tra sera e notte, luci spente, solo il Bushmills a tenermi compagnia - ma ugualmente in grado di ricordarmi momenti di turbamento che solo il vecchio Lynch, normalmente, riesce a trasmettermi…


Lake Mungo dal punto di vista estetico è un vero mockumentary, cioè la simulazione di un vero documentario, non uno di quei soliti film in cui uno dei protagonisti maneggia la telecamerina simulando la visione in prima persona.
Anche qui si moltiplicano le fonti attraverso cui vengono catturate le immagini ( videofonini, macchine fotografiche, telecamere) ma servono solo per rafforzare le affermazioni di questa sorta di documentario.
Siamo quindi al livello della riproduzione di una storia inventata facendola passare per vera ( c'è una scritta all'inizio del film in cui si afferma che il film è ispirato a eventi realmente accaduti) e cercando di provocare nello spettatore la sensazione di assistere a qualcosa che è veramente successo.
Se si vede il film senza essere informati sulla sua natura non si capisce che è tutta fiction.
Quindi si tratta di un'operazione di adulterazione più sofisticata di quella a cui ci ha abituato il genere tanto di moda oggi…

giovedì 7 febbraio 2013

Recordações da casa amarela – (Ricordi della casa gialla) - João César Monteiro


João César Monteiro lo vedi e già sai che è vero, non finge.
Joao de deus è uguale, è di un altro pianeta, meno male è venuto a visitarci.
attraversa la vita di un Portogallo che è il mondo, con la sua dignità e la sua (sov)versione della "normalità".
non per tutti, purtroppo per i tutti, imperdibile - Ismaele



Monteiro l'autonomo, Monteiro che se ne fotte un po di tutto l'andazzo sconfortante dell'essere cittadino inserito in società, Monteiro il maestro. Monteiro il borghese annoiato che non crede nell'io sociale, mentre gli altri autori fagocitano e assimilano un loro personaggio per approvazione, Monteiro segue la strada più tortuosa, o forse non segue nessuna strada, era malato ed è morto da malato, quale era il suo genio , senza ingrassare il suo curriculum vitae da alternativo come fanno invece i c.o.g.l.i.o.n.a.z.z.i finto borderline. Ma quanto c'è in tanti esuli dal modello sociale impostoci del personaggio Joao de deus?, c'è tantissimo, ogni pensiero mentale è perversione, questo appare ad ogni atto, ogni atto è finalizzato alla soddisfazione sessuale, non importa se urticante alla morale comune, e non mi riferisco certo alla raccolta dei peli pubici femminili di Joao, intendo anche nell'azione più normale durante un quotidiano che manca, quello che può tener in vita un soggetto individualista e autonomo può essere anche toccare un pelo pubico femminile.
Monteiro si fa beffe della patria e dei suoi alti ufficiali in comando, quando Joao si traveste da essi e mima comportamenti tra i più dementi che un uomo possa compiere, il fatto è che per la maggior parte della gente essere soldati o ufficiali e la normalità, anzi è un vanto, non per Monteiro. Il suo Joao travestito da guardia nazionale è un corpo sarcastico e immemore delle convenzioni mondane. Questo film capolavoro è uno schiaffo in faccia alle imposizioni dequalificanti del vivere in comune sotto regime nell'europa odierna, Monteiro ci dice abbasso la collettività e le leggi della massa informe. Viva il far west, abbasso la zombificazione matematica dell' individuo attraverso il lavoro e il sociale. Viva le belle erotiche carni delle giovani ragazze quattordicenni in erba , viva il guizzo istintivo, lo smemoramento di sè, il coito antisociale, il disimparare, il destrutturare, lo smembrare la lezioncina che ti hanno insegnato. Monteiro autore Inimitabile e inimitato.





Se l'azione è poca e i dialoghi talvolta latitano, comunque il gusto per la composizione della scena è molto valido e nei momenti in cui è da solo (spesso) Monteiro riesce a colmare qualsiasi assenza - di parole o di interlocutori - con quello sguardo laconico e quell'aria perennemente assorta che ne fanno una figura profondamente comica soltanto allo sguardo. Ma di una comicità appunto profonda, esistenziale, malinconica all'ennesima potenza e dal retrogusto nauseabondo: perché il sarcasmo di Monteiro genera più mal di stomaco che risate aperte. Sebbene all'epoca venisse premiato col Leone d'argento a Venezia, questa pellicola non ebbe una grande distribuzione in Italia: e difficilmente i film di Monteiro diventeranno mai celebri in una nazione in cui non c'è spazio per uno spirito iconoclasta e anticlericale (qui meno del solito, va riconosciuto, ma sempre presente in sottofondo) come il suo…

Monteiro è un cineasta del quale si vorrebbe vedere di più (ha girato una ventina di film ed almeno "A comédia de Deus" è un cult), perché di cineasti come lui ce ne sono pochi, e purtroppo anche lui ci ha lasciato. In questo "Ricordi della casa gialla" ha dato il meglio di sé, intessendo il film di umori (e, verrebbe da dire, odori) anche schifosi, doppi sensi (quello del clarinetto è lampante, ma ve ne sono altri) ed un linguaggio talvolta apertamente scurrile ma, si badi bene, mai volgare. E non è facile. L'allampanato regista è molto bravo anche nei panni d'attore, così come reggono benissimo la parte altri interpreti sconosciuti alle grandi platee, ma di grande valore, come Ruy Furtado nella parte del signor Armando, Luìs Miguel Cintra, un Messia da manicomio criminale, e Manuela De Freitas, una Violeta di inaudita rapacità…

mercoledì 6 febbraio 2013

Su su per la seconda volta vergine - Koji Wakamatsu

è il terzo film di Wakamatsu che vedo, e anche qui è davvero di un altro mondo, ti cattura nelle sue storie e non puoi scappare, anche qui c'è un crescendo di interesse, i giovani del tempo, amore, poco, e sesso e morte, molto, musica, bianco e nero e colore nello stesso film, pianto e riso, un film davvero intenso.
da non perdere - Ismaele


QUI il film completo (con sottotitoli in inglese)

Nel cinema di Koji Wakamatsu, il ritratto del male è sempre ridotto all'osso, alla sua scarna essenza di squallore e sofferenza. La sua arte è una poesia sbiadita e rassegnata, diluita nell'inchiostro annacquato del dolore; ma la reticenza e l’apparente distacco sono solo l’effetto della lontananza, del dislivello che separa la superficie della realtà dal fondo dell’anima, in cui si trovano le ferite più gravi ed insanabili.  Il nichilismo dei personaggi di questa storia deriva dall'impossibilità di arrivare con la mente e con il cuore fino a toccare quell'abisso, per comprendere l’origine della loro mortale disperazione.  La loro ricerca di un perché si esaurisce nel loro inutile vagabondare su e giù per le scale di un palazzo, dalla terrazza fino alla cantina: un viaggio astratto e inconcludente tra i  gironi di un inferno interiore, in cui l’unica certezza raccolta a metà strada è la banale logica della vendetta. Ad avere senso è solamente un freddo meccanismo assassino, come risposta naturale ed automatica al cinismo dell’offesa subita, o come radicale rimedio ad un madornale errore commesso…
da qui


…Ha il difetto di essere parecchio intellettualistico e francamente non sempre comprensibile, ma è riscattato da un talento visivo innegabile e da un sapiente utilizzo dell'unità di luogo (la terrazza). Certamente si tratta di un film intenso, le cui immagini restano negli occhi degli spettatori: possono respingere, ma non certo lasciare indifferenti…

 Pochi giorni di lavorazione e un budget all’osso raramente hanno prodotto qualcosa di memorabile al livello di Su su, per la seconda volta vergine, il film-manifesto del primo Wakamatsu, in cui il regista condensa, in un'ora abbondante di disagio palpabile, il sottile mix di esistenzialismo avant e fascinazione per le tematiche di sesso brutale e violenza efferata. L'amore è lontano mille miglia, un miraggio che per un attimo sembra concretizzarsi negli sguardi dei due protagonisti, martiri e carnefici, emblema dell'impossibilità di un rapporto tra i sessi che sia paritario e basato sulla reciproca soddisfazione. Rabbia e nichilismo che esplodono in sete di vendetta di fronte alla bestialità del (resto del)l'umanità, preda di un istinto sessuale insaziabile e perverso tanto nelle giovani generazioni (i teppisti tossici che si aggirano per il condominio in cui il film è ambientato) che nelle precedenti (gli scambisti bestiali che abusano di Tsukio). Violenza chiama violenza in un anno zero post-apocalittico che in fondo poco ha a che fare con la sua epoca di speranze (il '68 appena trascorso), mentre molto strettamente si lega al dna post-atomico giapponese o al declino amaro dell’utopia hippie: tutt'altro che casuale, in questo senso, il legame con il lato più oscuro evidenziato dall'apparizione sulfurea di Roman Polanski e Sharon Tate tra le pagine di un manga.

Though running barely over an hour, Go, Go Second Time Virgin packs a tremendous amount of artistry into every scene. The relentless, downbeat atmosphere will prove tough going for many viewers, as will such bizarre flourishes as alternating the predominantly black and white footage with startling colour inserts (usually for violent moments). Despite the casual, frequent displays of nudity, the film's depiction of sex could hardly be described as erotic; instead, physical contact is presented as a temporary balm to relieve the agony of day to day existence in the big city with families insensitive to the needs of their children. Teen rebellion has never looked so grim. The elements used for this DVD, another in the impressive line of Japanese cult releases from Image and the American Cinematheque, appear to be in excellent shape and boast a nicely detailed, clean image. The scope photography is well preserved with anamorphic enhancement to wring every last detail out of the print, while the burned in subtitles are easy to read. The disc also includes a shot-on-video interview with Wakamatsu, introduced with some on-the-fly artsy tracking shots, in which he discusses his career and offers some concise remarks about the state of Japanese cinema both past and present. Not for everyone, obviously, but this is a good place to start to learn more about a director who remains almost entirely unknown in the West.